approfondimenti

EUROPA

Quale Europa è al capolinea?

Riflessioni politico-economiche intorno all’attualità che vive lo spazio della Ue a partire dal nuovo libro di Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo e Mariana Mortágua Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea

Siamo a pochi giorni dalle elezioni e mai così polarizzato è stato il dibattito sul futuro dell’Europa. Un passaggio decisivo che segnerà un nuovo equilibrio tra le forze conservatrici che difendono la scala sovra-nazionale legandola all’attuale regime di regolazione del capitalismo europeo e le forze sovraniste, espressioni di un nazionalismo più o meno radicale, favorite da una nuova congiuntura globale. È esattamente contro questa asfissiante divaricazione che si schierano Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo e Mariana Mortágua con Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea edito da Rosenberg&Sellier (pp. 207, 14 euro).

Un testo che coniuga stile divulgativo con un limitato ricorso alla formalizzazione algebrica e che rappresenta un contributo utile alle ragioni di un europeismo radicale, non solo ostile alle sirene ordoliberali che incantano da tempo una parte della sinistra istituzionale, quanto un volume vigorosamente contrario alle soluzioni nazionaliste di sinistra. Un saggio di critica dell’economia politica (e non di “economia critica” direbbe Bellofiore) e come tale un testo fondamentalmente politico. Si astiene dal dare ricette per la cucina del domani, individuando invece terreni di lotta ancora da costruire.

Come accade per la buona parte dei libri utili, non mancano affatto di punti di divergenza. È anche per questo che vale la pena discutere con gli autori.

Di quale crisi esattamente parliamo?

È la domanda che attraversa il testo dall’inizio alla fine. Si tratta, dicono giustamente gli autori, di una crisi economica e politica insieme. Una crisi del regime di accumulazione neoliberale, assieme a una crisi del “comando politico” sul ciclo. La soluzione nazionalista, di qualunque colore essa sia, come vedremo più avanti, è da un lato il prodotto della crisi, dall’altro è destinata a diventare uno dei terreni attorno a cui si sta già riorganizzando elasticamente il regime neoliberale.

Nei primi capitoli viene fornita una parziale risposta a questa domanda. Il capitalismo del ciclo neoliberale, dicono gli autori, si è configurato come «una sorta di paradossale keynesismo finanziario e privatizzato». L’indebitamento delle famiglie (di quelle anglosassoni in primo luogo), insieme alle trasformazioni che hanno investito la produzione e il campo del welfare, hanno determinato una vera e proprio sussunzione reale del lavoro alla finanza. Quello pre-crisi «non è stato un capitalismo debole, stagnante, come spesso viene sostenuto da postkeynesiani e marxisti. Si è trattato invece di una configurazione capitalistica piuttosto dinamica, in grado di produrre consenso ed egemonia» – avvertono gli autori. Il consumo indebitato è stato il “motore della crescita”, fornendo lo sbocco finale per le esportazioni nette del Giappone, Germania e in ultimo Cina.

La crisi iniziata nel 2007, quindi, non corrisponde complessivamente alla fine dell’integrazione funzionale tra capitale finanziario e industriale tipica di questo ciclo, bensì solo alla crisi di quel “motore della crescita”. Il sistema neomercantilistico europeo non poteva a questo punto non essere coinvolto da una grave e specifica tensione. L’attuale fase stagnazionista, avvertono, alimenta la crisi di egemonia politica in atto. Quali spiegazioni economiche alla base della crisi sono state avanzate?

Il neomercantilismo tedesco e la teoria creditizia della moneta

Il libro si concentra su una delle principali spiegazioni sull’origine della crisi europea, relativa allo squilibrio delle partite correnti tra Germania (e i paesi satellite) e i paesi del sud. La scelta svela il principale obiettivo polemico del libro: il dibattito economico interno al sovranismo di sinistra. Anche se, in fin dei conti, alcune delle critiche avanzate, semmai con alcuni accorgimenti, possono essere estese agli altri nazionalisti, rosso-bruni, reazionari o post-fascisti che siano.

Fino allo sviluppo della crisi dei debiti sovrani il pensiero economico dominante non aveva prestato attenzione agli squilibri commerciali interni all’Europa. Erano convinti che si sarebbero autocorretti con il mercato. La libera circolazione di merci e capitali, favorita dal ruolo “attivo” dello Stato, avrebbe inter-temporalmente assicurato l’equilibrio delle partite correnti. Il consenso alle teorie delle aree valutarie ottimali è stato massimo fino al 2009, avvertono gli autori. Solo con il peggioramento della crisi europea, si è formato un nuovo consenso nel campo marginalista, ponendo l’attenzione oltre che alla severità dei bilanci pubblici anche agli squilibri commerciali. Si è affermata, ancor di più, l’idea che gli squilibri delle partite correnti contribuiscono all’accumulo degli stock dei debiti sovrani nei paesi della periferia. Oltre alle politiche di austerità gli Stati del sud avrebbero dovuto contenere ulteriormente i salari per riequilibrare l’esposizione commerciale con l’estero.

Lo squilibrio commerciale interno all’Europa ha finito per imporsi come “terreno di convergenza” con la riflessione critica postkeynesiana, che pur tuttavia si è mossa lungo un sentiero interpretativo alternativo. La gran parte degli economisti eterodossi (postkeynesiani e marxisti) è concorde nel ritenere che una delle principali cause della crisi europea risieda nel neomercantilismo tedesca e «nel prevalere di politiche economiche e di accordi istituzionali che vedono le eccedenze nette con l’estero come la sorgente principale dei profitti». Quasi tutti questi modelli, però, pur nelle varie differenze interne, si concentrano sul ruolo degli squilibri commerciali.

Gli autori, senza sottovalutare il neomercantilismo tedesco, mostrano in modo efficace che l’enfasi posta al ruolo e alla nozione stessa delle partite correnti ha il grave limite di occultare esattamente il cuore del capitalismo neoliberale, ossia la rilevanza dei flussi finanziari. In altri termini, tali modelli, finiscono per non considerare correttamente il ruolo della moneta e della finanza. È proprio a partire da questa grave miopia interpretativa che i sovranisti traggono la loro principale conclusione: frontiere, più rottura dell’euro, più moneta nazionale, più banca centrale nazionale, consentirebbero la riedizione delle mitologiche sorti progressive della svalutazione competitiva, capace di assicurare magicamente un rinnovato benessere alle classi subalterne. C’è un però. Sul piano strettamente politico, i nazionalisti la moneta la considerano e come. Ma – come per il pensiero economico borghese – diventa moneta “velo”, una espressione “neutrale”, un puro “segno”. Sparisce la funziona ordinatrice delle relazioni sociali di classe e la concatenazione delle operazioni di credito bancario. Così basterebbe solo sostituire i “cattivi” tecnocrati globalisti della BCE con un sovrano monetario “buono” e il gioco è fatto. Oggi la moneta consiste essenzialmente nel rapporto credito-debito – dicono gli autori – e ciò comporta l’esistenza di strutturali interdipendenze funzionali tra diverse aree del globo.

Le imprese esportatrici tedesche, quelle dei paesi “satellite”, o anche quelle italiane stanno “dentro” alla riflessione sul capitalismo finanziarizzato, non un “fuori”. Se non fosse altro, ogni scambio commerciale presuppone prima di tutto un credito fornito dalle banche per avviare la produzione, una scelta di investimento delle imprese, lo sfruttamento della forza lavoro e il pagamento del salario e, in ultimo, una domanda di consumo (talvolta a debito) che attende le merci. È solo la considerazione dell’intero “circuito della moneta” e della sua produzione endogena a chiarire la natura fondamentalmente monetaria e creditizia del capitalismo contemporaneo. Se però investimento e finanziamento non sono concettualmente la stessa cosa pretendendo teorie economiche autonome, non possiamo che attenderci ancora una volta conseguenze sul piano della geografia economica, evidenziando l’impossibilità per un rinnovato Stato-nazione di determinare le scelte che contano. Ciò che è rilevante nello studio dell’economia, si afferma, non sono solo gli scambi internazionali di merci, o le singole voci che compongono il reddito nazionale, ma la considerazione molecolare del sistema economico «come interconnessione di stati patrimoniali e attraversato da flussi di portafoglio: un sistema di ‘flussi di fondi’ che potrà confermare o meno la storia apparentemente raccontata dalle partite correnti».

Solo se si assume la prospettiva macro-monetaria della produzione, l’opzione nazionalista perde ogni rilevanza sul piano economico. Si comprende così che il progetto politico sovranista non è altro che una espressione interna al nuovo regime di accumulazione globale che prende forma.

Le catene del valore transnazionali

Il problema del punto di vista sovranista emerge ancora più chiaramente quando gli autori passano ad analizzare le catene del valore transnazionali interne all’Europa. L’integrazione dei sistemi produttivi comporta, come noto, una articolata geografia capitalistica irriducibile a qualsiasi modello interpretativo legato alle teorie nazionali della dipendenza. Ancora una volta è la crisi ad aver accelerato la nuova riorganizzazione industriale.

Un primo fenomeno riguarda lo spostamento a est dell’area manifatturiera della Germania (Austria, Romania, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia, Lituania, Slovenia, Polonia, Bulgaria) tramite il ridisegno delle catene del valore con al vertice le imprese oligopolistiche tedesche. Un processo di «diversificazione produttiva combinata con uno di specializzazione», in parte intersecato, almeno recentemente, dal progetto “Industria 4.0”, che ha finito per indebolire il confine tra il settore dell’industria e quello dei servizi.

Il secondo consiste nell’«impoverimento della matrice produttiva» nel sud Europa. Con la particolarità dell’Italia, in posizione di sub-fornitura tedesca ma nel contempo capace di generare autonome catene transnazionali che coinvolgono le imprese del nord. Che poi se si vuole, non è altro che l’altra faccia del rapporto tra sviluppo e sotto-sviluppo, nord e sud Italia, analizzati oramai tanti anni fa da Luciano Ferrari Bravo. Tra l’altro si tratta di una riorganizzazione produttiva che risponde al mutato equilibrio tra le diverse are continentali del pianeta Usa, Russia, India e al rallentamento della crescita cinese.

A questo punto, se ancora non fosse sufficientemente chiaro, inviterei a sovrapporre la cartina delle catene del valore a quella dei partiti dell’onda nera, per comprendere chiaramente come il nazionalismo reazionario e post-fascista risponda esattamente ai problemi dell’impoverimento della lumpen borghesia e degli interessi capitalistici europei minacciati dalla stagnazione.

Lo «stato imprenditore» e il Piano del lavoro

La crisi economica, diventata stagnazione si è poi trasposta sul terreno di una profonda crisi politica. L’emergere delle opzioni nazionaliste è, a un tempo, l’esito della crisi e l’acceleratore della dissoluzione europea.

I critici “della moneta unica” farebbero bene a considerare almeno altre due cose, avvertono ancora gli autori. Lo squilibrio (di reddito, salariale, complessivamente in termini di sviluppo) interno ai paesi dell’UE è iniziato ben prima dell’introduzione dell’euro. La moneta unica, richiamando le critiche di Suzanne de Brunhoff, non doveva nascere affatto così. Ma chi oggi spinge per un’uscita dall’euro deve sapere che essa porterà inevitabilmente a «più e non meno austerità».

Il testo si chiude con una serie di generali indicazioni politiche, assumendo il contesto europeo come spazio minimo. Per superare gli squilibri servirebbe un’autentica unione bancaria, un bilancio europeo e una politica fiscale continentale. Un aumento degli investimenti pubblici coperto con eurobond. Una reflazione salariale accompagnata a un aumento della produttività mediante intervento sulla struttura produttiva guidato da uno “stato imprenditore” à la Mazzucato. Riprendendo Hyman Minsky, invece, sarebbe necessario un nuovo New Deal «come base strutturale per uno sviluppo qualitativo in cui lo stato intervenga sul piano del cosa, come e quanto produrre, facendosi occupatore diretto della forza lavoro». E aggiungono: «L’ispirazione dovrebbe essere quella del Primo Piano del lavoro, di cui parlano Ernesto Rossi e Paolo Sylos Labini». In definitiva “socializzazione degli investimenti” à la Minsky, politica fiscale espansiva con disavanzi “attivi” di bilancio e orizzonte di piena occupazione.

Ma davvero sta tutta qui la proposta politica?

Se sul piano della critica al sovranismo si può facilmente convergere con gli autori, su quello delle prescrizioni politiche, soprattutto, emergono diverse problematicità che proverò molto brevemente a schematizzare.

L’enfasi posta sulla “critica alla rottura della moneta unica”, pur essendo assolutamente condivisibile in linea di principio, sembra piuttosto non corrispondere, almeno in questa fase, al dibattito interno al nazionalismo reazionario. L’eventuale dissoluzione del quadro europeo non passerà, almeno in prima istanza, attraverso la rottura della moneta unica. Sono piuttosto altre le “faglie”: dal controllo dei confini, alle politiche distributive fino alla difesa degli interessi delle imprese. Quale sia il contenuto comune della politica economica dei nazionalisti di destra è qualcosa che forse va ancora studiato. I sovranisti neri sembrano tutt’altro che veramente intenzionati a mettere seriamente in discussione l’apparato ordoliberale europeo. Mentre, la resa dei conti con i sovranisti di sinistra, assolutamente opportuna sul piano teorico e politico, non corrisponde al momento ad un reale “pericolo” di queste formazioni.

L’orizzonte della socializzazione degli investimenti, ma soprattutto quello della costruzione di uno Stato che si fa occupatore diretto della forza lavoro, porta con sé numerosi problemi di primo ordine. Si è detto, il ciclo neoliberale ha modificato alla radice la forma-Stato. Non si esce dal neoliberismo passando linearmente ad uno Stato della socializzazione degli investimenti à la Minsky. Pensarlo, significa non aver fatto i conti fino in fondo con la trasformazione istituzionale e politica e la forte scomposizione dei luoghi decisionali impressa dal neoliberismo. Secondo, significa trascurare che il modello di democrazia, connesso allo Stato che decide “cosa, come, e quanto produrre”, presuppone da un lato, la funzione di un partito-massa, aperto, poroso ed organizzato, dall’altro, l’illusione di un governo (nazionale o sovranazionale) che detiene davvero tutte le leve del comando. Ammesso che sia desiderabile tale orizzonte, e non è il caso di chi scrive, dove sono ravvisabili in Italia ed in Europa le forze politiche che sorreggerebbero questa impresa? Piuttosto l’illusione idealistica di un ritorno ad un nuovo Stato capace di “programmare verticalmente l’economia”, varrebbe la pena insistere sulla costruzione di contro-poteri diffusi, istituzionalità autonoma che innerva la società, a cui non si esclude neppure, quando le condizioni lo permetterebbero, la funzione del governo.

Il riferimento alla trasformazione delle catene produttive transnazionali è estremamente promettente e significativo. Ma anche quando gli autori parlano della crisi del confine tra industria e servizi connesso alla nuova ondata di innovazione tecnologica, sembrano mantenere uno sguardo asimmetricamente sbilanciato sulla manifattura. Fino a rischiare di non cogliere fino in fondo lo stesso processo di “terziarizzazione dell’industria” che intravedono. Varrebbe la pena rileggere il discorso sulle catene del valore alla luce degli studi sulla “moltiplicazione del lavoro”, per dirla con Mezzadra e Neilson. Studi che consentono di osservare che lungo tali catene della produzione si dà un’esplosione delle forme di lavoro, attraversata dalle fratture della “linea” di genere e di razza. Dire catena del lavoro globale, significa talvolta fare i conti fino infondo con la crisi della «società salariale», almeno per come l’abbiamo ereditata. E dire crisi della «società salariale», vuol significare, che non se ne esce dalla situazione contingente fatta di precarietà strutturale, working poor, desalarizzazione di diverse attività, diffusione del lavoro autonomo, solo con un rinnovato Piano del Lavoro e con l’orizzonte della piena occupazione. Significa, come ripetiamo oramai da tempo, smetterla almeno con la distinzione ideologica tra lavoristi e redditisti, assumendo un piano che contenga in modo intelligente un reddito di autodeterminazione così come formulato recentemente dalle femministe (altro che quello del M5S!), insieme ad un salario minimo, ad una riduzione dell’orario del lavoro e a interventi di socializzazione degli investimenti in alcuni campi.

Di questo libro si parlerà venerdì prossimo al Csoa La Strada durante l’iniziativa Europe For All