EUROPA

Il Parlamento europeo vota l’accordo con il Vietnam. Perché è pericoloso e chi lo difende

Approvato a Strasburgo dalla maggioranza degli eurodeputati l’ennesimo patto commerciale che conferisce grande potere alle aziende, ignorando le normative a tutela dell’interesse pubblico

Il Parlamento europeo ha scritto un’altra vergognosa pagina con l’approvazione dell’accordo di libero commercio con il Vietnam, votato dalla stragrande maggioranza degli eurodeputati: 401, 192 contrari, 40 astenuti. È accaduto ieri, 13 febbraio 2020. Tra gli italiani stupisce – ma non troppo – il voto favorevole del Movimento 5 stelle che aveva fatto del dissenso a questo tipo di patti uno dei cavalli di battaglia durante la campagna elettorale. Si discostano dal voto del loro gruppo i socialisti francesi, belgi e austriaci, insieme ad Alessandra Moretti. Si astengono per il Pd Bartolo, Benifei, Cozzolino, Smeriglio e Toia. (L’elenco completo dei votanti si trova qui).

L’accordo con il Vietnam rientra nella cosiddetta “nuova generazione di accordi commerciali” (di cui fanno parte i più noti TTIP e CETA) che l’Ue sta attualmente negoziando con circa venti paesi e regioni, hanno un campo di applicazione molto vasto e conferiscono alle imprese il potere di citare in giudizio i governi in caso di mancato guadagno, ignorando le normative a tutela del pubblico interesse.

Il caso del Vietnam è molto indicativo di quanto i diritti umani e l’attenzione al clima rimangano semplicemente proclami quando è il momento di legiferare: non sono valse a nulla le lettere di protesta delle associazioni vietnamite, internazionali e dei sindacati che avevano chiesto ai deputati di rinviare il voto fino a che il paese del sud-est asiatico non si fosse impegnato «a soddisfare parametri di riferimento concreti e verificabili per proteggere i diritti dei lavoratori e dei diritti umani».

Il Vietnam infatti non ha ratificato alcune convenzioni essenziali dell’Organizzazione internazionale del lavoro, come quella sulla libertà di organizzazione sindacale e il lavoro forzato e spicca per le misure a dir poco draconiane del suo governo: imprigionamento di attivisti e difensori dei diritti umani, torture e, da gennaio, con l’ingresso di una nuova legge sulla sicurezza informatica i diritti di espressione sono stati ancora più limitati. È finito in carcere anche il giornalista, Pham Chi Dung, reo di protestare contro il governo e tra i firmatari di una lettera che chiedeva il blocco della firma del trattato.

Tutto questo non è bastato al Parlamento europeo per fare un passo indietro, anzi, la presidente del gruppo dei socialisti, la spagnola Iratxe Garcia Perez, ha detto in conferenza stampa che il trattato «contiene un capitolo sullo sviluppo sostenibile in cui il Vietnam si impegna a rispettare i diritti del lavoro e i diritti umani», peccato che nessuna di quelle parole è vincolante. «Dicono che nel testo ci sono maggiori garanzie rispetto ai trattati precedenti, è vero che sono citate delle convenzioni in più rispetto al passato, ma si basa sempre tutto sulla volontarietà, non è prevista nessuna sanzione – commenta Monica Di Sisto della campagna Stop-Ttip – questa purtroppo è una catastrofe annunciata. Mai come in questo caso era possibile condizionare molto di più l’altro paese, non è stato fatto perché in Europa si è condizionati dai grandi gruppi economici: c’è un forte interesse offensivo verso il tessile e il Vietnam è una fabbrica del mondo, è comoda, è riparata, il governo è assolutamente asservito e non esita a reprimere le proteste».

Altro capitolo che solleva preoccupazioni è la presenza delle clausole Ics – ossia Investment Court System – lo strumento che ha sostituito le Isds  (Investor-state dispute settlement). La sigla cambia, ma la sostanza rimane la stessa. Queste corti arbitrali garantiscono agli investitori privati il diritto di citare in giudizio le leggi nazionali che possono mettere a repentaglio le loro aspettative di diritto. Se il Vietnam quindi dovesse migliorare le condizioni dei loro lavoratori, una grande azienda del tessile potrebbe ricorrere a queste clausole, ma secondo il Movimento Cinque Stelle – che su questo punto si è astenuto – «l’accordo non è perfetto, ma rafforza il Made in Italy».

Anche dal mero punto di vista degli interessi commerciali la scelta di firmare l’accordo solleva molti dubbi, soprattutto per l’ingresso nel mercato europeo del riso vietnamita. Il tutto a pochi giorni dalla lettera con cui la Ministra alle Politiche agricole Teresa Bellanova chiedeva al Commissario europeo al commercio Hogan di escludere il riso cambogiano dalla lista di prodotti a dazi agevolati, una «scelta da cui dipende il futuro della risicoltura europea e italiana in particolare», motivando la richiesta anche a causa delle «conclamate e ripetute violazioni dei diritti umani, civili, e del lavoro da parte delle autorità cambogiane».