approfondimenti

ITALIA

Tra postfordismo e nuova destra sociale (Prima parte)

In questo saggio del ’93, che pubblichiamo in due parti, Primo Moroni traccia la traiettoria di quella “lunga transizione” che ha stravolto la basi materiali della classe operaia fordista italiana e le culture sociali di intere parti del paese. In questo scenario, comincia ad emergere il profilo di una nuova borghesia, esito della polverizzazione della struttura produttiva e portatrice di una nuova ideologia del lavoro

Gli anni ‘80 sono stati un periodo oscuro e tormentato del paese Italia. Molte sono state le mistificazioni e le ideologie adatte a occultare i processi reali (fra tutte il pensiero debole, il nuovo rinascimento, l’Italia come grande paese industriale, ecc. ecc.). In realtà sono stati anni in cui il capitale a livello nazionale e internazionale si ristrutturava e operava una profonda modifica interna che molti definiscono un’autentica «rivoluzione».

Intorno a questi processi «alti», il grande ciclo dell’eroina, il dilatarsi del «capitale illecito», la distruzione processuale delle soggettività, le generose e drammatiche risposte delle controculture giovanili e, infine, gli operai chiusi nelle fabbriche, impotenti e attanagliati dall’angoscia del proprio futuro.

Le ricerche del Consorzio Aaster della prima metà degli anni ‘80 (1894-1985) ci posero davanti agli occhi un ambiente sociale devastato, un immaginario collettivo ridotto in frantumi, le identità individuali svuotate. Ricordo la frase esagerata, ma significativa, di un lavoratore anziano: «Siamo come gli ebrei; ora ci aspetta la ‘soluzione finale’».

A quella ricerca mai pubblicata, avremmo voluto dare il titolo «La paura operaia». La paura, infatti, sembrava essere la tonalità emotiva dominante, la «Stimmung» prevalente tra quei lavoratori che si vivevano come un gruppo di naufraghi. Il loro orizzonte era pesantemente occupato dal problema della droga, di cui quasi tutti, sorprendentemente, mostravano di avere avuto esperienza diretta o indiretta per il tramite di parenti o conoscenti. L’immagine dell’ambiente di lavoro appariva dominata dall’irruzione dell’innovazione tecnologica, percepita nella sua brutale quanto reale valenza di sostitutrice del lavoro umano.

Qualche anno dopo, nel 1988, ci occupammo di un ambiente di lavoro del tutto diverso, quello di una «fabbrica» terziaria, la Ciba Geigy di Origgio, in cui gli operai rappresentavano una ridotta minoranza. L’atmosfera riscontrata era molto diversa, presumibilmente per la forte presenza di tecnici e di quadri, ma a livello operaio rispuntavano, seppure in qualche modo attutiti, i sintomi del disagio. Il reddito considerato insufficiente, la scarsa soddisfazione rispetto al lavoro, la percezione di occupare una posizione sociale stazionaria, se non in regresso, il timore che l’innovazione tecnologica minacciasse il posto di lavoro.

Questa perdita di protagonismo, questo silenzio del mondo del lavoro non potevano che porre domande profonde sulle loro origini e sui processi di trasformazione produttiva intervenuti a partire dagli anni ‘80 (ma in realtà iniziati già a metà degli anni ‘70).

Tra la fine degli anni ‘70 e nel corso degli anni ‘80 si è compiuta in Italia una trasformazione epocale che ha messo tendenzialmente fine al precedente assetto produttivo e ha, nel contempo, ridisegnato larga parte delle culture sociali di intere regioni del paese. Come è ovvio questa mutazione del modo di produrre ha inevitabilmente sconvolto universi di riferimento, comportamenti collettivi e relazioni intersoggettive. Ha altresì messo in crisi l’intero sistema delle forme di rappresentanza politica che si erano formate nel precedente trentennio e che nella «verticalità» del sistema dei partiti assicuravano una relativa dialettica tra maggioranza e opposizione.

Si può collocare l’inizio di questa mutazione, anche se ciò può apparire paradossale, nel biennio 1975/76 e cioè proprio quando la sinistra istituzionale di opposizione raggiunse il suo massimo storico di forza elettorale.

Un vasto mandato popolare e classista si tradusse in un voto massiccio per il Pci berlingueriano e altre forze di sinistra auspicando un ricambio radicale del governo della società che nel mito del «sorpasso» (e cioè del superamento dei voti delle forze centriste e moderate) trovava la parola chiave nell’immaginario collettivo. Come è noto, quel grande risultato non venne «rispettato» dalle dirigenze comuniste le quali optarono per un accordo con la Democrazia Cristiana e le altre forze moderate. Nacquero così i governi di «unità nazionale» o di «solidarietà nazionale».

Le conseguenze di quelle scelte politiche sono note, il Pci e il sindacato gestirono in prima persona la repressione dei movimenti antagonisti e fecero letteralmente ‘fuori’ la grande esperienza dei «consigli di fabbrica» mentre il padronato espelleva più o meno violentemente dalle fabbriche decine di migliaia di avanguardie che si erano formate in due decenni di lotte. In questo modo la ristrutturazione produttiva potè marciare speditamente a tutto vantaggio delle élites capitalistiche. Si trattò indubbiamente di una svolta autoritaria che senza l’aiuto del Pci e del sindacato sarebbe stata molto più problematica e, in ogni caso, compito della «sinistra» sarebbe stato quello di governare e contrattare conflittualmente la transizione produttiva.

Alla luce odierna molte delle nostre analisi di allora appaiono in parte limitate perché se pure avevano colto che era in corso una ‘rivoluzione interna’ del sistema politico, forse non avevano colto appieno che quella era una necessità intrinseca della sfera della produzione, non venne colto appieno che stava avvenendo, appunto, un’autentica svolta epocale nelle strategie del capitalismo maturo. Ciò a partire, ad esempio, dal concetto di «sconfitta operaia» che indubbiamente ci fu ma che era anche la conseguenza di più profonde implicazioni e che così ridotta finiva per cogliere esclusivamente la dimensione politica di quello che, in realtà, e prima di tutto, era e rimane un gigantesco processo di trasformazione sociale indotto puramente e semplicemente dalla necessità di cambiare in profondità il modo di produrre. Una necessità che nel caso italiano interveniva con un considerevole ritardo se rapportata ad altre aree economiche capitalistiche e questo ritardo era stato causato principalmente dalla capacità conflittuale e dalla maturità raggiunte sia dai movimenti antagonisti che, soprattutto, dalla forza organizzativa del corpo centrale della classe operaia. In questo senso era comprensibile che la mutazione assumesse in Italia contorni molto più drammatici che altrove e che per realizzarsi «dovesse far fuori» sia i movimenti antagonisti che la stessa centralità operaia.

Probabilmente non avevamo riflettuto a sufficienza su quanto era successo negli Stati Uniti, a partire dalla fine degli anni ‘60, quando il processo di «dismissione» dei grandi impianti industriali aveva radicalmente trasformato la fisionomia di intere aree sociali del Paese.

Per fare l’esempio più conosciuto si può ricordare la vicenda di Detroit e i processi di deindustrializzazione che vi si verificarono. Detroit non è più una città industriale da molti anni e la sua storica classe operaia nera e bianca, violenta e intelligente, si è dissolta nelle pieghe immense del mercato del lavoro statunitense. Ricerca di manodopera poco conflittuale a basso costo e nuove tecnologie determinarono lo spostamento, in una prima fase, di una parte rilevante della produzione dei processi di fabbricazione nel sud degli States e negli anni ‘80 direttamente in Messico e in altri stati. Lo stesso fenomeno si sarebbe poi verificato per altri settori della produzione industriale determinando una radicale deindustrializzazione degli Stati Uniti di cui l’esternalizzazione della produzione è il fattore più visibile. All’interno la fabbrica taylorista e fordista è stata trasformata grazie ai robot e all’informatica, spesso «impiantati» in nuovi, più piccoli, stabilimenti costruiti nelle aree meno sindacalizzate del paese. Poi è stata ulteriormente traslocata in Corea del Sud, a Singapore, Hong Kong, Formosa, nelle Filippine e così via. Gli effetti sono noti: impoverimento in quelli che erano i centri pulsanti della produzione e della vita operaia, con conseguente loro degrado a periferie economico-sociali e «arricchimento» delle nuove enclaves legate alla produzione industriale e al capitale finanziario. Ed è in queste aree che si assiste alla rinascita di ideologie legate ai particolarismi etnici e razziali e al consolidarsi dei «piccoli nazionalismi» dei diseredati. L’approfondirsi dell’impoverimento etnico e razziale ha lasciato ai più giovani di ciascun gruppo ben pochi obiettivi, al di là della difesa del proprio territorio.1

Per parlare quindi della realtà attuale occorre partire dai processi strutturali della seconda metà degli anni ‘70 e dalla violenta offensiva ristrutturatrice che li ha caratterizzati. Un’offensiva che era, oltre al resto, resa necessaria dalla inaffidabilità dei nuovi soggetti giovanili che si affacciavano al mercato del lavoro; ma che era altrettanto non rinviabile per gli intervenuti processi concorrenziali determinati dall’irruzione delle tecnologie flessibili nel modo di produrre le merci nelle società del capitalismo maturo.23

 

 

Una lunga transizione

La sconfitta del «corpo centrale della classe» simbolizzata dalla Fiat ‘80, significava che insieme alle culture e alle forme di lotta della classe operaia più moderna e matura del dopoguerra, decadeva anche il modo di produzione di cui quelle pratiche di conflitto erano la risposta speculare. In un certo senso era il tramonto del modello fordista-taylorista di organizzazione della produzione delle merci e della vita dei lavoratori. In ogni caso è comunque indubbio che la transizione dal modello della «produzione di massa» alla cosiddetta «produzione snella» è un fatto consolidato, non solo nei settori della meccanica leggera, ma nel complesso della struttura industriale. E che essa ha al centro il tentativo di superare alcuni dei caratteri qualificanti del modello organizzativo fordista e taylorista, che ha segnato la storia industriale di buona parte del Novecento.4

Intendendo dire con questo che il movimento dei consigli di fabbrica, che il ruolo politico della «centralità operaia», sono sì decaduti in seguito ai processi repressivi; ma che nel contempo la risposta padronale ha avuto la possibilità di avere successo non solo per la forza degli apparati repressivi, ma anche e soprattutto per la forza e la capacità innovativa determinate dal consolidarsi delle nuove tecnologie flessibili, per cui si può contemporaneamente affermare che il movimento dei «consigli di fabbrica» è scomparso insieme al modello di organizzazione del lavoro di cui era espressione speculare. Innovazione tecnologica e processo di mondializzazione dell’economia sono due fenomeni strettamente interrelati che incidono profondamente sul terreno socio-culturale e stanno determinando una torsione concettuale che investe i fondamenti stessi del «nostro essere nel mondo».5

Si può sottolineare come questi processi abbiano avuto due effetti dirompenti sulla composizione sociale che deriva la sua ragion d’essere dalla configurazione del sistema produttivo. Da un lato, sono stati smantellati, in maniera più o meno drammatica, i grandi blocchi omogenei di lavoratori che erano connaturati alla configurazione fordista.

Per questa via sono state dissolte le basi materiali del mondo della classe operaia quale l’abbiamo conosciuta in questo dopoguerra. Le forme della cooperazione della grande fabbrica fordista nonché i modi della socializzazione del lavoro operaio erano la grande matrice dei comportamenti che poi davano luogo alla «società solidale». Con esse sono scomparse anche le ragioni della solidarietà nel senso tradizionale del termine.

Dall’altro, l’area sterminata del lavoro dipendente è stata progressivamente erosa dall’emergere di posizioni professionali indipendenti che hanno enormemente dilatato la sfera del lavoro autonomo. Il mondo del lavoro dipendente è stato, per così dire, invaso e disarticolato dalla ‘logica d’impresa’, dando luogo alla grande simulazione di una miriade di microimprese individuali che nascondono nuove forme di cooperazione e subordinazione, ma che, comunque, distillano un clima sociale diverso da quello generato dalla configurazione fordista della cooperazione sociale.6

Vi è certamente molta enfasi e molta falsificazione nelle analisi di quegli economisti e di quei sociologi che parlano tout-court di una società della produzione immateriale o che riassumono nel termine terziarizzazione (senza precisarne i contenuti) le trasformazioni produttive in atto. Negli anni ‘80 abbiamo assistito ad una gigantesca opera di «occultamento del lavoro». In realtà la quota dei lavoratori manuali non è cambiata granché dagli anni ‘50 ad oggi.7

È stata invece profondamente modificata la dislocazione dei fattori produttivi con effetti di dispersione e invisibilità del mondo del lavoro rispetto alle isole sindacalmente organizzate mentre i profili professionali sono stati frequentemente sconvolti.8

La liberazione dal lavoro che è stata il filo conduttore, ora dispiegato ora nascosto, di tutti i conflitti innescati dall’operaio fordista appare ora (per quote consistenti) paradossalmente realizzata, sotto forma di simulacro, in questa opera gigantesca di rimozione sociale. Siamo nel pieno di quella mistificante narrazione che va sotto il nome, appunto, di «terziarizzazione» e che vorrebbe descrivere l’esodo dall’oppressivo lavoro di fabbrica verso la terra promessa del lavoro libero e indipendente.5

Appare evidente che non è esattamente così, ma ciò nonostante centinaia di migliaia di soggetti produttivi la ‘vivono’ emotivamente, materialmente e individualmente in questo modo con effetti di profondo spaesamento dentro i confini e i profili della classe.

 

Tra lavoro autonomo e microimpresa

Nel suo recente Problematiche del lavoro autonomo in Italia10 Sergio Bologna elabora una prima analisi in profondità di questa, per larga parte, nuova figura sociale sia in termini quantitativi che qualitativi.

Il lavoro autonomo costituisce una specie di «secondo livello» della flessibilità del lavoro, essendo il primo rappresentato dalla quota di lavoro la cui flessibilità è regolamentata contrattualmente e giuridicamente ed il terzo rappresentato dall’intero universo del lavoro nero o «non ufficiale».

Generalmente il lavoratore autonomo assume il profilo giuridico della «ditta individuale», anche se per molte non è obbligatoria la registrazione alle Camere di Commercio. Secondo l’ipotesi interpretativa di Sergio Bologna, una parte molto rilevante di «lavoratori autonomi» esegue mansioni semplici lontano dalle unità produttive che le ha commissionate, il loro salario è rappresentato dalle fatture che presentano secondo una periodicità variabile per il lavoro fornito e i vincoli posti alla loro prestazione dal committente appaiono essere sempre più rigidi.

Certamente dentro questo universo ci sono anche le decine di migliaia di bottegai, ma la quota di coloro che lavorano per le imprese o che sono produttori di merci e servizi si è tuttavia enormemente dilatata fino a rappresentare un fattore di grande rilevanza dell’universo del lavoro.

«Essi non sono altro che forza lavoro desalarizzata, non si pongono in maniera autonoma in rapporto a un mercato pluricliente (un’altra quota ha invece questa caratteristiche) e tuttavia, poiché debbono rispettare tempi e modalità di servizio rigidamente determinate, non sono detaylorizzati: quindi rivestono sì la forma di microimpresa, in realtà sono il nuovo operaio massa-dell’impresa a rete».12

Sostanzialmente si è data vita in questi anni a quella che gli economisti chiamano una protoindustria: legata al locale, alla famiglia, all’autoimprenditorialità, alla microimprenditorialità. Lo sviluppo dei servizi, che è il fatto nuovo, si è basato sulle strutture primarie: la famiglia e le reti parentali, reti che consentono uno sviluppo forte dell’economia informale.

Dello stesso parere sembra essere anche André Gorz quando afferma che: «Le grandi imprese hanno imparato a decentrare e subappaltare, secondo il modello giapponese, il maggior numero possibile di produzioni e di servizi servendosi di imprese satelliti — perlopiù minuscole — composte al limite di un solo imprenditore artigiano che lavora esclusivamente per la grande azienda con capitale prestato dalla stessa azienda».13

Volendo citare una caso in grande ci si può riferire alla attuale struttura produttiva della FiAT-auto: «Un auto Fiat è infatti composta di circa 5000 pezzi che sono in gran parte prodotti esternamente alla FiAT-auto: il 25% delle forniture sono acquistate da aziende straniere (perlopiù europee), un altro 25% provengono direttamente dalla componentistica fiat (circa 45.000 addetti), il rimanente 50% da piccole aziende indipendenti che producono esclusivamente per la fiat. Molte di queste ultime unità produttive sono sorte per iniziativa di ex dipendenti Fiat (perlopiù quadri e capi), alcune grazie a partecipazione di capitale Fiat a cui sono legate non solo economicamente ma anche culturalmente. Esse occupano 150.000 addetti e la loro produzione è estremamente specializzata».14

Qualcosa di molto simile e di ancora più «sofisticato» avviene in altri settori produttivi (celebri, ad es., sono i modelli Benetton o Stefanel e, nel settore agricolo, il modello Ferruzzi).15

Questi processi di dislocazione dei fattori produttivi sono strettamente intrecciati con le intrinseche necessità di modifica della produzione industriale nell’epoca del passaggio dalla produzione di massa (che era giunta a saturazione) alla produzione qualitativa. Oggi il miglioramento della qualità è lo strumento necessario per accelerare le sostituzioni.

Ciò avviene tramite soluzioni sempre più orientate alla personalizzazione di beni e servizi. La tecnologia diventa in questo senso risorsa indispensabile non meno che il capitale umano. Permette la continua differenziazione del prodotto, e ciò è tanto più possibile quanto più la produzione possa essere organizzata per piccole unità produttive, adatte a valorizzare e «controllare» le risorse umane e le singole abilità lavorative integrate creativamente con le tecnologie stesse.

Di qui, la necessità da parte dell’impresa di assumere «configurazione a geometria variabile» con confini mobili. La dimensione organizzativa di ogni area decisionale varia a seconda della tipologia del problema da gestire: la soluzione non è più sempre e comunque lasciata al «centro», ma si demanda al sottosistema più idoneo all’invenzione di nuove aggregazioni o alleanze con altre imprese.

Siamo quindi in presenza di un nuovo paradigma tecnologico che tende a distruggere i cicli industriali precedenti creando nuove figure sociali e produttive dislocate in aree territoriali molto vaste e con forti e storicamente radicate «tradizioni» imprenditoriali e produttive che, se da un lato danno luogo a macroregioni sovranazionali16 interconnesse tra loro, dall’altro consolidano una miriade di «società locali» dove si sviluppano forme di cooperazione sociale tra imprese. La tecnologia informatica è, in questo caso, la rete ‘virtuale’ di collegamento tra tutte queste realtà produttive. Essa permette infatti la trasmissione di informazioni e istruzioni a un costo molto basso sostanzialmente indipendente dalla distanza. «Si osserva, pertanto, la parallela estensione di un medesimo processo produttivo a varie aree del pianeta e l’adattamento a esigenze di piccoli gruppi di varianti di un modello di base».17

La nuova ideologia del lavoro

Le nuove tecnologie e la profonda ridislocazione dei fattori produttivi sono state indubbiamente una risposta padronale alla ingestibilità del corpo centrale della classe, ma questa risposta è stata resa possibile e, dialetticamente, necessaria dalla irruzione delle tecnologie flessibili. Essa ha inciso in maniera profonda sulla modifica dei territori industriali, ha ridisegnato la geometria della composizione sociale di intere regioni, ha inciso sulle caratteristiche del mercato del lavoro che si è massicciamente territorializzato e localizzato fuori dalle grandi metropoli, dentri i piccoli centri di provincia delle regioni produttive del centro-nord. L’espulsione dei lavoratori dalle grandi fabbriche metropolitane ha determinato il loro ritorno nelle società locali.18

Una parte di loro si è trasformata in imprenditore di micro-impresa, altri in lavoratori autonomi, moltissimi in forza lavoro flessibile.

Da uno studio Comisma (relativo al modello pratese o alle maglierie di Carpi) si ricavano utili indicazioni sui ritmi di lavoro degli artigiani e delle micro-imprese. Molti di loro- e i loro dipendenti- sono costretti a lavorare anche 16 ore al giorno così come sono tenuti a rispettare il just in time. Inutile dire che se trasferita nel modello fiat (o consimili) la situazione non cambia.

Gli stessi lavoratori autonomi a carattere individuale (cioè senza dipendenti) registrano, come dato immediato della propria indipendenza desalarizzata, un formidabile aumento della giornata e della settimana lavorativa. Condizione questa che probabilmente non avrebbero mai accettato nella condizione di lavoratori salariati. Siamo quindi in presenza di uno straordinario processo di valorizzazione della forza lavoro o di una sua continua contrattazione nel caso dei lavoratori delle microimprese.

Per cui si può affermare, nell’ambito di un intervento a carattere parziale, che siamo in presenza non solo di uno sconvolgimento dei profili della classe, ma anche e sopratutto di quello delle élites dirigenti.

 

Una «nuova borghesia» e un’oligarchia diffusa?

Abbiamo fin qui delineato un’ipotesi che attiene alla tesi del tendenziale e ormai largamente affermato tramonto del modello taylorista-fordista. Un tramonto che trascina con sé interi universi sociali che sono stati la base politica e culturale dell’ultimo secolo. A fronte di ciò vediamo emergere nuove figure sociali e produttive. Si stanno formando una nuova borghesia e una nuova composizione di classe e molto altro ancora se inseriamo questi cambiamenti nel mutato quadro internazionale. Su questo ultimo punto, e per inciso, non c’è dubbio che il tramonto dei paesi a socialismo reale ha rimescolato e fatto cadere molte «appartenenze», ha per molti azzerato gli orizzonti di riferimento e di trasformazione, ha anche però «liberato» una enorme massa di voti moderati che possono assumere, potenzialmente, valenze più progressiste o, come è probabile e già sta avvenendo, tonalità più «reazionarie». Ed è anche per questa ultima considerazione che diventa determinante l’analisi dei processi materiali che inducono sia le tonalità emotive che le scelte politiche.19

Mario Deaglio nel testo citato in nota, delinea un quadro della nuova borghesia facendone risalire la nascita la periodo 1975/84. Caratteristiche peculiari di questi nuovi soggetti, imprenditori e diffusi, attengono all’attenzione per le nuove tecnologie, alla valorizzazione del capitale umano, al dare vita a imprese molto efficienti e di piccole dimensioni e alla tendenza a ridurre notevolmente le suddivisioni tra imprenditore e dirigente e tra dirigente e lavoratore valorizzato. In linea generale queste fisionomie dell’organizzazione produttiva sarebbero indispensabili e funzionali al nuovo modo di produrre.211

Non c’è dubbio che le società locali del Nord del paese (ridisegnate dal decentramento produttivo) dove i rapporti di lavoro sono per la gran parte familiari, parentali o amicali, sono il territorio ideale per facilitare queste necessità imprenditoriali nel mentre modificano in profondità l’orizzonte di appartenenza dei lavoratori.

E ciò anche se questa ultima conseguenza viene vissuta dai soggetti stessi come recupero di autonomia e coma valorizzazione del proprio skill.

Ma questa falsificazione del proprio vissuto non è ovviamente priva di conseguenze. Occorre infatti dire, che la consapevolezza di essere in possesso di un capitale umano immateriale (abilità, destrezza, flessibilità, capacità decisionale: il vero significato del termine skill se rapportato alle nuove tecnologie e ai nuovi processi produttivi) separato dall’universo di quella che noi chiamiamo «coscienza di classe» determina una figura sociale che, di per sé, tende ad annullare sia le differenze con l’imprenditore che, attraverso il processo di autofalsificazione, l’alienazione operaia.

Ma in un largo comparto del mondo del lavoro un humus sociale e culturale così connotato ha tra gli esiti non secondari l’effetto di generare un rifiuto «spontaneo» di qualsiasi regolazione del mercato del lavoro, che imponga trasferimenti di reddito di natura solidaristica dai lavoratori con redditi più elevati ai lavoratori con redditi più bassi, o dall’insieme dei lavoratori al resto della società.

Parallelamente le centinaia di migliaia di «nuovi imprenditori», che alcuni definiscono «nuova borghesia» e altri «oligarchia diffusa», non hanno nessun legame con le precedenti borghesie industriali in decadenza (nel caso lombardo-milanese sostanzialmente dissolte nel volgere di pochi anni) e sono totalmente privi di un qualsiasi referente ideologico-culturale, non riconoscendosi completamente in alcuna delle grandi correnti politiche, filosofiche, religiose.21

I territori privilegiati del formarsi e del dispiegarsi di questa, per molti versi, nuova «configurazione socio-economica» sono stati quelli compresi nelle regioni del Centro-Nord industriale (con una fortissima accentuazione nei territori del Nord-Est). Queste aree che sono state il cuore dello sviluppo industriale nazionale, assumono oggi nuove valenze e significato proprio a seguito delle trasformazioni produttive in atto. L’enorme sconvolgimento intervenuto nell’universo del lavoro ha ridisegnato i confini simbolici degli «stili di vita» che hanno dato luogo a nuove gerarchie e nuove forme di cooperazione sociale che fanno del territorio, in senso ampio, una risorsa strategica. Appare quindi comprensibile che queste aree siano le più interessate al fenomeno della crisi del tradizionale sistema dei partiti.

Ed è dentro questo vuoto della rappresentanza che si è determinato il fenomeno leghista con tutti i suoi contorni contraddittori.

Un fenomeno elettorale tra i più grandi del dopoguerra europeo e che. se indubbiamente ha il ‘merito’ di avere per primo «sbrinato» il sistema politico italiano, pone nel contempo inquietanti interrogativi sul futuro degli spazi democratici in questo paese.

Ma sarebbe un errore pensare che quelli che vengono definiti i «localismi economici» e i «localismi politici», siano caratteristiche peculiari del paese Italia, in realtà processi consimili sono presenti nella Repubblica Federale Tedesca, in alcuni cantoni svizzeri, in Austria e in alcune zone particolarmente sviluppate degli ex paesi socialisti (l’Ungheria e la Slovenia ad es.). Non deve quindi sorprendere che esistano a livello Cee progetti oramai operanti di macroregioni europee sovranazionali, che includono le aree geoeconomiche citate, nel mentre nelle stesse si verificano fenomeni politico-elettorali somiglianti al leghismo che assumono frequentemente (ad esempio nel Baden-Württemberg e in alcuni Länder austriaci che hanno notevoli somiglianze con la struttura economica lombardo-veneta) e colorazioni di estrema destra.

Per cui si potrebbe affermare paradossalmente che, per alcuni aspetti, la Lega Nord è persino un contenitore di una spinta sociale che avrebbe connotati ancora più politicamente definiti.22

Ma come è ovvio la rappresentanza (così come la intende o dimostra di volerla interpretare la Lega Nord) di questa complessa e diffusa nuova configurazione socio-economica non può che tendenzialmente confliggere con gli interessi della grande impresa che sull’impresa a rete, sulla fabbrica integrata, il lavoro in appalto, il lavoro autonomo, ecc., fonda una parte rilevante della propria progettualità. E in effetti il consolidarsi e il rendersi visibile di questo «nuovo ceto medio» produttivo proteso alla conquista di forti posizioni di rappresentanza dentro lo Stato, non può che porre in imbarazzo le strategie delle cinque o sei grandi élites industriali.

 

 

Seconda Parte

 

Tra postfordismo e nuova destra sociale, in “Decoder”, n. 8, 1 semestre 1993, ripubbl. in versione più ampia in “Vis àVis, Quaderni per l’autonomia di classe”, Bologna, n. 1, autunno 1993

 

Note

 

1. Vedi B. Cartosio, Stati Uniti: la mutazione capitalistica in atto, in “Altreragioni”, 2, 1993.

2. «L’esistenza stessa di un nuovo modo di produrre implica la perdita di valore del capitale, fisico e umano, investito nei precedenti, e meno efficienti, processi produttivi, con estese chiusure di impianti ed espulsione di manodopera […] Sul continente europeo le fasi della distruzione economica del vecchio capitale fisico e della successiva, lenta creazione del nuovo capitale necessario ai nuovi processi produttivi non sono del tutto chiaramente distinguibili e coprono un periodo che va dal 1975 al 1984»; M. Deaglio, La nuova borghesia e la sfida del capitalismo, Laterza, Bari 1991.

3. Vedi inoltre le considerazioni di Marco Revelli in Fiat: la via italiana al post-fordismo, in AA.VV., Il nuovo macchinismo, Datanews, Roma 1992: «È con la prima metà degli anni ‘70 che la direzione Fiat deve prendere atto dei limiti sociali strutturali del modello produttivo vallettiano, in corrispondenza con la constatazione del carattere non occasionale, ne riassorbibile, del conflitto esploso alla fine del decennio precedente e proseguito con straordinaria anelasticità. Si trattava non di un disturbo transitorio, ne di un semplice problema di ridistribuzione del reddito risolvibile per via salariale, ma della specifica forma con cui ‘quella’ forza lavoro stava dentro «quella» organizzazione del lavoro una volta venuta meno l’arma della divisione e della paura […] Maturò allora la scelta di confrontarsi con quella «composizione di classe», con i suoi livelli strutturali di rigidità, con la sua specifica insubordinazione produttiva, attraverso l’arma «oggettiva» della tecnologia. Di rinunciare, in sostanza, a uno scontro frontale giudicato troppo costoso, e di giocare la carta dell’innovazione». Il testo citato all’inizio della nota raccoglie gli atti del seminario promosso dai Circoli Comunisti sul tema Lavoro e qualità totale nella fabbrica integrata e flessibile, i casi Fiat, Zanussi e Italtel, svoltosi a Venezia il 7 e 8 Febbraio 1992.

4. Vedi M. Revelli in Fiat: la via italiana al post-fordismo, cit. In quanto a enfasi sulla svolta «epocale» vedi anche: J. P. Womack, D. T. Jones, D. Roos, La macchina che ha cambiato il mondo. Passato, presente e futuro dell’automobile secondo gli esperti del MIT, Introduzione di G. Agnelli, Rizzoli, Milano 1991.

5. Vedi L. Berti, Sull’invisibilità del problema operaio nella società post-industriale, in “Iter”, n° 1,1991.

6. Ibidem

7 .Vedi L. Gallino, Tecnologia, organizzazione e società, Etas Libri, Milano, 1992.

8. Ibidem

9. In L. Berti,

10. In “Altreragioni”, nn° 1 e 2,1992/93.

11. Ibidem

12. Ibidem

13. Gorz, Metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

14. Polo, Gli inganni della qualità totale, (inedito). Vedi anche B. Coriat, Ripensare l’organizzazione del lavoro. Dedalo, Bari 1991, da cui risulta, ad esempio, che la giapponese Toyota appalta all’esterno il 70% della produzione.

15. Vedi in proposito le incisive analisi contenute in L’imprenditore politico: il modello Benetton, curato da alcuni esuli italiani a Parigi e pubblicato nel numero 3 della rivista “Klinamen”, 1992: «I nuovi attori erano operai (o ex operai), ma anche forza lavoro scolarizzata e, a volte, altamente qualificata […]. Rifiutavano il lavoro ripetitivo e dequalificante della grande industria, cercavano nel territorio di appartenenza forme alternative di autovalorizzazione. È a questo movimento qualitativo legato alla crisi sociale della grande industria che si deve l’amplificazione del doppio lavoro, del lavoro indipendente e la proliferazione delle piccole fabbriche sparpagliate sul territorio. Benetton ne intuisce la potenzialità e decentra una parte rilevante della produzione a queste figure sociali.» In questa direzione e partendo dalle risorse locali, la grande impresa è l’unica in grado di assicurare la commercializzazione intemazionale della produzione. Simile è il modello Ferruzzi: «L’esempio del gruppo Ferruzzi risulta centrale, La sua dimensione politica globale è la sola in grado di assicurare a migliaia di piccole imprese agricole il «savoir-faire» necessario per sviluppare politiche di lobby e di comunicazione (sull’utilizzo alternativo delle risorse agricole) che soli possono assicurare le sovvenzioni comunitarie alle culture di barbabietole e soia». In questo senso il «localismo produttivo» è evidentemente intrecciato indissolubilmente con i processi di globalizzazione del capitale.

16. Vedi ad esempio la Comunità di Lavoro Alpe Adria (ormai operante) che si è costituita nelle Regioni di confine delle Alpi Centro-Orientali e dell’Alto Adriatico. Comprende 18 Regioni di Stati occidentali (Italia, Germania Federale e Svizzera) neutrali (Austria), non allineati (ex Iugoslavia per ciò che concerne Slovenia e Croazia) e orientali (Ungheria). Alpe Adria si è costituita nel 1978 e fin dall’inizio comprendeva sia la Slovenia che la Croazia e ciò potrebbe consentire suggestive riflessioni sugli eventi bellici successivi. Complessivamente Alpe Adria comprende circa 40 milioni di abitanti.

17. Vedi Mario Deaglio, La nuova borghesia e la sfida del capitalismo, Laterza, Bari 1991.

18. Parallelamente molti hanno abbandonato la metropoli per gli aumentati costi di sopravvivenza.

19. Si possono qui ricordare alcune pregnanti riflessioni di un grande e indimenticabile compagno di strada come Félix Guattari: «Si può dire che la storia contemporanea è sempre più dominata dal montare di rivendicazioni di singolarità soggettiva – conflitti linguistici, rivendicazioni autonomiste, questioni nazionaliste- che in un ambiguità totale esprimono aspirazioni alla liberazione nazionale, ma si manifestano d’altra parte in quel che io chiamerei delle riterritorializzazioni conservatrici della soggettività. Una certa rappresentazione universalista della soggettività, incarnata dal colonialismo capitalistico dell’occidente ha fatto fallimento, senza che si possa ancora misurare a pieno l’ampiezza di questo scacco». Felix Guattari, Chaosmos, Galilée, Paris, 1992.

20. Anche nei recenti rapporti ocse si dà grande importanza alle «economie di localizzazione» dove si dterminano concentrazioni di attività simili, specializzate e frequentemente cooperanti, secondo un modello tipicamente «marshalliano». E dove «1’esistenza in un posto di una manodopera specializzata è per gli investitori potenziali un fattore strategico di primaria importanza» tanto più rilevante quanto meno gli stessi lavoratori siano costretti a spostarsi per trovare o cambiare lavoro.

21. Deaglio, cit.

22. Non è infatti casuale che si evidenzi una furibonda concorrenza tra i leghisti e il fascista in doppiopetto Fini. Ma sarebbe un errore leggere delle equivalenze marcate tra i votanti leghisti e la progettualità neofascista. Al massimo ci sono settori leghisti (molto minoritari) che oscillano tra le due formazioni. Diverso è il problema se ci riferiamo ad alcuni casi europei. Due in particolare quelli significativi: il Fpoe (il partito liberale austriaco) di Joerg Haider e i Republikaner di Schönhuber in (Cfr. Dellavalle in questo numero di “Iter”). Il Fpoe in particolare è passato in breve tempo dal 5 al 16% (20% a Vienna). All’inizio il Fpoe si era fatto promotore di un nuovo spirito di iniziativa economica in un paese dominato dal consociativismo e daU’industria di Stato. Poi, per allargare i consensi, è diventato il campione del Kleiner Mann, della piccola gente, contro gli stranieri (in Austria su 7 milioni e mezzo di abitanti, vivono 600.000 stranieri legalmente registrati e altri centomila illegali) «che portano via il lavoro e fanno salire gli affitti e la criminalità». Haider voleva intitolare la sua biografia, uscita recentemente in Austria, Sein Kampf (la sua battaglia) con chiara allusione all’opera di Hitler. Inutile dire che questa opera va letteralmente ‘a ruba’ mentre è noto che un recente e sia pur discutibile sondaggio in Germania rivela che il 39% dei tedeschi vorrebbe il re- pubblikaner Schönhuber presidente della Repubblica.