ROMA

Pronti al peggio (non c’è male)

Diario pubblico e post politico di un militante sull’orlo di una crisi di nervi

Alle 8.45 il treno in partenza dal capolinea Jonio è strapieno, per fortuna questa volta la lotteria di Atac ha estratto il vagone con l’aria condizionata. Sguardi rassegnati, persi, assonnati, eredi delle stesse facce, smorfie, bestemmie che popolavano la metro negli anni Ottanta. Il monitor manda a rotella notiziari vari, ricette di grandi chef, informazioni di servizio menzognere, immagini del disastro delle Marche e l’ultima uscita del probabile nuovo ministro degli interni, Matteo II: “I migranti? Ne ho le palle piene”. Poi un rapido passaggio sulla morte di Giuliano, ammazzato durante uno stage, e infine una Giorgia sorridente come la morte che puntualizza: “non mi sono dissociata dalla condanna fascismo come male assoluto”, seguito da un programmatico “bisogna liberare dalla morsa dello stato le imprese che creano lavoro e ricchezza”.

Scruto le facce, provo a entrare nella testa di vecchi annoiati, quarantenni in ghingheri, pischelli di seconda e terza generazione, alle prese con il loro mondo, materiale e virtuale, chissà quanto distante da queste macerie politiche. Ripenso alle letture estive, alle pagine de “La verità su tutto” di Vanni Santoni, storia di una docente quasi precaria e della riscoperta spirituale venti anni dopo le botte di Genova, nel mezzo di una vita sociale senza virtù e una vita sentimentale che gira su sé stessa. Mi ritorna in mente lo sguardo caustico, ironico ma non cinico, di David Foster Wallace, il suo grande cuore lacero, che viviseziona la società americana tra esperienze post umane su navi da crociera, avventure letterarie e adorazioni tennistiche. Infine, “In mezzo al mare”, il compendio illuminante della visione obliqua, disincantata e vitale di Mattia Torre. La protagonista di Santoni finisce a fare la santona, DFW si è suicidato, Torre è morto di cancro a 47 anni. Mi chiedo: noi, come siamo finiti qui?

La nostra generazione (brrr) si vanta di aver centrato le questioni epocali che hanno spinto il mondo verso la catastrofe, temi che oggi riempiono le pagine dei discorsi nei forum del capitalismo mondiale, delle organizzazioni internazionali, le agende di governo. Siamo stati parte di una radicata infrastruttura teorica, politica e militante, interna a possenti movimenti transnazionali, in difesa della scuola pubblica, dei beni comuni, dei diritti di cittadinanza. Tante parole d’ordine, nel giro di pochi anni, sono state sequestrate dagli slogan “democratici” di ogni risma (“soffocherai tra gli stilisti, imprecherai tra i progressisti”, cantava quella testa di cazzo di Ferretti). Siamo stati bravi, intelligenti e colti, ma abbiamo perso.


Oggi facciamo ancora cose importanti, necessarie, salviamo vite in mezzo al mare, proviamo con paletta e secchiello a togliere l’acqua dal mare dello sfruttamento (il nome comune del lavoro contemporaneo, altro che precarietà), animiamo spazi sociali stanchi e assediati, inventiamo un welfare che non è mai esistito in questo paese di pupazzi e assassini. Singolarmente, sopravviviamo poveri e dopati tra terzo settore-cooperazione-scuola-università-editoria-new media-servizi a basso valore aggiunto; come disoccupati fatichiamo più degli occupati, siamo acrobati dei sussidi, devoti alle scialuppe di salvataggio di mamme e nonni. Nel deserto affollato di questi anni, abbiamo scandagliato tutte le gradazioni della sconfitta: la fiducia religiosa nella fortuna delle moltitudini, la ricerca affannata di qualche centralità a basso costo, la riscoperta delle piccole patrie e delle comunità auto indulgenti, la ginnastica riot e la chiesa dell’autorganizzazione che non vota e non lotta, l’affabulazione nichilista che consola nella paralisi, il richiamo della foresta identitaria, le derive elettive benedette dalla borghesia, gli habitat paludati della Politica, quella seria, quella che conta.

In un pomeriggio tropicale mi ritrovo a San Lorenzo, mi incammino per via dei Volsci, partendo dal lato
delle mura. Nelle orecchie le note che sconquassano il cuore di “Polaris”, l’ultima perla dei Casino Royale; la voce dal sottosuolo di Alioscia Bisceglia mi accompagna in questo viaggio fuori dal tempo. Il Bouledogue è chiuso, come sbarrate sono le porte delle sedi politiche e il locale che ospitava il “33”. A tre metri dalla targa dedicata a Orfeo Mucci, una svastica rossa. Non c’è gente in giro, i vecchi murales cancellati. L’aria è ferma. Come in una sorta di gentrificazione nera, abitata dalla malavita, sembra che la vita sia scivolata più in basso, riempiendo la piazza del mercato di tavoli e sedie. Li accanto, in piazza dell’Immacolata, sei persone seguono un evento promosso in pompa magna dal municipio. Il mondo che conoscevo riprende forma, con coraggio e ostinazione, nel quadrante in basso, tra Esc, Communia, Palestra popolare e Atletico San Lorenzo.

Oggi, dentro la catastrofe ecologica e sociale, con la guerra nucleare che diventa una delle carte possibili del mazzo, la fiamma tricolore che illumina la tomba del duce diventerà il primo partito di questo bizzarro paese, per svolgere il compito che la storia gli ha assegnato: la faccia feroce del capitalismo quando il gioco si fa duro, amministrazione quotidiana di disumanità, bodyguard dell’egoismo proprietario. Insomma, un’agenda Draghi che ha perso la pazienza.

E allora ci lecchiamo le ferite, ci facciamo coraggio con le riserve residue dell’ottimismo della volontà, ce la prendiamo con i “traditori della sinistra” (che restano tali, traditori e impostori), ma dentro di noi sappiamo bene che questa storiella non basta più. Che questi venti anni da Genova chiedono il conto anche a noi.

Oggi sono i Fridays For Future che affollano la metro, in Iran le donne si rivoltano, in Russia si va in galera contro la guerra. Buona fortuna a tutte noi.