approfondimenti

EDITORIALE

Una politica femminista per immaginare un nuovo presente

La contrapposizione tra nazionale e internazionale sta giocando un ruolo fondamentale nella costruzione di un nuovo senso di insicurezza globale. Gli emergenti leader-maschi neo-autoritari di stati-forti vogliono porre rimedio a questa insicurezza imponendo confini chiari tra tra chi è fuori e chi è dentro. Una politica femminista deve ribaltare questo senso di insicurezza e riconnettere le fila tra esterno e interno, nazionale e internazionale

Scrollo le notizie con il mio pollice destro quasi anestetizzata di fronte alla barbarie della rassegna stampa quotidiana. Bombardata dalle notizie di politica interna ed estera sempre peggiori, mentre la luce blu dello schermo del telefono mi impedisce di comprendere fino in fondo cosa significhino tutte queste informazioni. In nome della sicurezza interna, Salvini ha ri-proclamato la chiusura dei porti, lasciando al largo delle coste di Siracusa un’altra nave della Sea Watch per giorni. Il ministro dell’interno continua a urlare che l’Italia non cederà, e che è l’ora di tornare a mostrare la nostra forza sullo scacchiere europeo e internazionale.

Salvini, come tanti altri leader neo-autoritari mondiali, alimenta la paura per la sicurezza “degli italiani” tramite la costruzione di una condizione esterna incontrollata, “le migrazioni internazionali”. Migranti che portano malattie, terrorismo, droga, povertà… Le prime a soffrire per questa insicurezza sul nostro territorio nazionale sono le donne; troppo deboli per difendersi da sole devono essere protette dallo Stato-forte e dal suo leader-maschio, sempre pronto a presentarsi sulla scena di un crimine efferato, soprattutto se commesso da un maschio-nero.

In questo gioco non sono importanti i numeri reali (meno reati, più emigrazione che immigrazione), ma la percezione (e la costruzione) di una paura che le persone vivono in maniera reale. Abbiamo paura di prendere l’autobus la notte, di camminare per le strade buie, viviamo nel terrore di essere derubate dentro casa, o di essere stuprate in un angolo buio della metropolitana. Non sappiamo quanti casi ci siano stati di scippi finiti male per le strade del nostro quartiere – forse nessuno – ma continuiamo a girarci ossessivamente per controllare che qualcuno non ci segua. Eppure la maggior parte delle donne subisce violenza nelle proprie case da persone con le quali era in qualche modo legata sentimentalmente.

 

La contrapposizione tra interno ed esterno gioca un ruolo fondamentale nella costruzione di questo senso di insicurezza. L’insicurezza globale deve essere risolta dallo Stato-forte e dal suo leader-maschio ponendo dei confini chiari tra interno ed esterno, tra chi è fuori e chi è dentro, tra chi deve essere difeso, chi deve difendere e chi deve essere combattuto. Alla ricerca della sicurezza nazionale si alzano muri, si chiudono i confini, e si muovono guerre.

 

Per questo oggi qualsiasi azione politica non può che ripartire dal ribaltamento del concetto di sicurezza e del suo correlato di forza, riannodando i fili tra politica nazionale e internazionale. Non è un caso che uno degli slogan del movimento femminista sia: «le strade libere le fanno le donne che le attraversano». Nella sua semplicità e chiarezza – come i migliori slogan politici – spiega come la sicurezza delle donne non deriva dall’azione dello Stato-forte, o tantomeno dalle parole del suo leader-maschio, ma dall’attraversamento condiviso delle paure individuali e sociali. Quindi, per ribaltare la percezione dell’insicurezza bisogna ripartire dalla propria vulnerabilità per trasformarla in forza collettiva, così come ha fatto Non Una di Meno.

 

 

Siamo partite dalla paura individuale per la violenza che potrebbe capitare ad ognuna di noi, l’abbiamo raccolta, connessa, e intrecciata, sprigionandone forza collettiva. Ed è quella forza che senti quando cammini in un corteo femminista, quella che porti a casa per quando camminerai di nuovo sola per delle strade buie.

 

Le donne che prendono coscienza della propria forza collettiva e si (auto)difendono, si riappropriano dell’azione che lo Stato-forte avrebbe voluto imporre su di loro e sull’intera collettività. Non solo si sottraggono al controllo familiare, ma scalzano l’azione statuale che voleva difenderle. Ed è per questo che i leader-maschi neo-autoritari hanno dichiarato guerra al femminismo, perché è un movimento in grado di sottrargli lo spazio politico.

 

A partire da questo ribaltamento femminista del concetto di sicurezza, bisogna poi riconnettere interno ed esterno, nazionale ed internazionale, micro e macro, locale e globale. L’azione locale è oggi un’azione modulare che può essere in diretta connessione con il campo globale e non è contrapposta a esso. Così, mentre i sovranisti – da destra a sinistra – impongono una nuova visione della politica globale incentrata sulla contrapposizione tra esterno e interno, bisogna ribadire che la pace e la sicurezza globale si basano esattamente su un programma opposto. Da questo punto di vista diventa facile comprendere come le frontiere aperte non mettono in pericolo la sicurezza nazionale, ma al contrario sono l’unico modo di garantire una convivenza pacifica, così come ci ha insegnato il modello di Riace. Solo garantendo i documenti a tutte le persone che risiedono nel nostro paese potremmo farle vivere nella legalità, primo passo per garantirgli una vita degna.

Eppure, tantissime analisi geopolitiche e internazionali continuano a ritenere la chiusura dei porti una “dimostrazione di forza”, in qualche modo necessaria. E purtroppo sono in molti anche a sinistra ad avallare l’idea che un controllo stretto delle frontiere sia l’unica possibilità per garantire la sicurezza dei lavoratori interni. Tutto questo in nome della razionalità e della gestione oculata delle risorse economiche. Oggi, invece, dovremmo riuscire a liberare la nostra concezione della politica – internazionale ed economica prima di tutto – da queste “strettoie razionali”.

 

Nel momento stesso in cui le notizie “di politica” non sono altro che un elenco di atroci barbarie, così come i loro commenti online, dobbiamo aprire lo spazio della politica alla forza dell’immaginazione femminista.

 

Affinché un presente differente da quello attuale torni a essere anche solo pensabile, creazione e immaginazione devono tornare al centro della politica. Creazione, immaginazione, sentimento, emozione, debolezza, empatia dovrebbero guidare le nostre analisi di politica economica e internazionale, affinché un’alternativa a questa barbarie possa essere prima di tutto sentita, per poi essere immaginata e creata. Oltre la razionalità che oggi ci ha portato fino a qua.