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Oltre il principio di prestazione

Quella de “La società della prestazione” è una diagnosi spietata sull’attuale fase del capitalismo, che pone al centro la dimensione antropologica del neoliberalismo. Il volume scritto a quattro mani da Federico Chicchi e Anna Simone, traccia però delle possibili vie d’uscita

Sembriamo essere finalmente usciti da quel particolare periodo nel quale non riuscivamo a descrivere le trasformazioni sociali se non ricorrendo all’utilizzo del prefisso post. Come se il profilo delle nuove società che si andavano formando, fosse osservabile solo in negativo e per difetto.

Solo di recente sono aumentati i lavori in grado di far emergere allo scoperto i tratti positivi della nuova trama sociale. All’interno di questo cantiere di ricerca si colloca “La società della prestazione”, libro scritto a quattro mani da Federico Chicchi e Anna Simone e da poco pubblicato per Ediesse (2017). Differentemente da altri lavori pur ragguardevoli che hanno insistito nel fornire una definizione generale del neoliberalismo e della sua (nuova) razionalità, qui è l’individuazione di un suo tratto specifico, il “principio di prestazione”, a porsi come il perno e la chiave interpretativa per comprendere il consolidarsi dell’attuale forma societaria. Più che di una teoria generale, questo particolare punto di osservazione consente agli autori di tracciare una sorta di “diagnosi” della società contemporanee, capace di rendere conto tanto dei suoi meccanismi di funzionamento, quanto degli scompensi, dei colpi a vuoto e delle cadute che caratterizzerebbero in modo sempre più pervasivo il nostro (nuovo) modo di stare al mondo.

Figlia della “società del rischio” teorizzata da Ulrich Beck fin dagli anni Ottanta, quella della “prestazione” è una società che spinge gli individui a una forsennata corsa verso il successo personale, sottoponendoli a un’incessante valutazione e auto-valutazione, i cui criteri di misurazione ultimi sono da ricercare nel principio della concorrenza e dell’accumulazione privata: «la prestazione è, per assumere la questione dal nostro punto di vista, o meglio, sarebbe, la misura soggettiva della capacità a concorrere nell’arena agonica del mercato» (p. 54). Al posto del sistema fondato sul rapporto tra capitale e lavoro nel quale la prestazione produttiva era l’esito di uno scambio contrattualizzato, l’attuale forma sociale si esprime per mezzo di un’ingiunzione destinata agli individui affinché questi si producano come “soggetti performativi”. La prestazione che regola e informa l’attuale società, investe la soggettività nella sua interezza, invadendo le sue dimensioni affettive. Il suo oggetto non è tanto un’azione specifica, quanto la disposizione stessa ad agire. Differentemente dalla prestazione lavorativa muta, serializzata e massificata tipica della grande fabbrica tayloristica, il suo rovescio conflittuale non può più essere l’”estraniazione”.

Proprio a partire da questo presupposto, Chicchi e Simone puntano particolare attenzione sugli effetti psicopatologici che l’affermarsi del principio di prestazione porta con sé: il senso di fallimento personale, la vergogna e la depressione sono le figure che meglio esprimono lo scacco delle soggettività quando queste sono portate a prendere la performatività come loro unico criterio di misura.

Secondo gli autori, questa nuova realtà è l’esito di un lento processo di disgregazione e decomposizione che ha portato allo sfaldamento progressivo degli aggregati e degli statuti sociali che sorreggevano la traiettoria della “società salariale” acutamente descritta da Robert Castel, e che ha finito per svuotare a tal punto la densità del campo relazionale ed istituzionale da investire tutte le aspettative e i desideri sull’Io e sul suo narcisismo (quello che qui viene definito come “Io-centrismo”).

Due sembrano essere gli elementi fondamentali che hanno posto le basi per questa mutazione. La prima è l’evoluzione interna alla letteratura manageriale. Prendendo spunto dalle analisi di Boltanski e Chiapello, gli autori mostrano come l’”ordine del discorso” manageriale sia passato dal focalizzarsi sulle organizzazioni dell’impresa collettiva, ad un progressivo spostamento verso le dimensioni individuali, aprendo così a quella che loro stessi definiscono un’«economia psichica dell’Io» (p. 41). A questo spostamento interno, corrisponderebbe un’estensione del campo di applicazione del discorso manageriale a tutte le sfere della vita: in questo senso particolarmente impressionante è la descrizione dettagliata – nel quarto capitolo – non solo del passaggio dal più tradizionale management aziendale all’odierno management del sé, quanto la dimostrazione dell’estrema capacità che la logica manageriale ha nell’applicarsi alle, e nel mettere a valore, le “differenze” (sessuali, generazionali, etniche, ecc.).

Il secondo elemento è relativo alle trasformazioni epocali che hanno riguardato il lavoro, in particolare Chicchi e Simone si concentrano su tre distinti assi, quello della cognitivizzazione, dell’imprenditorializzazione e della diffusione del lavoro. Questi tre movimenti continuamente intrecciati e sovrapposti, descrivono ognuno a suo modo il generale sconfinamento di quello che abitualmente intendiamo per lavoro: sconfinamento nella sfera della riproduzione, della cura e dell’affettività; investimento delle aspettative e dei desideri nella dimensione “vocazionale” del lavoro cognitivo; rottura delle barriere tra lavoro e capitale, laddove sulla forza lavoro contemporanea vengono iscritti e sollecitati gli stessi codici comportamentali, le stesse disposizioni etiche e cornici valoriali tipiche dell’imprenditorialità privata.

Il merito principale de “La società della prestazione” è quello di forzarci a riflettere – o a riconsiderare – il neoliberalismo stesso più che come un insieme prescrizioni in tema di politica economica, come un’impresa (innanzitutto) antropologica. Meglio, direbbero gli autori, antropofagica, ovvero caratterizzata da una sorta di doppio movimento di interiorizzazione e incorporazione di ciò che differisce, delle istanze di libertà ed autonomia, e della sua successiva traduzione in una figura umana conforme alla logica della concorrenza e dell’accumulazione privata. Quello della prestazione è dunque il dispositivo concreto che rende possibile questa complessa operazione.

 

Resta da capire, tuttavia, come la descrizione di questa nuova forma di società – con l’accento posto sul diffondersi pervasivo del principio di prestazione sulla vita dei soggetti – non contenga il rischio di riconsegnarci una concezione, per così dire, “totalitaria” del capitalismo contemporaneo: una visione cioè dove la razionalità neoliberale si presenta come un’istanza globalizzante e senza vie di scampo. Buona parte del pensiero critico contemporaneo, negli ultimi anni, sembra infatti attribuire al capitale una sorta di potere illimitato e assoluto sulla vita. Federico Chicchi e Anna Simone sembrano però distanziarsi da questa deriva, in particolare (ma non solo) nella parte finale del libro, nella quale i due sociologi propongono – a partire dalle tre parole chiave della misura, del desiderio e dell’arte – l’individuazione di spiragli per l’azione e per la resistenza.

A ogni modo, il problema rimane aperto, almeno su due fronti. In primo luogo, una genealogia del principio di prestazione potrebbe estendersi oltre la pur corretta e precisa ricostruzione presentata nel libro, fino a ricomprendere le forme sotterranee e molecolari di sottrazione, opportunismo e infedeltà che la nuova forza lavoro ha mobilitato nei confronti del modello antropologico neoliberale. Benché al di sotto della soglia di visibilità, questo insieme di pratiche anonime e disseminate ha non di meno costituito, e continua a costituire, un elemento di crisi “interna” nel governo delle società capitalistiche post-salariali. L’affermazione del principio di prestazione interviene proprio su questa crisi, esso può cioè installarsi solo a condizione di aver precluso altre possibili vie di fuga e di aver bloccato l’affermarsi e il consolidarsi di altre antropologie positive: in questo senso, la moltiplicazione di situazioni di necessità, non è meno rilevante della colonizzazione del desiderio. In un punto del libro, Chicchi e Simone affermano a proposito che «persino il desiderio, più che essere considerato come messo al lavoro e “illimitato”, appare semmai secondario rispetto ai bisogni, opacizzato, talvolta rimosso per far fronte a ciò che oggi “offre il mercato” […]; una mentalità della sopravvivenza che diventa sempre più norma» (pp. 35-36).

In secondo luogo, conviene chiedersi fino a che punto la situazione che attualmente stiamo attraversando corrisponda o meno all’apogeo della società della prestazione, o ne registri piuttosto un suo punto – se non di esaurimento – almeno di limite. Il riallineamento neo-autoritario dei sistemi politici a livello globale, unito al ritorno in forze di dispositivi normativi coercitivi, fortemente invasivi sulle condotte dei poveri, delle donne, dei giovani e dei migranti, possono esser letti più che come l’espressione di un potere sulla vita ormai senza più misure e limiti, privo di ostacoli e resistenze, come invece la registrazione di un inceppamento interno allo stesso dispositivo prestazionale. Li dove non arriva il desiderio, interviene la forza. Inoltre, laddove l’Io (centrico) smette di essere un supporto e un terminale affidabile per la riproduzione del modello dominante, non possiamo escludere che vengano mobilitate a suo sostegno le (micro) comunità e le piccole patrie, in un circolo perverso di chiusure societarie più che individualistiche.

È possibile che ciò che verrà “dopo” la società della prestazione, non sia affatto auspicabile. Quello che si può dire, per ora, è che dobbiamo provare a riconoscere i segni e le tensioni che internamente la animano già. È il prezzo che dobbiamo pagare per poter riaprire, di nuovo, il “gioco” della soggettivazione.

 

Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma, pp. 216, 12 euro

Il libro, assieme a Il rovescio della libertà di Massimo De Carolis, sarà presentato a Esc (via dei Volsci, 159, Roma), venerdì 19 gennaio alle ore 18.00.