approfondimenti

ITALIA

Tra postfordismo e nuova destra sociale (Seconda parte)

Nella seconda parte di questo saggio sul postfordismo, Primo Moroni mostra come l’affermazione dei nuovi localismi economici e politici che caratterizzano la nuova destra razzista in Italia, più che il segno di un ritorno al passato, sono sono l’esito della mancata trasformazione in senso democratico della sfera della rappresentanza e del vuoto lasciato dalle sinistre istituzionali di fronte all’irrompere delle nuove soggettività del lavoro

Inquietudini e suggestioni storiche

Indubbiamente questa possibilità conflittuale non può che suggerire suggestive analogie storiche con il sorgere del nazismo e del fascismo. Volendo seguire queste suggestioni storiche si può ricordare quanto scriveva Wilhelm Reich in Psicologia di massa del fascismo): «Dal punto di vista della base sociale, il nazionalsocialismo era inizialmente un movimento piccolo borghese, e questo ovunque si manifestasse. Questa piccola borghesia, che prima stava dalla parte dei diversi partiti democratici borghesi, doveva aver subito necessariamente un processo di trasformazione interna, che le aveva fatto cambiare politica». E, ancora: «Senza la promessa di combattere il grande capitale Hitler non avrebbe mai guadagnato alla sua causa gli strati del ceto medio. Essi lo hanno aiutato a vincere perché erano contro il grande capitale».23

Ancor più incisive sono le considerazioni di Karl Korsch: «Quelle forze che conquistarono lo Stato tedesco alla dittatura nazista nel 1933, nacquero e crebbero insieme allo sviluppo di quel sistema politico che generalmente si presumeva fosse uno Stato repubblicano moderno. Sebbene il nazismo non fosse né socialista né democratico, tuttavia nutrendosi degli errori e delle omissioni dei cosiddetti ‘politici del sistema’ ottenne alla lunga l’appoggio della maggioranza della nazione. Risolse sia nel campo politico che in quello economico una quantità di problemi concreti che erano stati trascurati o frustrati dal comportamento non socialista dei socialisti e dal comportamento non democratico dei democratici. Così una certa parte dei compiti che ‘normalmente’ sarebbero stati assolti da un movimento autenticamente progressista e rivoluzionario, fu assolta in maniera distorta, ma ciononostante realistica, dalla vittoria transitoria di una controrivoluzione non socialista e non democratica, ma plebea e antireazionaria».24

E se per Reich era assurdo che coloro che non comprendevano il ruolo del ceto medio non capissero «che il ceto medio, anche se non per sempre, almeno per un periodo storicamente limitato può ‘fare la storia’ e la fa effettivamente»; noi possiamo per adesso osservare come l’emergere dei «localismi politici ed economici» un suo piccolo pezzo di storia lo ha segnatamente caratterizzato negli ultimi anni nel nostro Paese e, in giro, nell’Europa delle regioni economiche più sviluppate.

Di converso, e per tornare al caso italiano, i governi di emergenza nazionale degli ultimi 15 anni, il governare per decreti, la dissoluzione miserrima del sistema dei partiti, la distruzione violenta e non delle opposizioni di sinistra, le sorprendenti simpatie diffuse per la magistratura e il profondo sconvolgimento avvenuto nella sfera della produzione – a cui non fa riscontro una modifica democratica del sistema della rappresentanza – inducono dubbi sul futuro democratico di questo Paese e in generale dei futuri assetti europei.25

Di questo pare essere convinto anche Sergio Bologna quando (forse ricordando Karl Korsch) scrive: «Il risveglio prepotente dei movimenti di destra, la loro capacità di penetrazione negli strati popolari e marginali (caso Germania), il riemergere di movenze ‘operaiste’ nelle ideologie di estrema destra, la presa delle tematiche leghiste presso i lavoratori del post-fordismo, sono il segno che qualcuno sta raccogliendo la bandiera del lavoro lasciata cadere dalla sinistra».26

 

Fuori dalle suggestioni storiche

Ed è sui nuovi processi produttivi e sulla conseguente socialità deprivata che essi inducono che occorre fermare l’attenzione evitando di interpretare i «nuovi particolarismi» esclusivamente attraverso le categorie suggerite dalle suggestioni e dalle inquietudini storiche.

Alla radice di queste riflessioni era e rimane evidente il tentativo di dare una risposta interpretativa ai fenomeni di riterritorializzazione, ai particolarismi, agli integralismi e all’emergere dei localismi economici e politici. Il nucleo forte di questi percorsi interpretativi si riferiva, e si riferisce, all’emergere di una paura, di un horror vacui di fronte ai processi di globalizzazione e mondializzazione in atto nei sistemi occidentali. A questi processi le «società locali» reagirebbero, quindi, riscoprendo la «comunità» e, per questa via, le radici, le origini, le «piccole patrie» e le etnie. Spaesamento e sradicamento diventerebbero quindi le parole chiave attraverso le quali interpretare le nuove ed emergenti tonalità emotive di vasti strati delle società locali e, per affinità, di altre piccole patrie austriache, tedesche, svizzere, belghe (fiamminghe o vallone), ecc.

Seguendo questo percorso era ovvio che riemergesse l’oscura metafora del «sangue e del suolo» (Blut und Boden) collante di una piccola e media borghesia mitteleuropea che negli anni ‘30 rivolgeva uno sguardo ansioso verso il passato, timorosa di veder messi in discussione dalla democrazia i propri piccoli privilegi.

In realtà, il fascismo e il nazismo degli anni ‘20 e ‘30 furono fenomeni estremi, terminali illiberali e repressivi dell’invadenza raggiunta dalla forma-stato. Per molti aspetti qualcosa di esattamente opposto di quanto avviene oggi attraverso le politiche di deregulation, il mito del primato del mercato, la dislocazione extranazionale delle economie, la crisi tendenziale degli Stati-nazione, ecc.

Nel caso Italia si può dire (un po’ banalmente), che abbiamo da un lato un solido «capitalismo di Stato» (tre aziende pubbliche nei primi quattro posti, hanno un fatturato globale che supera di gran lunga quello delle prime trenta aziende private messe assieme, in mezzo alcune grandi imprese private che godono (o hanno goduto fino a ora) di ampie protezioni statali, e infine milioni e milioni di «sciur Brambilla» delle piccole e medie imprese.

Tornando alle «piccole patrie» appare evidente che tematiche di questo genere sono particolarmente agitate da larghi settori della nuova destra radicale che nel mondialismo (ovvero nei processi di globalizzazione) vede il suo nemico principale. Ed è nel più vasto scenario della rinascita dei micro-nazionalismi, ricordando però che ciò avviene quasi esclusivamente nei paesi ex socialisti ed è il prodotto di un preciso fallimento storico-politico, mentre appare una necessità congiunturale determinata dall’inaffidabilità del potere centrale,27 che si formano le ambiguità interpretative che a loro volta favoriscono la confusione con le teorizzazioni di destra.

Qui, e riferendoci al fenomeno della Lega Nord, si può precisare che i processi di trasformazione produttiva, ampiamente accennati nel corso di questo intervento, e la crisi del sistema dei partiti hanno prodotto una formazione politica che, unificata dal federalismo, riesce a fare sintesi del voto di protesta e degli interessi di una classe estesa quanto mai in precedenza di imprenditori e di lavoratori autonomi che socializzandosi al rischio di impresa, alle regole del mercato e alla competizione internazionale, cercava ovviamente nuove regole della politica, mentre la sfera dei partiti storici manteneva sostanzialmente intatte le proprie forme di rappresentanza basate sulla riproducibilità dall’alto al basso degli stessi assetti organizzativi, sulla governabilità di tipo consociativo, sul partito come cardine dell’agire politico, ecc.

Lo spaesamento di questa nuova classe (o nuova borghesia, o oligarchia diffusa.) può essere al massimo riferito al clima culturale e psicologico (se riferito agli individui) in cui vivono i soggetti nell’epoca del tramonto dell’utopia, del ritirarsi dei fini ultimi come guida e fondamento dei comportamenti. Ma se ciò è vero non ci sono dubbi che questa condizione è simile per tutto il resto della società leghista o meno, nazionale o internazionale.

 

Macroregioni economiche e risveglio neo-etnico

Ci sembra quindi fuorviarne e politicamente improduttivo, se non funzionale alla «esorcizzazione» del fenomeno, applicare alla Lega Nord, o assegnare alla stessa, il bagaglio ideologico-culturale della nuova destra radicale con il suo contorno neoetnico che non rimanda, si badi bene, al «sangue e al suolo», ma bensì all’ipotesi differenzialista e culturalista. Seguendo tale percorso, si attua una interessata falsificazione che vorrebbe spiegare l’emergere del leghismo con le categorie storico-politiche proprie della destra radicale e non si vuole capire che, caso mai, i movimenti di destra vivono in modo concorrenziale l’emergere leghista e tentano di cavalcare il fenomeno per ritagliarsi all’interno dello stesso uno spazio di manovra, sicuramente approfittando di alcune non del tutto minoritarie componenti sociali della base leghista.

Debolezze che via via, a mio giudizio, la dirigenza leghista tende a eliminare dal proprio bagaglio di propaganda e di progetto rischiando consciamente un’emorragia di voti sulla sua destra. D’altronde lo stesso Miglio (che è il più ambiguo in questa direzione) afferma che «Quella lombarda appare come una popolazione poco incline a riconoscere e affermare la propria identità ed alla quale non resta altra scelta razionale disponibile che integrarsi nell’area e nella mentalità mitteleuropea». Siamo di nuovo quindi alle grandi regioni economiche sovranazionali, e cioè all’Europa delle macroregioni, voluta da una parte consistente delle espertocrazie europee. E, d’altronde, «chi ha tirato la corsa» per il Mercato Comune Europeo sono sicuramente i grandi e piccoli imprenditori manifatturieri. Non si è certo mosso il terziario dei servizi (che come è noto non sono esportabili e che comunque nel nostro caso sarebbero più scadenti degli equivalenti esteri), né le grandi banche, né gli enti finanziari. Questi si trovano nella stessa situazione dell’industria degli anni Settanta: eccedenza di manodopera, crisi di transizione di tipo tecnologico, grossi investimenti che devono essere ripetuti, ecc.

Nell’ipotesi leghista la creazione di una macroregione produttiva del Nord del Paese sarebbe un passo indispensabile per reggere il confronto con altre macroregioni economiche europee e, in questa direzione, non si vede la differenza con le progettualità delle più raffinate dirigenze di Bruxelles o con alcuni prestigiosi statisti tedeschi di cui Hans-Dietrich Genscher (liberale, ex Ministro degli Esteri e grande eurocrate) è punta di diamante, quando afferma con sicurezza che l’Europa futura sarà certamente (e in parte è già) quella delle regioni economiche che si aggregheranno su concreti ed affini interessi materiali e strategici: «Nel Duemila tutta la regione del Baltico, con la sola eccezione della Russia, farà probabilmente parte della Cee, e allora si formerà una vasta zona che includerà la Germania del Nord ma anche gli Stati scandinavi e la Polonia, con interessi comuni, che saranno diversi da quelli, diciamo, della Germania meridionale. Un’altra regione sarà quella che comprenderà la Renania, il Benelux e il Nord della Francia. Una terza quella cui potrà appartenere la Baviera, l’Austria, l’Alsazia, e l’Italia settentrionale, ecc. ecc. […] Ci sono persone, specie in Italia, che quando parlano di regioni pensano a quelle oggi esistenti. Mentre io, quando parlo di un Europa delle regioni, mi riferisco a entità che non tengono alcun conto delle frontiere nazionali: una zona industriale occidentale, una dell’Europa centrale, una delle Alpi. Per quanto riguarda l’Italia, io penso che la sua parte settentrionale scoprirà di avere molti più interessi in comune con la Germania meridionale che non l’Italia meridionale».28

Come si vede, l’unica differenza con le tesi leghiste è più che altro un problema di «stile» o della «cultura politica» con cui l’ipotesi viene presentata. Nessuno si sognerebbe di accusare Genscher di «attentare all’unità nazionale» o di voler disgregare i fondamenti della «democrazia».

D’altronde, una progettualità geopolitica così concepita pone non pochi problemi se rapportata alla decadenza della sfera della «sovranità», così come si è formata e sedimentata nelle culture politiche dell’Occidente.

La dislocazione in un «altrove» indefinito della «sovranità», la sua perdita di «confini» identificabili non può che determinare (insieme alla globalizzazione) il riaffermarsi, il riemergere, di antiche appartenenze etno-regionali sia pure per larga parte totalmente reinventate.

Risulta quindi comprensibile l’affermazione leghista (M. Formentini al primo Congresso della Lega Nord) secondo cui: «il Governo dell’economia viene (debba venire, n.d.r.) affidato alle comunità nelle quali per etnia, tradizione, cultura, identità di interessi, si riconoscono le popolazioni», anche se la stessa appare difficilmente conciliabile con lo sfrenato neoliberismo leghista perché fino ad oggi (almeno) si è constatata l’impossibilità della sintesi tra liberismo ed etnocentrismo.29

Un’impossibilità che dovrebbe (ma il processo è già in atto) costringere la dirigenza leghista a una progressiva minimizzazione delle componenti neo-etniche e delle tendenze «separatiste» in senso stretto per optare ancora più decisamente per la macroregionalizzazione europea.30 Però tutto questo non eliminerà la tendenza strutturale a riconoscersi nel territorio locale, in cui l’etica del bene comune viene ridimensionata nel «qui e ora» delle risorse personali, ma anche nel sistema sociale locale, dotato di relazioni sociali sistemiche definibili nel tempo e nello spazio.

Ed è probabilmente su questo percorso che si potranno verificare le novità più consistenti nell’universo leghista, novità che, secondo gli analisti più avvertiti, rischiano di sovvertire molte delle affermazioni degli studiosi di «comunità».

Se è vero infatti che il liberismo leghista è anche il prodotto della caduta dell’idea di «trascendibilità del reale», e quindi di qualsiasi ipotesi di trasformazione del sistema capitalista, anche l’impossibile sintesi tra liberismo ed etnocentrismo verrebbe a cadere per trasformarsi in sinergia necessaria: «La pratica anti-universalista, localista, etnocentrica in politica e l’accettazione totale di forme di liberismo spinto in economia, sarebbero quindi due aspetti speculari in cui l’assolutizzazione comunitaria del primo serve appunto a compensare gli effetti di straniamento e le sfide all’identità generati dal secondo livello, secondo una logica che caratterizza le più recenti tendenze del capitalismo, in cui liberismo e iper-govemo, mondializzazione e messa a valore della comunità si intrecciano e si alimentano a vicenda».31

D’altronde, molti dei documenti Ocse sottolineano come «il processo di globalizzazione» abbia avuto il suo massimo sviluppo nel corso degli anni ‘80 e come lo stesso si differenzi dal precedente «processo di internazionalizzazione» — tipico degli anni ‘60/’70 — per il fatto che quest’ultimo designa semplicemente un’estensione geografica crescente delle attività economiche. Al contrario, il processo di globalizzazione è una forma più avanzata e più complessa d’internazionalizzazione.

La globalizzazione dei mercati è legata alla riduzione delle barriere commerciali, a un miglioramento dei trasporti e dei mezzi di comunicazione, alla velocità della stessa legata alla diffusione delle nuove tecnologie, velocità ed efficienza che consentono alle imprese di «disperdere» le attività produttive, realizzando allo stesso tempo economie di scala, ecc.32 In questa nuova configurazione, zone geo-economiche ben delimitate, e con caratteristiche proprie, continuano a giocare un ruolo determinante, malgrado la formazione di reti di relazioni mondiali. Il rapporto Ocse ritiene oltretutto che i sistemi regionali di scienza, produzione e tecnologia hanno sempre più un ruolo determinante essendo le «controparti della dimensione mondiale». Il sito (secondo l’accezione francese) o la «Località» (secondo la dizione anglo-sassone) vanno a costituire entità infra-nazionali e sovra-nazionali come esito creativo e indispensabile dei nuovi processi produttivi che sostengono gli orizzonti della globalizzazione.

Sostanzialmente, e in questa direzione, l’aspirazione all’autogoverno delle regioni del Nord sarebbe fondamentalmente il prodotto della necessità, della volontà dei nuovi ceti produttivi di integrarsi (mantenendo una propria «identità» local-regionale) al massimo livello nella geopolitica più avanzata e realistica dell’Europa degli anni a venire e cioè nella tanto dibattuta e controversa questione dell’Europa «a due velocità» o a «cerchi concentrici». Che i partiti storici borghesi e la stessa sinistra istituzionale e non, non abbiano colto questi processi reali è tutto un altro problema caso mai utile a spiegare in parte la loro decadenza. In particolare appare evidente l’incapacità e la carenza di analisi della «sinistra» istituzionale nel comprendere le caratteristiche e l’humus politico-culturale del lavoro post-fordista.

Che, invece, la destra radicale tenti di cavalcare questi processi operandovi una torsione neo-etnica è abbastanza comprensibile ed evidente. Non c’è dubbio che questa progressiva regionalizzazione delle economie consente, ambiguamente, di ridisegnare e rileggere antiche appartenenze sorrette dei vincoli familisti indotti dal decentramento produttivo e dalla ferina concorrenza per l’accesso alle risorse o alla prestazione di servizi. Decadenza del welfare e dello «Stato sociale» e spasmodica necessità di «produrre per competere» in territori delimitati e perimetrali, sarebbero indubbiamente i motori della ripresa della xenofobia.33

Anche se, come è ovvio, la ‘deriva neo-etnica’ cerca di darsi un qualche spessore storico, più o meno cosciente dei pericoli insiti nelle possibili sovradeterminazioni agite dalle destre radicali e istituzionali, il suo radicarsi è in realtà tutto inscritto nel prepotente emergere dei nuovi processi produttivi. Come giustamente osserva Pier Paolo Poggio34, alle origini abbiamo una «cesura segnata dagli esiti della seconda guerra mondiale […] quando la sconfitta del nazismo e del fascismo aveva fissato in termini impresentabili l’equivalenza razza-nazione respingendo ai margini ogni discorso sulle etnie e il concetto di popolo».

Il generico cosmopolitismo che ne è seguito non teneva presente le profonde e squilibrate forme della diffusione industriale che andavano a creare gerarchie di reddito e percezioni diverse del mondo all’interno degli stessi ambiti nazionali. Opportunità, squilibri e differenze, prima «sfumate» dall’organizzazione verticale ed «egualitaria» della società fordista che le riassorbiva nelle forme della rappresentanza (di classe, di interessi, di ceto, ecc.), e che oggi riemergono di fronte alla crisi del precedente paradigma produttivo.

Ed è per questa via, e in concomitanza speculare con la decadenza della società solidale che nella dialettica nazione-classe assicurava anche la metabolizzazione delle differenze insite nelle «culture popolari», che i nuovi ceti medi produttivi recuperano, e diffondono socialmente, teorizzazioni e «vissuti» neoetnici e, in maniera più inquietante, tendenze al «razzismo differenzialista». Lo stile di vita e i livelli di benessere diventano, attraverso questa torsione, caratteristiche insite ‘naturalmente’ nell’etnia, così ridisegnata, e non prodotti storicamente determinati.

E, in effetti, il nuovo razzismo oggi è interamente ‘culturalista’ e non basato sulle gerarchie biologiche e questo cambiamento mette in grave difficoltà l’intero universo delle culture anti-razziste delle sinistre che soprattutto negli ultimi anni hanno adottato il concetto della ‘differenza’ come uno degli orizzonti di riferimento. Il ‘differenzialismo’ è in effetti un fenomeno sociale del nostro tempo di enorme portata e i cui effetti sono tutt’altro che compresi e indagati.35

Nei limiti di questo intervento si può dire che la storica rivendicazione della sinistra che optava per il diritto dei popoli (in specie quelli coloniali ed ex coloniali) a vivere e a ‘svilupparsi’ secondo le proprie culture e il proprio stile di vita, che lottava quindi contro l’omologazione al modello occidentale, ha subito, a seguito dei processi di globalizzazione, una mutazione singolare che sposta la precedente «verticalità» (ad esempio «sviluppato» o «non sviluppato»), basata sull’uguaglianza, in una «orizzontalità» che riconosce a tutti i gruppi (etnie o sessi) pari dignità e il diritto e la necessità di non mischiarsi, diritto/necessità che, ovviamente, viene deciso ed elaborato dalle aree geo-economiche «forti» dei paesi occidentali. Ed è per questa via che il ‘differenzialismo’ viene fatto strumentalmente proprio dalla nuova destra e da altri movimenti sociali che elaborano una teoria di radicale opposizione all’ ‘imperialismo etnicida’ come esito dei processi di mondializzazione-globalizzazione.

 

Tra liberismo e etnocentrismo

Diventa quindi più comprensibile l’operazione «leghista» che «rovescia» e si appropria di alcune categorie storiche della sinistra. Così il leghista pone al primo posto dei valori la professionalità, l’efficienza, la famiglia e l’ideologia del lavoro. Categorie queste che per lungo periodo sono state anche patrimonio della sinistra e del movimento operaio organizzato, come del resto alla stessa memoria appartiene la valorizzazione delle culture popolari delle società locali che i leghisti «usano» per restituire dignità o legittimare i vissuti quotidiani dei propri elettori. Il leghismo riconduce questi substrati socioculturali della «sinistra» dentro il panorama del liberismo sfrenato e del mercato che sfocia nella piena accettazione della società e dell’economia capitalistica mentre, come è noto, sia la cultura del lavoro che il localismo non hanno sostanza senza la dimensione dell’antagonismo e del rifiuto del dominio del capitale – proprio tutto ciò che le Leghe non vogliono e che ancor meno hanno voluto i cattolici.36

Ma si tratta, occorre ribadirlo, di risposte, di necessità insite nel profondo sconvolgimento intervenuto nell’universo della produzione, delle professioni e, in definitiva, nella capacità agita dal capitale di intervenire sulla «classe» dei produttori scomponendola e rideterminandola altrove e «involontariamente», creando una apparente contraddizione al proprio interno. Una contraddizione che va molto al di la del fenomeno «localistico» perché tende a investire il più vasto strato degli addetti alla produzione di qualsiasi ordine e grado. Tende, cioè, ad essere l’espressione politica di quella che abbiamo fin qui definita «nuova configurazione socio-economica». Fino alla necessità di interrogarci sulla possibilità che la fine del sistema fordista non produca in sé un orizzonte dominato, questo sì, da «un tratto fisiognomico» che potremmo definire, insieme a Paolo Vimo, «fascismo postmoderno»: «Il fascismo europeo di fine secolo è il fratello gemello, ovvero il ‘doppio’ agghiacciante, delle più radicali istanze di libertà e di comunità che si dischiudono all’interno della cooperazione lavorativa postfordista […]. Non è un feroce addentellato del potere costituito, ma una possibile configurazione del ‘potere costituente’ popolare […]. Il fascismo postmoderno ha la sua radice nella distruzione della sfera lavorativa in quanto ambito privilegiato della socializzazione e luogo di acquisizione dell’identità politica».37

 

Un nuovo «terzo stato»?

Non è quindi rilevante interrogarsi sulla tenuta o meno del «progetto» leghista, sulla sua durata e consistenza, perché l’espressione elettorale non è che il sensore dello sconvolgimento, irrecuperabile dalle forme partitiche classiche, degli universi materiali.

Ed è all’interno di queste esiti che si produce la crisi storica delle «forme di rappresentanza» del «sistema dei partiti» e del concetto di «sovranità» così come li abbiamo conosciuti e vissuti nell’ultimo secolo. Crisi puntualmente registrata (e con largo anticipo) dalle élite sovranazionali se un esponente della Trilateral Commission come S.P. Huntington poteva affermare nel lontano 1975: «[…] i sintomi della decomposizione dei partiti potrebbero essere interpretati come presagio, non tanto di un nuovo schieramento dei partiti nel quadro di un sistema in sviluppo, quanto piuttosto di un fondamentale deperimento e di una potenziale dissoluzione del sistema partitico. Sotto questo profilo, si potrebbe affermare che il sistema partitico ha attraversato un processo lento, divenuto oggi più rapido, di disgregazione. Per suffragare questa proposizione, si potrebbe sostenere che i partiti rappresentano una forma politica particolarmente adatta alle esigenze della società industriale e che quindi l’avanzata di una fase diversa di organizzazione della produzione implica la fine del sistema dei partiti politici quale finora l’abbiamo conosciuto».38

In questa direzione gli obiettivi dei leghisti sono ambiziosi e tendono a porsi quasi come classe generale ricordando le tesi di Emmanuel Sieyès quando nel difendere le ragioni della borghesia affermava che la Francia non era una nazione perché le leggi erano stabilite dal «sistema della corte» mentre il funzionamento dello stesso era assicurato per i nove decimi dall’esistenza del «terzo stato»: «Noi non siamo che una nazione in mezzo ad altri individui. È vero. Ma la nazione da noi costituita è la sola a poter effettivamente costituire la nazione. Noi non costituiamo, da soli, la totalità del corpo sociale. È vero. Ma siamo capaci di garantire la funzione totalizzatrice dello stato. Noi forse siamo capaci d’universalità statale». Basta sostituire la nobiltà, l’arbitrio reale di Sieyès, con il corrotto sistema dei partiti e la critica del «centralismo», che l’ingenuo e però efficace background leghista trova un qualche insospettabile antenato.

E in effetti il leghismo dopo aver pericolosamente (e rozzamente) cavalcato una tendenza scissionista (peraltro frequentemente agitata), ha cominciato a porsi proprio come forza rinnovatrice della «democrazia» contro il precedente «sistema» corrotto e in decadenza.

Ormai non è più sulla base o in nome d’un diritto passato che si articolerà la rivendicazione. La rivendicazione potrà articolarsi piuttosto su una virtualità, su un avvenire che è imminente e già iscritto nel presente. Nelle intenzioni leghiste questa funzione viene vissuta come già operante, assicurata da una ‘nazione’ nel corpo sociale, e che proprio in nome di ciò chiede che il suo statuto di nazione unica sia effettivamente riconosciuto e riconsiderato nella forma giuridica dello Stato.39

Ma sono i contenuti di questa supposta «nazione» ad essere inquietanti. Al loro interno traspare un’implicita volontà a negare in tutto o in parte il progetto di emancipazione della modernità (l’universalismo dei diritti e il nucleo normativo dell’89); a negarlo in primo luogo per «gli altri», ma in una certa misura anche per sé, come condizione per il recupero di quella identità collettiva, di quella «appartenenza», considerata evidentemente come un valore politico superiore.40

Il federalismo rivisitato diventa così un utile pass-partout per veicolare progetti molto più ambiziosi e di carattere generale riguardante l’assetto complessivo dello Stato.

La crisi irreversibile delle storiche democrazie rappresentative è interpretata in Italia dalle Leghe e dal composito agitarsi di lobby e sottosistemi politici.41 Sono risposte tra loro diverse, anzi concorrenziali, ma che indifferentemente fanno coincidere il deperimento della rappresentanza con il restringimento della democrazia e l’annullamento dello Stato sociale. Non è semplicemente un processo politico-ideologico legato alla decadenza, modifica e ascesa tra nuove e vecchie forme di rappresentanza degli interessi e dei ceti sociali; è in realtà uno sconvolgimento inscritto in profondità nei processi di globalizzazione sorretti dalla ‘rivoluzione’ dell’organizzazione della produzione. In questo senso le aspirazioni della Lega Nord a porsi come «nuovo terzo stato» appaiono inesorabilmente impraticabili per l’oggettiva mediocrità del ceto politico espresso e per l’inesorabile miopia della visione esclusivamente «nordista» della propria funzione innovativa. Come è noto, consistenti «localismi economici» sono efficacemente radicati sia a cavallo che al di sotto della «linea gotica» (mentre a Torino e in parte del Piemonte persiste la configurazione fordista) e, in ogni caso, la vasta composizione sociale delle regioni del Sud necessita di essere rappresentata perché appaiono risibili le aspirazioni «scissioniste» dei leghisti. Più rilevante pare essere attualmente la già citata funzione di «sbrinamento» del sistema politico italiano fin qui svolta. Ma sembra improbabile che questa formazione politica sia in grado di raccogliere tutti i frutti del cambiamento in atto. Più evidente è la tendenza al formarsi di uno spazio vuoto, o meglio, di una terra di nessuno in cui alleanze e iniziative ben più pericolose possono fare sintesi e progetto delle inquietudini che agitano la lunga transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica.

 

 

 

Prima parte

 

Tra postfordismo e nuova destra sociale, in “Decoder”, n. 8, 1
semestre 1993, ripubbl. in versione più ampia in “Vis àVis, Quaderni per l’autonomia di classe”, Bologna, n. 1, autunno 1993

 

Note

 

23. Sugarco, Milano 1971, poi ristampato nel 1982.

24. Preludio a Hitler, la politica interna tedesca 1918-1933, in Karl Korsch, Scrìtti politici, due voll.; La-terza, Bari 1975.

25. È chiaro che le riflessioni di questo capoverso hanno un valore in parte ‘provocatorio’, ma non del tutto prive di riscontri se nomi squillanti come Ralf Darhendorf e Helmut Schmidt hanno espresso a più riprese la paura del ‘ritorno degli anni ‘30’. Più consistenza a questa riflessione è del resto data da Roger Heacock, professore di storia moderna all’Università palestinese di Birzeit, quando afferma che, se la seconda guerra mondiale è finita, la prima torna di attualità» riaprendosi «nel punto in cui si è chiusa». Come nel 1918 la crisi definitiva dell’impero austro-ungarico e dell’impero ottomano, così alla fine degli anni ’80 la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la simultanea fine del Commonwealth hanno liberato forze prima sottomesse. Come allora, la crisi di un ordine sovranazionale offre la scena alla lava delle etnie e dei contrapposti fondamentalismi (vedi “II Manifesto” del 14 agosto 1992).

26. In “Altreragioni”, cit. Di Sergio Bologna è recentemente uscito un breve e prezioso testo (Nazismo e Classe Operaia 1933-1993, Cox 18/Calusca ediz., Milano 1994) che precisa in modo estremamente convincente e con il supporto di un fondamentale apparato bibliografico, il lungo e drammatico conflitto che oppose gli operai tedeschi al nazismo.

27. In questo senso è di particolare interesse quanto sostenuto da Claus Offe nel suo recente II tunnel– L’Europa dell’est dopo il comunismo, Donzelli, Roma 1993. Offe in polemica con molte affermazioni correnti e frettolose sostiene che: 1°) nelle società post-comuniste il ceto politico ha la necessità di dissociarsi dal vecchio regime specie se c’è il sospetto di averne fatto parte e quindi il distacco dallo «Stato centrale» diventa indispensabile; 2°) poiché le prospettive di un rapido miglioramento economico sono molto incerte, e non è prevedibile che da una politica basata sulla cooperazione economica su vasta scala e sulla divisione del lavoro derivino nel prossimo futuro benefici distribuiti in modo ragionevolmente uniforme, l’accento economico batte più fortemente sulla protezione (delle risorse locali, d.r.) che sulla produzione. La crisi economica rende imperativo «conservare e difendere quello che abbiamo» e quindi determina il bisogno di essere protetti da confini forti; 3°) la politica di etnificazione viene così ad essere il prodotto di un concreto processo materiale e quindi anche le minoranze interne vengono ‘vissute’ come minoranze esterne di Stati vicini, che sono visti come Stati esteri protettori di queste minoranze. Ogni Stato in cui esiste una minoranza ha motivo di temere che lo Stato limitrofo protettore di questa minoranza, intervenga in suo favore, intervento che al limite potrebbe giungere all’annessione del territorio abitato dalla minoranza stessa. Così facendo verrebbe messa in discussione la politica di etnificazione come difesa delle risorse. Con una lieve distorsione logica, questo timore può servire da pretesto all’esclusivismo etnico e alla repressione preventiva.

28. Vedi, Noi provincia d’Europa, colloquio con Hans-Dietrich Genscher, a cura di Antonio Gambino in “l’Espresso” del 27/12/92.

29. Vedi P. P. Poggio, La Lega secondo natura in “Iter”, n° 5, 1993.

30. II recente violento dissidio e la conseguente defezione del senatore Miglio sono la prova concreta di questa necessità.

31. Liberamente citato da «L’identità negata. Dove nasce la doppia faccia del leghismo» di Marco Revelli in II manifesto del 16/2/1993, a seguito del Convegno Ethnos e Demos tenutosi a Milano alla Camera del Lavoro nei giorni 28 e 29 Gennaio 1993.

32. Vedi nel documento ocse-t.e.p. (Programme technologie/economie) : La technologie et l’economie. Le relations déterminantes (ocse, Parigi 1992) e nello stesso documento le citazioni da P. Dichen, L’inter- nationalisation de l’activité economique, Chapman, London 1992.

33. A questo proposito si veda l’incisiva griglia di lettura fornita da Guido Ortona nel suo «Principi economici e xenofobia, per un analisi economica dell’efficacia delle politiche in materia di immigrazione», contenuta in Immigrazione e diritti di cittadinanza, CNEL-Università Bocconi, Editalia, Roma 1991.

34. P. P. Poggio, La Lega secondo natura, cit.

35. Su questo problema è di indubbia utilità la lettura del testo di Pierre-Andrè Taguieff, La Forza del Pregiudizio, recentemente (1994) pubblicato dalla casa editrice Il Mulino.

36. Si veda ad esempio la progettualità di Comunione e Liberazione che sulla «riscoperta» della cultura popolare e sulla difesa delle società e delle comunità locali aveva fatto un lungo percorso a partire dalla metà degli anni ‘70. Non è casuale che molte delle aree in cui si è verificato il successo iniziale della Lega siano le stesse dove era enersa Comunione e Liberazione.

37. Vedi P. Vimo, Tesi sul nuovo fascismo europeo, in “Luogo Comune”, n° 4, 1993.

38. in La crisi della democrazia, F. Angeli, Milano 1977.

39. Per un esposizione più organica dei percorsi di Sieyès e in generale della problematica di Stato e nazione, vedi: Totalità nazionale e universalità dello stato,  in M. Foucault, Difendere la società,  Ponte alle Grazie, Firenze, 1990. C’è da dire che l’importanza di questo testo non è stata ancora valutata appieno proprio nelle parti in cui consente di «rileggere» con una «filigrana» rinnovata alcuni dei processi sociali in corso oggi.

40. Dall’intervento di Davide Bidussa al convegno «Ethnos e Demos», in Marco Revelli (n. 30), che aggiunge: «È un processo non solo italiano: fenomeni non del tutto dissimili attraversano le comunità nere d’America, le comunità ebraiche, in parte le culture delle donne, ovunque si esprima resistenza allo sradicamento».

41. Esemplari in questo senso sono le esperienze e le illusioni del composito schieramento referendario, la mitologia della ‘sinistra dei club’, le varie ‘società civili’, ecc.

 

 

 

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