MONDO

Pkk, non la fine ma un nuovo inizio
Dopo circa 50 anni di lotta armata, il Partito dei lavoratori del kurdistan annuncia che cesserà ogni attività sotto questo nome. Una svolta storica, in attesa della liberazione di Abdullah Öcalan
Tra il 5 e il 7 maggio si è svolto il 12° Congresso del PKK, in due differenti località all’interno delle Zone di Difesa di Medya, sulle montagne di Qandil, dove l’organizzazione ha la sua roccaforte nella Regione del Kurdistan iracheno. Per ragioni di sicurezza i lavori si sono dovuti svolgere in segreto e i 232 delegati e delegate non hanno potuto riunirsi in un unico luogo. Ormai era nell’aria che il Congresso del PKK si sarebbe tenuto in tempi brevi, dopo lo storico appello del 27 febbraio scorso del leader curdo, Abdullah Öcalan, con il quale aveva chiesto all’organizzazione che aveva contribuito a fondare nel 1978 di convocare un Congresso per discutere del suo scioglimento.
Ma quali sono le ragioni per cui Öcalan ritiene che il PKK debba dissolversi? Con il passare dei mesi sono diventate sempre più chiare e sembra che il popolo curdo, nonostante perplessità e titubanze, sia pronto a intraprendere un nuovo tentativo di porre fine alla guerra in Turchia, che ha causato in oltre 40 anni decine di migliaia di vittime.
Il Congresso ha sancito la sua fedeltà al suo leader, riconoscendogli la capacità e il diritto di guidare il processo di pace che si è aperto ma che ha ancora molti passi da fare.
Condividendo con Öcalan l’analisi secondo la quale oggi al popolo curdo è riconosciuta la sua identità e il diritto all’esistenza, pertanto non può più essere marginalizzato né considerato invisibile, essendo entrato a far parte come attore politico della società turca con i suoi circa 50 anni di lotta, di cui più di 40 armata, il Congresso ha accolto la richiesta di scioglimento del suo leader per passare da un piano di lotta armata a uno prettamente politico.
L’analisi della situazione politica internazionale e di quella mediorientale in particolare è stata oggetto del dibattito, sottolineando un certo pragmatismo nelle decisioni storiche assunte. Il cambiamento nel modo di fare la guerra, con alta tecnologia e uso massiccio di droni, e l’insediamento dell’amministrazione Trump negli Stati Uniti, su cui nessuno può fare affidamento, nemmeno le popolazioni curde del Rojava in Siria, impongono un ripensamento della tattica per raggiungere comunque lo stesso obiettivo, ossia il riconoscimento dei diritti negati al popolo curdo.
Nelle dichiarazioni finali dei lavori congressuali si legge infatti che “anche gli attuali sviluppi in Medio Oriente nel contesto della Terza guerra mondiale rendono inevitabile la ristrutturazione delle relazioni curdo-turche”.
Lo scioglimento del PKK dovrebbe quindi dare sufficienti garanzie a Erdogan e ai suoi alleati sulle buone intenzioni di Öcalan e della leadership del PKK di portare a termine il processo di pace. Bisognerà attendere le prossime mosse del Presidente turco per comprendere meglio che tipo di partita stia giocando perché fino ad ora, dall’annuncio di Öcalan per “una Pace e una Società Democratica” del 27 febbraio scorso, la repressione delle opposizioni in Turchia ha visto una preoccupante escalation.
Erdogan, che può utilizzare la dissoluzione del PKK come un successo personale nella lotta al terrorismo, visto che il gruppo è ancora segnalato nelle liste delle organizzazioni terroristiche, adesso però si ritrova con la patata bollente tra le mani, visto che la decisione assunta dal Congresso del PKK è epocale. Se dovesse optare per non seguire fino in fondo la strada del processo di pace, creando ad arte dei pretesti, potrebbe scatenare nel Paese dure reazioni da parte della popolazione curda, vicina a Öcalan.
Secondo l’analista Asli Aydintasbas, intervistata da Deutsche Welle News, la società turca non è pronta ad affrontare quanto sta accadendo perché, diversamente dal precedente processo di pace durante il quale c’era stata molta discussione pubblica, oggi le cittadine e i cittadini non sono statə preparatə. Le trattative in corso tra Ankara e il PKK si stanno infatti svolgendo a porte chiuse e la gente sente parlare solo delle dichiarazioni di Öcalan e del PKK mentre dal governo arrivano messaggi con cui il processo di pace è descritto unicamente come un processo per terminare con la stagione del terrorismo. Aydintasbas prosegue dicendo che il governo deve portare il discorso su un altro livello, spiegando ai suoi cittadini e alle sue cittadine che il processo di pace conviene anche a loro e alla democrazia e può segnare un avanzamento politico e economico nel Paese.
Erdogan dovrà tenerne conto nelle sue decisioni perché il consenso nei suoi confronti è calato a causa dei guai economici, con un tasso di inflazione ancora non sotto controllo e una forte crisi occupazionale. La Turchia ha già dimostrato con le manifestazioni oceaniche contro l’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, di sapersi organizzare per esprimere apertamente il dissenso, nonostante la repressione e i rischi personali che ogni manifestante corre.
Inoltre Erdogan sa che un esito positivo del processo di pace potrebbe tornargli utile poiché il PKK è una spina nel fianco e la sua presenza mina i suoi progetti neocoloniali in Siria per il legame che la regione siriana del Rojava ha con questa organizzazione.
Il processo di pace in corso è un momento cruciale per la questione curda e ha bisogno del supporto della società turca e curda ma anche di quella internazionale. L’attenzione sullo stesso deve dunque rimanere alta per non permettere ai sabotatori di entrare in azione. Così l’appello alla mobilitazione di artisti, intellettuali, lavoratori, associazioni e organizzazioni dentro e fuori dalla Turchia per sostenere questo momento storico è arrivato dal 12° Congresso del PKK, unitamente all’invito rivolto ai potenti della terra di non interferire per far saltare in aria le negoziazioni ma piuttosto di lavorare a favore di una conclusione positiva e democratica.
La democratizzazione della Turchia, elemento indispensabile perché il processo di pace possa definirsi concluso positivamente, dovrebbe lasciare lo spazio alle idee di Öcalan di correre liberamente anche dentro i confini del Paese, senza più alcuna persecuzione ideologica e politica.
Nel paradigma del confederalismo democratico, elaborato da Öcalan, la parola socialismo si ripete e così si è fatta sentire anche nell’ultimo Congresso quando nella dichiarazione finale si è detto che “con il Socialismo della Società Democratica che rappresenta una nuova fase nel processo di pace e di società democratica e nella lotta per il socialismo, il movimento democratico globale progredirà e un mondo giusto ed equo emergerà. Su questa base, invitiamo l’opinione pubblica democratica, in particolare i nostri compagni che guidano la Global Freedom Initiative, ad ampliare la solidarietà internazionale nel quadro della teoria della modernità democratica”.
Nell’epoca che viviamo queste dichiarazioni spezzano quella continuità trasversale che unisce moltissimi governi, legati strettamente al modello della società capitalista, che invece Öcalan combatte.
“Per 27 anni, il leader Apo (Öcalan, ndr) ha resistito al sistema di annientamento di Imrali, vanificando la cospirazione internazionale. Nella sua lotta, ha analizzato il sistema statalista dominato dagli uomini e guidato dal potere e ha sviluppato un paradigma per una società democratica, ecologica e orientata alla libertà delle donne. In questo modo, ha materializzato un sistema di libertà alternativo per il nostro popolo, le donne e l’umanità oppressa”, così si è espresso ancora il Congresso plaudendo al sistema del paradigma del confederalismo democratico, che ha i suoi riferimenti nella democrazia radicale, nella donna e nell’ecologia.
È pronta la Turchia di Erdogan ad accettare la democratizzazione del Paese che sarà così chiamata ad aprire le porte anche a queste idee? Nel frattempo il PKK si rivolge al Parlamento turco invitandolo ad assumersi questa responsabilità storica sulle sue spalle affinché il processo di democratizzazione della società non rimanga nelle parole ma si traduca in atti concreti.
Saranno infatti necessarie delle riforme al codice penale e alla legge anti-terrorismo per permettere la liberazione dei prigionieri politici ma anche di quella grande quantità di persone, artisti, intellettuali membri di associazioni e altre che sono state accusate di supportare il PKK.
Ci vorrà un’amnistia generale disegnata in modo tale da garantire il processo di pacificazione, quindi accettata anche dalla società turca. Il cammino è iniziato ma la strada è ancora lunga.
Immagine di copertina di Kurdishstruggle (Flickr)
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