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MONDO

Qualche considerazione geopolitica sul Venezuela

Al di là delle dinamiche interne tuttora aperte, è utile approfondire il contesto internazionale che condiziona fortemente lo scontro in atto in Venezuela e in parte ne spiega anche lo stallo

Poche settimane fa la statunitense Foreign Affairs pubblicava Venezuela’s Suicide per far luce sui recenti avvenimenti di Caracas. L’articolo ci suggeriva di prendere in considerazione due paesi latino-americani. Il primo è un’oasi democratica nel deserto subcontinentale. Un modello di libertà liberale che grazie a una duratura alleanza politica ed economica con gli Stati Uniti è riuscito ad attirare un cospicuo numero di corporazioni multinazionali e a vantare il miglior sistema infrastrutturale del Sud America. Il secondo racchiude una delle regioni più violente dell’America Latina e ne rappresenta la sua più recente dittatura. Un failed state i cui sistemi sanitario e scolastico sono stati devastati da decenni di corruzione e negligenza. Un territorio al collasso.

Questi due paesi, ci spiega Foreign Affairs, sono di fatto un paese solo: il Venezuela in due epoche differenti, i primi anni ’70 e oggi.

Ora prendiamo gli autori dell’articolo in questione. Il primo è Moisés Naím, già Ministro del Commercio e dell’Industria del Venezuela nel governo di Carlos Andrés Pérez, già Direttore Esecutivo della Banca Mondiale. È Senior Associate del Carnegie Endowment for International Peace, think tank di politica estera – istituito nel 1910 dal magnate dell’acciaio Andrew Carnegie – che pubblica la rivista Foreign Policy, di cui Naím è stato caporedattore per quattordici anni. Il secondo è Francisco Toro, Chief Content Officer del Group of Fifty – organizzazione, fondata dallo stesso Naím, che raccoglie i maggiori azionisti e CEO’s delle più importanti e influenti compagnie dell’America Latina per discutere a porte chiuse di una varietà di argomenti, dalla geopolitica agli affari «and everything in between». Insomma, non proprio gente del popolo. Per intenderci, nulla di nuovo: che i non-state actors, tra cui think tanks e gruppi di pressione, orientino le politiche estere dei rispettivi governi e facciano parte a pieno titolo della politica globale non è una novità. Altrettanto pacifico è sostenere che spesso a farne parte siano figure imprenditoriali con forti interessi economici che cercano di trarre beneficio dalle politiche governative. Non deve sorprendere quindi se a scrivere sulle riviste scientifiche, soprattutto di area anglosassone siano persone il cui obiettivo è la salvaguardia dei propri interessi economico-finanziari dietro lo schermo dei valori liberali. Eppure ci dà la cifra di quali siano oggi i teorici dell’opposizione al governo Maduro, che pure non merita sconti.

Torniamo al Venezuela, cercando di far luce sul contesto geopolitico, sulla crisi recente e gli interessi a questa legati, al di là di facili entusiasmi e in un momento di apparente quiete in cui il fervore mediatico sembra superato. Il tentativo di rovesciare il governo si trova infatti in una fase di stallo, con una destra non in grado di riempire le piazze come la controparte e, ad ora, incapace di forzare Maduro a negoziazioni in condizioni avverse.

 

 

Con la morte di Chávez, il meno fortunato successore, privo delle stesse doti carismatiche, è stato per di più danneggiato da una situazione internazionale segnata dal crollo del prezzo del petrolio. Da sempre variabile fondamentale in Venezuela, fu proprio il petrolio a regalare al Venezuela la stagione del “dame dos” negli anni ’70. Il periodo aureo venezuelano non fu però dovuto all’impianto liberale del paese né tantomeno a una duratura alleanza con gli Stati Uniti: decisamente più onesto è riconoscere che sia invece da attribuire alle ingenti entrate petrolifere, ulteriormente gonfiate in quegli anni da un contesto favorevole, cioè da un’impennata del prezzo del greggio conseguente  alla Guerra del Kippur e all’embargo arabo verso i paesi filo-israeliani che favorì i paesi OPEC non coinvolti nelle dispute mediorientali: il Venezuela divenne di fatto il maggior esportatore verso gli Stati Uniti. Da qui una costante crescita e il fiorire di quell’importante sistema infrastrutturale di cui parla Foreign Affairs.

Riconfermato con largo margine per un secondo mandato presidenziale a gennaio, Maduro è stato certamente aiutato dall’incapacità dell’opposizione di reperire un candidato credibile che fosse in grado di aggregare una destra tradizionalmente violenta e frammentata.

La crescente ostilità dell’opposizione e internazionale – culminata con la singolare autoproclamazione di Guaidó come presidente ad interim – è stata favorita da una crescente violenza interna causata dalle sanzioni degli Stati Uniti e tatticamente fomentata dalla destra. Ma il mutamento del contesto geopolitico regionale ha di certo fatto la sua parte. L’America Latina è sempre stata un laboratorio politico e sociale: lo fu inizialmente con Perón e la sua terza via; lo è stato a partire dagli anni ’70, quando i Chicago Boys portavano a compimento in un Cile autoritario esperimenti neo-liberali che sarebbero poi stati esportati altrove; ma lo è stato anche a partire dagli anni ’90, quando governi progressisti hanno cominciato a intraprendere politiche post-neoliberali in quasi tutto il subcontinente. Insorgenza zapatista del 1994, presa del potere di Chávez nel 1999, rivolta di Buenos Aires nel 2001, cocaleros boliviani e Sem Terra brasiliani: tra la grande insurrezione dei poveri di Caracas nel 1989 e lo “sciopero della cittadinanza” che nel 2005 destituisce Gutiérrez in Ecuador, uno straordinario ciclo di lotte percorre sotterraneamente l’intera America Latina.

Il recente crollo di queste forze in Argentina e Brasile ha però interrotto il ciclo progressista, lasciando il Venezuela in una situazione di isolamento regionale ulteriormente aggravato dalle difficili situazioni di Bolivia ed Ecuador. Nel primo caso, un Morales danneggiato dalla decisione di ricandidarsi per un quarto mandato ha perso buona parte di consenso. Nel secondo caso, il nuovo presidente Lenín Moreno ha sorprendentemente preso le distanze dalla linea politica tracciata dal governo di Correa e poggiata sul ruolo attivo dello Stato e su massicci investimenti nel settore pubblico, per non parlare dell’abbandono di Assange alle vendette USA.

Seppure il Messico si ponga in controtendenza grazie alla vittoria di Obrador a luglio, la regione è retta oggi da governi di destra e centrodestra ideologicamente distanti dal chavismo.

Se si aggiunge a questi elementi il fatto che l’attuale governo venezuelano non gode di un sostegno dell’esercito pari a quello di Chávez, risulta facile comprendere perché la Casa Bianca ha atteso questa congiuntura storica per supportare il tentativo di rovesciare Maduro. Una vittoria in politica internazionale gli è indispensabile per non presentarsi a mani vuote allo scadere del primo mandato presidenziale e vede nel Venezuela una facile occasione in questo senso.

Naturalmente nel paese si gioca una partita molto più grande con implicazioni non solo locali o continentali ma soprattutto globali. Il protagonismo di attori extraregionali come Russia e Cina è un’evidente manifestazione dell’importanza strategica del Venezuela. Occorre perciò partire dal contesto geopolitico internazionale per una comprensione accurata della posta in gioco.

La crisi attuale della globalizzazione e della Pax Americana non è contraddistinta solo dal declino di un Impero che non riesce più a plasmare autonomamente le strutture della governance globale ma anche e soprattutto da una tendenza regionalizzante della politica economica. La crisi egemonica degli Stati Uniti ha lasciato un vuoto politico in cui altre potenze hanno ben presto fatto incursione. Questo è evidente nel caso della Russia, che con l’annessione della Crimea e il nuovo protagonismo in Medio Oriente cerca di riconfermarsi come grande potenza globale dopo il collasso dell’Unione Sovietica. È evidente nel caso dell’Europa a guida tedesca che – nonostante Brexit, crisi migratoria e ondate populiste – sembra essere in grado di far valere il suo potere normativo per presentarsi come fondamentale pilastro di un nuovo ordine internazionale. E lo è in maniera più eclatante nel caso della Cina che, grazie alla sua rapida crescita economica e un potente apparato militare, cerca l’egemonia regionale nel sudest asiatico, vero centro della competizione geopolitica sino-americana. È alla luce di un nuovo ordine multipolare che va dunque letta la situazione venezuelana.

 

 

In questo quadro, Cina e Russia vedono nel Venezuela un’ulteriore occasione per minare un’egemonia statunitense già di per sé traballante. Insieme a Turchia e Iran rappresentano i principali sostenitori del governo di Maduro e, seppur con forme e strategie differenti, difendono entrambi quegli interessi politici ed economici indispensabili ai loro progetti di sviluppo ed espansione in un mondo non più bipolare.

La rinnovata rivalità con gli Stati Uniti rimane la chiave per interpretare l’atteggiamento russo nella crisi venezuelana. Sempre più verso oriente, l’espansione della Nato a seguito della caduta del muro di Berlino ha generato in Russia un senso di accerchiamento di cui la crisi ucraina è stata la conseguenza più evidente. Ben venga dunque che gli Stati Uniti continuino ad avere governi nemici in una delle proprie sfere di influenza, il “cortile di casa” latino-americano. Senza contare la posizione strategica del Venezuela che, insieme a Cuba, ne fa un fondamentale avamposto dei russi Oltreoceano.

Agli interessi geopolitici occorre aggiungere quelli economici: avendo finanziato il Venezuela per circa 20 miliardi di dollari dal 2006, la Russia è oggi uno dei più grandi creditori di Maduro. Ma il legame tra Mosca e Caracas è dovuto solo in parte ai prestiti russi, mirati a evitare un potenziale default causato dalle sanzioni economico-finanziarie decise da Trump. Altrettanto importanti sono i collegamenti nel settore energetico – si pensi che nel 2017 il colosso di stato Rosfnet ha di fatto preso il controllo del 49,9% della Citgo, filiale della venezuelana PDVSA negli Stati Uniti indispensabile per la raffinazione del greggio – e in quello relativo all’industria bellica: il Venezuela rappresenta il maggior importatore di armi russe dell’intero Sudamerica, con contratti da miliardi di dollari che spaziano dai tradizionali kalashnikov ai più sofisticati sistemi di difesa antiaerea.

Da parte sua, la Cina ha prestato al regime chavista più di 60 miliardi di dollari dal 2007, qualificandosi come il paese con cui Caracas vanta più debiti. Ma in questo caso sono le dinamiche geopolitiche a incidere maggiormente. A differenza della Russia, la Cina non cerca uno scontro diretto con gli Stati Uniti. Cercando di non presentarsi al mondo come un rogue state, Pechino ha tutto l’interesse di mostrarsi alla comunità internazionale come attore globale credibile e responsabile, in grado di rimpiazzare gli Stati Uniti in un ipotetico ordine internazionale «con caratteristiche cinesi». Allo stesso tempo il petrolio venezuelano rimane alla base della strategia cinese di sviluppo ed espansione che potrebbe portare a tale ordine – dopo USA e India è il maggior importatore di greggio. Questo certamente aiuta a spiegare l’atteggiamento del Ministero degli Esteri cinese che, se ha prontamente dichiarato il suo sostegno a Maduro, ha successivamente annunciato di voler mantenere stretti contatti con tutte le parti: la Cina porta avanti la sua tradizionale politica di non interferenza negli affari interni di altri paesi, ma non è da escludere che decida di privilegiare un approccio strategico di lungo respiro e quindi scaricare un traballante Maduro qualora il potenziale successore rassicuri Pechino sulla continuità dei suoi interessi in caso di cambio di governo.

Leggere la crisi venezuelana alla luce del confronto egemonico tra Stati Uniti e Cina ha ancora più senso se si pensa alla Belt and Road Initiative, ambizioso progetto infrastrutturale che dall’Asia arriverà a toccare anche i governi amici del Sudamerica, tra cui il Venezuela, creando comprensibili preoccupazioni alla Casa Bianca. Ma soprattutto se si pensa al declinante ruolo del dollaro che, valuta di riserva globale, da decenni permette agli Stati Uniti di dominare il sistema delle transazioni internazionali. La sfida per la leadership mondiale tra Cina e Stati Uniti non si limita infatti al settore commerciale o scientifico-tecnologico ma si estende anche al controllo del sistema monetario internazionale. Pechino ha utilizzato per decenni il dollaro per le sue transazioni impiegando il surplus commerciale acquistando un enorme quantità di titoli americani. Se questo è il motivo principale per cui la rivalità tra i due paesi non è ancora degenerata in uno scontro diretto, l’atteggiamento della Cina teso a ridurre le proprie riserve in dollari – si pensi che oggi alla borsa di Shangai il petrolio è trattato in rimbimbi – sta gradualmente alterando questo equilibrio minacciando direttamente il primato americano.

 

 

In questa partita il Venezuela gioca un ruolo cruciale.

Le sanzioni dell’amministrazione Trump impediscono l’uso del dollaro al paese di Maduro e va da sé che, in un sistema in cui gli idrocarburi sono pagati in dollari e considerato che dal petrolio viene la quasi totalità delle entrate venezuelane, questo si trova di fatto escluso dai mercati internazionali. Similmente a quanto accade in Iran, queste sanzioni hanno messo in ginocchio un paese impossibilitato a usare i proventi del petrolio per pagare le importazioni e hanno spinto Maduro a sperimentare maniere più o meno creative di negoziare con i partner commerciali internazionali. Da un lato, vi è un rinnovato utilizzo delle riserve auree come mezzo di pagamento – e qui si spiega tanto il regime di sanzioni imposte dagli USA all’industria mineraria aurifera venezuelana quanto il recente rifiuto da parte della Bank of England di consegnare 1,2 miliardi di oro che il Venezuela custodiva nei suoi caveau. Dall’altro, vi è il tentativo di sostituire il dollaro con le criptovalute e aggirare in questo modo le sanzioni finanziarie statunitensi: il Petro va in questa direzione ed è sostenuto dalle ricche risorse naturali del Venezuela che vanno dall’oro al petrolio passando per i diamanti.

Queste manovre si inseriscono in un processo di de-dollarizzazione dell’economia su scala globale. Non è escluso che i paesi colpiti da sanzioni come Venezuela e Iran possano essere spinti verso la creazione di blocchi commerciali multilaterali con quei paesi, come Cina e Russia, che cercano di liberarsi dalla dipendenza del dollaro. Situazione molto spiacevole per gli Stati Uniti, che si troverebbero nella situazione di non avere i mezzi necessari a contrastare quel paese, il Venezuela, le cui risorse sono alla base dei progetti egemonici di Russia e Cina, suoi rivali nella lotta per la leadership globale.

In questo complesso quadro geopolitico risulta difficile fornire indicazioni precise, ma qualche considerazione può tuttavia essere ricavata.

L’Unione Europea si conferma come attore politico debole e ancora ininfluente su scala mondiale, legato a doppio filo a un impero declinante che vede nel Venezuela un’occasione di riscatto.

Gli Stati Uniti hanno dimostrato un graduale disinteresse negli ultimi anni per le regioni del sud. Gli eventi dell’11 Settembre e la nuova sfida del terrorismo internazionale avevano drasticamente ridimensionato l’importanza delle regioni del Sudamerica, riducendo le questioni latino-americane per lo più alla gestione del narcotraffico e dell’immigrazione illegale. Il nuovo assetto multipolare della politica globale e la graduale messa in discussione della leadership statunitense hanno però portato Washington a un cambiamento della politica estera, che sembra mostrare oggi un rinnovato interesse per il cortile di casa latino-americano.

In un contesto del genere – e in una situazione in cui un potenziale arresto di Guaidó porterebbe a una nuova escalation – è indispensabile opporsi a qualsiasi tentativo di esportazione di democrazia mediante intervento militare, sui cui insuccessi non c’è bisogno di soffermarsi. Che siano questi portati avanti dagli Stati Uniti o più realisticamente tramite governi amici come quello colombiano.

Il tentativo americano di rovesciare Maduro è teso a chiudere definitivamente il ciclo progressista di inizio millennio, scoraggiando le forze di sinistra del subcontinente e precludendo in questo modo la possibilità di una nuova ondata rossa. Senza cadere in entusiasmi anacronistici e lungi dal fare un’ingenua apologia del chavismo, è opportuno valorizzare il largo terreno di sperimentazione e costruzione politica portata avanti dalla sua azione. Con tutti i suoi limiti: puntando semplicemente al rafforzamento dello Stato si può ottenere qualche provvisorio vantaggio sul terreno della retorica politica e della competizione elettorale, ma è questione di realismo riconoscere che non si contribuisce a costruire quel potere che è necessario per sostenere nel medio periodo un processo di trasformazione e transizione. Ancora troppo legato a quelle retoriche sviluppiste che presentano l’estrattivismo come base di uno sviluppo mirato essenzialmente allo sfruttamento delle risorse naturali, il Venezuela dovrebbe sforzarsi di pensare a uno Stato che assuma un ruolo decisivo in un’economia diversificata e che mobiliti le risorse per rafforzare organizzazioni comunitarie e forme comunitarie di produzione. Cosa che sarebbe impossibile con un governo imposto o sponsorizzato dagli USA.