MONDO

«Noi palestinesi da minaccia per la sicurezza a pericolo per la salute»

Per il mondo le misure di prevenzione volte a fermare la diffusione del coronavirus appaiono distopiche. Per i palestinesi comportano un leggero peggioramento rispetto all’ordinaria amministrazione

Il nuovo Sabat Mall, inaugurato solo qualche mese fa su una delle principali vie di Betlemme, rimane completamente vuoto. Nonostante molti negozi del centro commerciale siano chiusi, il George’s supermarket, che si sarebbe dovuto aprire ufficialmente la scorsa settimana, è aperto a tutti coloro che desiderano acquistare generi alimentari. Eppure, quasi nessuno entra nel moderno negozio.

Ascensori panoramici scorrono su e giù per i piani del centro commerciale. Le cover strumentali di successi pop contemporanei si diffondono, senza intrattenere nessuno in particolare. Alcuni agenti di sicurezza stanno vicino alla porta, indossando le maschere attorno al collo e fumando. «Stranieri?», ci chiedono. «Palestinesi», rispondiamo.

Gli stranieri costituivano una risorsa preziosa. Ora, con la diffusione del nuovo coronavirus, che ha infettato almeno 31 persone in Cisgiordania e tutti gli abitanti di Betlemme, eccetto uno, sono considerati pericolosi. I primi casi palestinesi del virus sono stati ricondotti a un gruppo di turisti greci.

Fuori dal centro commerciale, anche le vie della città sono per lo più vuote. L’atmosfera è inquietante, come se si fosse entrati in un universo parallelo, una Betlemme magicamente svuotata dei suoi abitanti. Con un doloroso contraccolpo sui principali mezzi di sopravvivenza, qui lo scoppio del coronavirus ha stravolto l’imminente alta stagione del turismo. Immagini di Manger Square che viene disinfettata, di poliziotti palestinesi e soldati israeliani con tute protettive intorno ai posti di blocco o dentro la città e di camion che bruciano incenso e recitano preghiere con il megafono, evocano potenti luoghi comuni della fantascienza e raffigurazioni della fine del mondo.

Tutti sembrano preoccuparsi. Le insidiose ripercussioni dell’isolamento hanno cominciato a prendere piede: la crescente apprensione, l’inesplicabile rabbia, e l’irrefrenabile paranoia. Le voci di corridoio hanno iniziato a girare velocemente sulle applicazioni di messaggistica e sui social media, lasciando Betlemme in grande agitazione. Dallo scorso venerdì, tutti in città a un certo punto hanno ricevuto presunte liste di persone che hanno contratto il virus (con nome, cognome e numero identificativo), finti messaggi dei medici e allarmanti note vocali che fingono che la situazione sia fuori controllo. I ministeri e le autorità stanno sollecitando la popolazione a leggere, diffondere e fidarsi esclusivamente delle dichiarazione ufficiali.

Dal quinto giorno di confinamento, era diventato sempre più difficile capire di chi potersi fidare. Così siamo ricorsi a collaudati rimedi casalinghi: i sostenitori dell’aglio discussero con coloro che promuovevano i meriti dell’anice o con coloro che giuravano e spergiuravano che l’esposizione al sole avrebbe rapidamente ucciso il virus. Tutti sembravano concordare sul fatto che nessuno sapesse cosa stesse facendo e che la soluzione migliore fosse rimanere a casa e pregare che tutto ciò finisse.

Betlemme è una città abituata a essere ingannata. Se è a causa dell’incompetenza del comando palestinese, della onnipresente propaganda dell’occupazione israeliana o semplicemente a causa della sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti dei media, la città ha imparato a non fidarsi di nessuno. Chiacchiere e indiscrezioni sono diventate l’unico mezzo attraverso il quale si diffondono le notizie sul diffondersi del coronavirus, come rimedio alla percepita inettitudine (o malevolenza, a seconda di chi si chiede) delle autorità.

Un messaggio falso in particolare ha catturato la nostra immaginazione qualche giorno fa. In esso, un uomo che pretendeva di lavorare presso il Ministero della Salute palestinese ha annunciato a un suo amico che il ministero stesso avrebbe imposto un coprifuoco sulla città il giorno successivo, dal momento che la situazione era presumibilmente ben peggiore di quanto si fosse in precedenza immaginato. Il burlone fu presto catturato e si scusò.

Ma la sua bravata risuonò in quanto fu oggetto di uno dei vari dibattiti in corso tra i palestinesi: gli israeliani o le autorità palestinesi imporranno un coprifuoco a Betlemme? Dovrebbero? Alcuni reputano che sarebbe il modo migliore per contenere la diffusione del virus. Altri temono che ci abbiano colonizzato così profondamente che oramai attendiamo le inaccettabili misure di sicurezza di Israele per salvarci da noi stessi.

A tutti noi è ben nota la storia di Betlemme, una città avvezza a reclusioni e isolamenti. Venti anni fa, in questo stesso mese, Betlemme era stata ridotta a una città fantasma dopo che l’esercito israeliano aveva assediato la Basilica della Natività, dove i palestinesi si erano rifugiati durante la Seconda Intifada. Durante quaranta biblici giorni, la città fu svuotata di vita. In quel periodo, Israele ha imposto giorni o settimane di coprifuoco alla popolazione per cercare di piegare il morale e distruggere il tessuto sociale delle città della Cisgiordania.

Oggi, l’atmosfera del coprifuoco della Seconda Intifada pervade Betlemme. Se non fosse che ora, invece dei soldati e dei carri armati israeliani che si aggirano per la città, la polizia palestinese con le tute protettive, indossando le ormai onnipresenti maschere che segnalano la presenza del coronavirus, cerca di creare la parvenza di un’atmosfera controllata contro questa minaccia informe.

Questi dibattiti alimentati dalla paranoia sono in parte il risultato del completo isolamento della città. Betlemme sembra esser diventata radioattiva in questi ultimi giorni. Abbondano i meme che deridono la nuova condizione emarginata della città. Betlemme è stata chiusa: nessuno entra, nessuno esce, come se la città stessa propagasse la malattia. I palestinesi sono diventati, tutto d’un tratto, una minaccia, un pericolo per la salute, e un rischio per la sicurezza.

Il confinamento è iniziato nel periodo che precede la festa ebraica di Purim, per la quale Israele ogni anno limita gli spostamenti per i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Dunque, per molti palestinesi, le misure adottate da Israele, in quanto potenza occupante, nonché da parte dell’Autorità palestinese, sono ambivalenti.  Si basano su valutazioni sanitarie, ma anche su considerazioni politiche e di sicurezza. Il fatto che gli annunci relativi a questo doppio blocco provenissero da fonti diverse, tra cui il Ministero della Difesa israeliano, il Coordinatore delle Attività Governative nei Territori (COGAT) e l’organismo militare israeliano responsabile della gestione dell’occupazione, è visto come prova di ciò.

Lunedì in tarda serata, il Ministero della Salute di Israele ha annunciato che avrebbe esonerato dalla quarantena i visitatori (israeliani, ndt) che tornavano dalla Tomba di Rachele nella zona nord di Betlemme. Questo luogo, santo per musulmani, ebrei e cristiani, è ora separato dalla città attraverso barriere di cemento che fanno parte del muro dell’apartheid di Israele.

L’annuncio del Ministero della Sanità ha quindi tracciato una topografia di pericolo e di contagio, che segue da vicino quella del muro e della frontiera immaginaria di Israele. Sebbene quest’ultimo abbia più casi di coronavirus rispetto alla Cisgiordania, l’impressione è che un corpo palestinese è più incline ad ammalarsi, a contagiare e uccidere.

A dire il vero, Israele ha anche imposto severe misure sanitarie nel proprio territorio, mettendo in quarantena decine di migliaia di persone e rifiutando la maggior parte dei viaggiatori in arrivo. La chiusura di Betlemme è solo una estrema versione di tutto ciò. Una sorta di esperimento, a quanto pare.

La fantascienza può dare al pubblico l’impressione che il peggio possa solo avvenire nella distopia, ovvero in un lontano futuro o in un luogo distante. Qui in Palestina, i governi stanno già adottando misure drastiche per offuscare la linea di confine tra salute e sicurezza, sintetizzando le due in un unico strumento usato per spaventarci e renderci docili.

Ciò non significa che non vi siano motivi legittimi per temere la diffusione del virus, né che il distanziamento sociale sia una soluzione inadeguata. Poiché il confinamento diventa la soluzione preferita, risulta difficile non essere d’accordo con l’isolamento di Betlemme.

Tuttavia, la conseguente invocazione di misure di sicurezza per contenere un pericolo per la salute, soprattutto in Cisgiordania, dovrebbe metterci in guardia. Le drastiche misure di Israele, sia per la propria società che per i territori occupati, sono rese possibili grazie alla sua scrupolosa esperienza nella gestione della popolazione, una competenza che ha sviluppato nel corso dei decenni, soprattutto in Cisgiordania e a Gaza. La sua attuale gestione del coronavirus è collegata al suo controllo dei territori occupati.

Chiudere i posti di blocco non è una nuova misura, né passare al setaccio i lavoratori per identificare coloro che vengono da Betlemme, o creare una distinzione tra corpi palestinesi buoni e cattivi. Confinare i palestinesi, monitorare i loro spostamenti e sorvegliare le loro azioni è, senza dubbio, una parte fondamentale dell’occupazione.

Per i palestinesi, l’attuale chiusura di Betlemme non è né una distopia né un governo immaginario a venti minuti di proiezione nel futuro. Semmai, è un tuffo nel passato. L’insurrezione politica di vent’anni fa e la crisi sanitaria di oggi vengono affrontate in modo analogo, utilizzando metodi simili. Le misure che sembrano senza precedenti, terrificanti o disorientanti per il mondo sono, per i palestinesi, di ordinaria amministrazione, solo un po’ peggio.

 

Articolo tratto dal sito di informazione indipendente 972mag

Traduzione italiana di Giulia Musumeci per DINAMOpress

Foto di copertina del collettivo Activestills