editoriale

Processo al Primo Maggio romano, 1891

Il 1 maggio 1891, a Roma, il comizio unitario per la Festa del Lavoro fu attaccato militarmente dalla polizia

 I fatti. Il 20 luglio del 1889 il congresso costitutivo della Seconda Internazionale decide di assumere la data del Primo Maggio come festa dei lavoratori, una mobilitazione generale e globale per rivendicare la giornata lavorativa di otto ore e per affermare l’autonomia e indipendenza del movimento operaio. In Italia la prima festa del lavoro del 1890 si svolse senza incidenti nonostante i divieti e il clima di terrore istaurato dal governo Crispi, che aveva inviato ai prefetti l’ordine di vietare qualunque pubblica adunanza o dimostrazione operaia.

Il primo maggio del 1891 a Roma si organizza un grande comizio unitario nei pressi di Santa Croce in Gerusalemme: associazioni socialiste, repubblicane, massoniche e anarchiche decidono di scendere in piazza insieme per la dignità del lavoro. Nonostante il ministro degli interni Nicotera abbia autorizzato il comizio, la piazza è militarizzata, il governo è in fibrillazione per la possibile presenza del garibaldino, comunardo e anarchico Amilcare Cipriani. Un fitto cordone di guardie a piedi e a cavallo circonda la piazza, al centro è allestito il palco della presidenza del comizio e intorno sventolano bandiere rosse e nere, i balconi dei palazzi circostanti sono affollatissimi. A un certo punto dal fondo della piazza si sente gridare: «Viva Cipriani! Viva la Comune!». Mille braccia, mille fazzoletti si alzano per salutare il leggendario Cipriani che viene condotto trionfalmente sul palco ma prima che possa cominciare a parlare l’ispettore di polizia fa squillare la tromba e ordina lo scioglimento del comizio. È l’inizio dello scontro. Il ministro dell’interno Nicotera (ex-garibaldino come il Crispi) il 2 maggio riferisce alla Camera sui fatti del giorno prima: i morti sono due, Carmelo Raco, guardia di pubblica sicurezza, ucciso da un colpo di pugnale alla spalla e da una ferita di rivoltella alla bocca, e il carrettiere di San Lorenzo Antonio Piscitelli, col cranio fratturato da colpi di fucile. I feriti sono ventisette, gli arrestati un centinaio tra cui Amilcare Cipriani. Alle critiche dell’opposizione il ministro degli interni Nicotera rivendica: «Ho portato tanta gente su di una piazza per metterla in trappola!». Tre quinti dei deputati applaudono alle parole del ministro.

Il processo. Dopo mesi d’istruttoria si arriva a metà ottobre al procedimento contro il gruppo dei principali imputati tra cui figurano Cipriani, Calcagno, Palla e gli studenti universitari Spadoni e Körner. Si è di fronte a un grande avvenimento giudiziario: sessantadue imputati stipati in un gabbione di ferro appositamente costruito, trentaquattro avvocati difensori, 125 testi d’accusa, 325 a difesa, fra i quali Felice Albani, Giovanni Bovio, Andrea Costa e il professore Antonio Labriola. Sono presenti anche i cronisti e inviati dei maggiori quotidiani. Fra gli imputati spicca la figura mitica di Amilcare Cipriani, con cappello a cencio, redingote nera, barba nerissima, capelli lunghi spioventi, sguardo profondo. Conversa vivacemente e allegramente con altri suoi compagni ed è il primo a essere interrogato:

Presidente: Declinate le vostre generalità.

Cipriani: Sono Amilcare Cipriani, fu Felice, di 47 anni, nato a Porto D’Anzio, domiciliato a Rimini, di professione pubblicista.

Presidente: Siete mai stato condannato?

Cipriani: Sì, varie volte, ma quelle condanne mi onorano!

Cipriani espone il suo tormentato curriculum giudiziario, rievoca le sue elezioni da deputato e protesta vivacemente contro il trattamento usato nei confronti degli imputati, in particolar modo per l’angusto e indecente gabbione in cui sono costretti, minacciando che, se non si provvederà diversamente, lui e i suoi compagni resteranno in cella per disertare il processo. Al termine della sua prima dichiarazione Cipriani conclude con parole mai udite nelle aule dei regi tribunali, sostenendo che lui e i suoi compagni devono essere condannati sì come malfattori, ma malfattori politici, «e», queste le sue parole, «dinanzi a noi voi dovete inchinarvi». Il giorno successivo continua l’interrogatorio e Cipriani riprende lo stesso motivo respingendo nuovamente l’imputazione di “associazione di malfattori”. L’eroe degli anarchici italiani, reduce della Comune parigina, dichiara al presidente:

In Francia, al momento della rivoluzione eravamo in 2.500 federati con pochi pezzi di cannone. Si combatté contro 35.000 soldati governativi armati e con molti pezzi di cannone. Fummo processati come uomini politici, non come malfattori.

E non era forse legalmente costituito il governo dei Borboni a Napoli? Erano cinque secoli che vi regnavano! E voi li avete cacciati con le cannonate. Noi vi abbiamo contribuito e ne andiamo fieri.

 Nel Lombardo-Veneto il tedesco pure diceva di essere padrone lui: noi abbiamo contribuito a farlo andar via, facendo il nostro dovere. Allora voi combattevate pel vostro ideale, perché volevate guadagnare; or anche si tratta di perdere, non volete pagare!»

Le dichiarazioni di Cipriani, le sue risposte spavalde e provocatorie, le sue interruzioni danno un tono allo scontro fra gli imputati da una parte, il presidente e il pubblico ministero dall’altra. Con imputati di tale specie, il presidente, sempre più nervoso, commette errori su errori e il 31 ottobre, impotente a governare il processo, prende la grave decisione di rinviarlo a epoca indeterminata.

Il processo riprende il 18 febbraio, dopo tre mesi e mezzo di interruzione, con un nuovo presidente. La tensione non cala, l’imputato Ettore Brandi dichiara che il processo in corso è una “porcheria”, chiamando alla sbarra, come responsabile, il ministro dell’interno Nicotera. Il pubblico ministero invita gli imputati a tacere e si apre uno scontro verbale con Cipriani.

 Il 23 febbraio gli imputati vengono allontanati dall’aula e trattenuti in carcere durante il processo. Per protesta il collegio di difesa rifiuta la propria collaborazione al processo e, dopo la sfilata dei testi, si limita per bocca dell’avvocato Vendemini a invocare, per la sentenza, il giudizio indipendente dei giudici. Il 25 marzo viene pronunciato il verdetto: Cipriani e Palla a due anni e otto mesi, quarantacinque imputati a pene varianti da uno a due anni, qualcuno assolto. L’accusa di “associazione di malfattori” cade per tutti gli imputati. La sentenza è comunque pesante. Vengono distribuiti collettivamente oltre ottanta anni di carcere.

 

 

Bibliografia:

P.C. Masini, Storia degli anarchici italiani, Rizzoli, Milano 1973

  1. De Jaco, I socialisti, Editori Riuniti, Roma 1974
  2. Cafagna, Anarchismo e socialismo a Roma negli anni della «febbre edilizia» e della crisi 1882-1891, in «Movimento operaio» 1952/5, pp. 754-755