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MONDO

Oltre il muro dell’indifferenza. Una delegazione italiana al confine con Gaza

Una carovana solidale ha raggiunto il valico di Rafah, mentre la Striscia sprofonda tra bombe, fame e isolamento. In queste righe, riportiamo il racconto di chi c’era: voci e storie dal confine dell’assedio

A Gaza si muore di fame, di sete, di bombe e di silenzio.

Nei giorni dal 17 al 19 maggio, mentre la comunità internazionale balbetta e le cancellerie occidentali si dividono tra timidi ammonimenti e complicità diplomatica, una delegazione italiana ha deciso di rompere l’assordante immobilismo. Sessanta tra parlamentari, eurodeputati, reporter, attiviste e attivisti hanno raggiunto il valico di Rafah per denunciare l’assedio israeliano e l’uso sistematico della fame come arma di guerra.

La Striscia di Gaza è sprofondata in un baratro di disumanità. Dal 2 marzo 2025, nessun convoglio umanitario ha più varcato i confini: acqua, cibo e medicinali restano bloccati alle frontiere sotto il controllo israeliano. Le Nazioni Unite lanciano l’allarme: oltre 14mila bambini rischiano la morte per fame e disidratazione nelle prossime 48 ore. L’UNRWA denuncia l’impossibilità di distribuire gli aiuti rimasti a causa delle continue restrizioni imposte da Tel Aviv.

Nel silenzio quasi corale della comunità internazionale, le cifre diventano epitaffio: più di 53mila persone palestinesi sono state uccise dall’inizio dell’operazione militare israeliana nell’ottobre 2023. Intere famiglie cancellate, infrastrutture sanitarie ridotte in macerie, scuole divenute bersagli.

A confermare la brutalità sistematica di questa offensiva, il 19 maggio, giorno in cui la delegazione italiana si trovava ancora al valico di Rafah, Israele ha ordinato l’evacuazione immediata di Khan Younis e lanciato un attacco aereo senza precedenti sulla città. In un’ora sono stati colpiti ospedali, abitazioni e infrastrutture civili: almeno 135 i morti, centinaia i feriti. Migliaia di persone, molte già sfollate, sono state costrette a fuggire ancora una volta, senza destinazione né protezione. La guerra contro la popolazione civile prosegue senza tregua; nel frattempo, gli aiuti umanitari restano bloccati ai confini.

In un’intervista, Giulia Torrini – presidente dell’organizzazione Un Ponte Per e membro della delegazione italiana presente a Rafah – racconta i momenti vissuti in prossimità del valico: «Durante la nostra permanenza al valico di Rafah, le esplosioni si susseguivano a intervalli regolari, ogni otto o dieci minuti. Il boato era nitido, penetrante, impossibile da ignorare».

Mentre il governo Netanyahu dichiara l’obiettivo di un “controllo totale” su Gaza in nome della lotta a Hamas, sul terreno prende forma un’altra verità: quella di una strategia che molte voci, definiscono senza esitazione una pulizia etnica mascherata da guerra contro il terrorismo. La retorica della sicurezza viene così piegata a giustificare una guerra di annientamento, che colpisce soprattutto civili disarmati.

Il Cairo: le voci dei sopravvissuti

La recente iniziativa della delegazione italiana, promossa da AOI, ARCI e Assopace Palestina, ha assunto un significato che va ben oltre la solidarietà simbolica. Si è trattato di un’iniziativa esplicitamente politica, concepita come atto di rottura contro la complicità silenziosa delle istituzioni europee e la diplomazia titubante dell’Occidente. La presenza al valico di Rafah non mirava soltanto a sollecitare l’ingresso degli aiuti umanitari, ma a denunciare apertamente la legittimazione internazionale di un regime che, con l’assedio di Gaza, sta conducendo una guerra sistematica contro la popolazione civile.

Torrini ricorda gli incontri con la comunità palestinese in esilio avvenuti nei giorni precedenti l’arrivo al valico: «A Il Cairo abbiamo incontrato quelli che potremmo definire i “sopravvissuti”: giornalisti, operatori umanitari, attiviste rifugiate in Egitto, per lo più donne. Non si sono limitati a condividere le loro storie: ci hanno posto davanti alla nostra responsabilità, ci hanno messi a nudo, senza sconti.

Le testimonianze, in particolare durante i confronti con la componente politica della delegazione, sono state dirette e incisive. Alcune attiviste hanno espresso con amarezza la convinzione che non si stia facendo abbastanza, sottolineando come da mesi le immagini delle violenze vengano osservate e condivise senza che questo porti a un cambiamento concreto. Una giovane ha inoltre sollevato la questione dell’uso di quelle immagini, ritenendo che la loro diffusione possa togliere dignità alle vittime, trasformandole in spettacolo per un mondo ormai insensibile. Secondo lei, se neanche la visione di quei corpi riesce a scuotere le coscienze, forse sarebbe meglio non mostrarli affatto».

Una provocazione, certo, ma anche un’affermazione profondamente vera. Una denuncia del voyeurismo occidentale, della nostra progressiva anestesia morale.

di Daniele Napolitano
di Daniele Napolitano

Durante questi incontri sono intervenuti giornaliste e giornalisti come Abdel Nasser, operatrici e operatori umanitari, attivisti dell’Union of Agricultural Work Committees (UAWC), che hanno parlato della distruzione del 90% delle terre agricole nella Striscia di Gaza: «Un attacco diretto all’autosufficienza alimentare, parte di una strategia che usa la fame come arma di guerra», riporta Torrini. «Un operatore dell’associazione Vento di Terra ha raccontato di essere stato evacuato nove volte prima di riuscire a trovare rifugio in Egitto, stremato da un’esistenza sempre sotto minaccia. Tuttavia, ha ricordato che anche lì la vita per un rifugiato palestinese resta estremamente difficile. Non si è liberi di lavorare, studiare, muoversi. È la condizione sistemica delle diaspore palestinesi, dal Libano alla Siria».

Torrini ha raccontato anche un altro momento significativo della giornata: un incontro di approfondimento con un esperto di relazioni internazionali.

Durante la discussione sono emersi diversi elementi chiave: il calo di consensi di Hamas tra la popolazione palestinese, il crescente distacco tra la leadership e la società civile, ma anche il mantenimento di una certa influenza del movimento all’estero. Si è parlato del ruolo ambiguo dei Paesi del Golfo, della progressiva marginalizzazione della causa palestinese nell’agenda araba e dell’assenza totale di volontà politica, da parte della leadership israeliana, di intraprendere un percorso diplomatico. Secondo l’analisi condivisa, la strategia di Tel Aviv non si limiterebbe a un contenimento del conflitto: punterebbe piuttosto alla cancellazione definitiva della Striscia di Gaza. Non una gestione della crisi, ma un progetto sistematico di annientamento.

Rafah: un gesto politico oltre il confine

«I soldati egiziani presidiavano il valico immobili, motori spenti, armi in braccio: una presenza muta e assente. E noi lì, nel silenzio spezzato solo dalle esplosioni, puntuali ogni otto minuti. Un silenzio surreale, tagliato appena dal cinguettio degli uccelli – si può sentire in sottofondo anche in tutti i nostri audio telefonici. E in mezzo a tutto questo, gridare “Free Palestine”, “Stop the Genocide”, “Stop Illegal Occupation”, in inglese, per rompere quel silenzio – nonostante sapessimo benissimo che nessuno ci stesse ascoltando davvero – è stato un atto di rottura, un grido politico».

Il gesto di lasciare peluche e giocattoli sul confine egiziano, impossibilitati a varcare il confine come le bambine e i bambini a cui erano destinati, è divenuto l’emblema di una protesta potente. Oggetti fragili, infantili, inermi: simboli di un’infanzia strappata. Un grido rivolto all’Europa affinché smetta di coprire con il linguaggio della diplomazia ciò che, nei fatti, è una violazione continuata del diritto internazionale.

«Trovarsi lì, con quasi 20 parlamentari ed europarlamentari in prima linea, mentre esponevano cartelli con i volti dei leader europei – gli stessi che continuano a negare la realtà di un genocidio in corso o a rimanere inerti di fronte al blocco degli aiuti umanitari – è stato fortissimo. E poi quei pupazzi, quei piccoli indumenti sparsi a terra, accompagnati dal segno di gesso che si disegna normalmente attorno ai cadaveri nelle scene del crimine… era una denuncia visiva. In quel piazzale desolato, vuoto, dove un tempo si accalcavano camion carichi di aiuti, oggi non passa più nulla».

Con questa azione, la delegazione ha restituito dignità alla parola “presenza”, trasformandola in testimonianza attiva e denuncia diretta. Non più appelli generici, ma una domanda precisa: da che parte sta la politica europea, quando i confini diventano barriere alla vita?

di Daniele Napolitano

Gaza: reporter sotto le bombe

In un contesto dove la verità è spesso ridotta al silenzio delle macerie, anche la parola dei reporter diventa bersaglio. Al valico di Rafah, 14 giornaliste e giornaliste hanno lanciato un appello dal tono netto e ineludibile: “Basta sparare sui giornalisti”. Un grido nato dall’urgenza di denunciare ciò che si consuma nell’ombra. Dal 2023, oltre 220 reporter palestinesi sono stati uccisi sotto i bombardamenti israeliani; decine sono detenute e detenuti nelle carceri, le loro famiglie perseguitate. In assenza della stampa internazionale, tenuta fuori da Gaza da oltre 19 mesi, sono loro – esposti e isolati – gli unici occhi rimasti a raccontare. Alcuni, pur di distinguersi, indossano giubbotti improvvisati con la scritta “PRESS”, che non proteggono da nulla se non dall’invisibilità. «La stampa non è testimone del conflitto: è bersaglio», scrivono. Ed è forse questo il dettaglio più drammatico di un conflitto che teme chi documenta. L’appello delle giornaliste e dei giornalisti, dal valico di Rafah si rivolge all’Europa e al mondo: si chiede che venga garantita la protezione dei cronisti e delle croniste palestinesi e l’accesso alla Striscia per la stampa internazionale.

«Una giornalista palestinese», continua Torrini, «ci ha spiegato che ormai i cronisti locali si muovono all’interno delle proprie abitazioni senza più indossare i giubbotti antiproiettile contrassegnati dalla scritta “PRESS”. Quegli stessi giubbotti, che dovrebbero garantire una parvenza di protezione, oggi non vengono più forniti. Non arriva più nulla: né caschi, né protezioni, né alcun tipo di materiale di sicurezza. Per questo, molti giornalisti si arrangiano con mezzi di fortuna: imbottiscono i loro giubbotti con spugne, ricreando una sorta di uniforme simbolica. Non è più un mezzo per proteggersi, ma un gesto di dignità, quasi una forma di resistenza, un modo per dire “noi ci siamo”, pur sapendo perfettamente che quelle imbottiture artigianali non potranno mai salvarli né da un proiettile, né tantomeno da una bomba».

L’Europa si muove, ma troppo lentamente

Sotto la pressione crescente dell’opinione pubblica e di alcuni Stati membri, l’Unione Europea ha annunciato la revisione dell’accordo di associazione con Israele, invocando la clausola sui diritti umani. Anche il Regno Unito ha sospeso le trattative commerciali con Tel Aviv, mentre Francia e Canada minacciano sanzioni. Tuttavia, queste misure appaiono tardive e insufficienti di fronte a quella che molti definiscono una catastrofe umanitaria senza precedenti. Nel frattempo, l’esercito israeliano insiste su obiettivi civili: emblematico l’attacco contro una delegazione diplomatica in visita a Jenin, in Cisgiordania, che ha scatenato reazioni di condanna da parte di diversi governi europei.

«Essere arrivati al valico di Rafah ha avuto un’eco forte nel mondo arabo» commenta Torrini. «Siamo finiti su Al Jazeera, su I Am Palestine, su vari media mediorientali. È servito a raccontare, a far circolare un’altra narrazione. Forse non è un caso se, subito dopo il nostro ritorno, alcuni leader europei hanno cominciato ad alzare la voce. Tre europarlamentari erano con noi a Rafah. Pochi giorni dopo, la presidente della Commissione europea ha chiesto la revisione dell’accordo di associazione UE-Israele. Italia e Germania si sono opposte, com’era prevedibile, ma qualcosa si è mosso. Il resto d’Europa inizia a reagire.

Come attivisti italiani, sappiamo di trovarci in un momento storico delicato. Il nostro governo, come quelli precedenti, continua a vantarsi dell’“amicizia con Israele”. Ma questa retorica comincia a mostrare crepe, soprattutto rispetto ad altri Paesi europei che – seppur lentamente e non per improvvisa coscienza morale – appaiono in difficoltà davanti alla crescente pressione dell’opinione pubblica».

di Daniele Napolitano

Oggi la società civile internazionale dispone di un margine d’azione, seppur limitato, per denunciare l’immobilismo dei propri governi. In questo quadro, il confronto diretto tra la carovana solidale e le realtà locali ha portato alla redazione di un documento ufficiale, indirizzato alla Presidente del Consiglio, con la richiesta di una presa di posizione chiara e netta contro la guerra.

La portata simbolica e politica di questa iniziativa dipenderà dalla capacità delle opposizioni di restare coese e di riconoscere la centralità della questione palestinese. Le testimonianze ascoltate sul campo, i numeri dei civili uccisi sono prove che non possono più essere ignorate.

«La questione palestinese oggi è molto più di un conflitto locale: è il riflesso di un nuovo paradigma globale. Da un lato, un potere coloniale che utilizza l’apartheid come strumento di conquista e controllo territoriale; dall’altro, un sistema umanitario internazionale che, nato nel secondo dopoguerra per proteggere i popoli vittime dei conflitti, oggi sta degenerando in un meccanismo commerciale, persino redditizio. L’aiuto umanitario è diventato una leva politica e i suoi operatori sono ormai bersagli dichiarati. Alcuni temono che si stia andando verso un modello in cui l’assistenza venga affidata a fondazioni private od organizzazioni filo-occidentali, sostenute da Israele e Stati Uniti, svuotando di significato e legittimità il concetto stesso di aiuto internazionale. In questo contesto, la decisione degli Stati Uniti di tagliare i fondi USAID e di smantellare l’agenzia per la cooperazione è un segnale chiaro».

La Palestina, in questo quadro, diventa un laboratorio. Un esperimento. Ciò che accade lì prefigura modelli destinati a replicarsi ovunque: in ogni contesto di occupazione, assedio o colonizzazione.

«Per questo la politica deve agire» conclude Torrini. «Se il degrado si consolida in Palestina, rischia di estendersi ovunque. Ed è qui che serve lucidità politica, oltre che morale. Durante la permanenza della delegazione, con giuristi e accademici, si è discusso a lungo non solo della legittimità del termine genocidio, ma anche del solido quadro giuridico internazionale già esistente: dalle sentenze della Corte Internazionale di Giustizia e della Corte Penale Internazionale, agli strumenti legali a disposizione dei governi europei per imporre sanzioni. Gli strumenti, dunque, ci sono. A mancare è la volontà politica. Lo dimostra il fatto che la mozione presentata dalle opposizioni per sospendere l’invio di armi a Israele sia stata bocciata. È passata invece la mozione della maggioranza, che prevede ulteriori acquisti militari proprio da Israele. Eppure, un governo responsabile non dovrebbe né vendere né acquistare armi da uno Stato che, nei fatti, sta massacrando una popolazione civile in quanto tale. In teoria è tutto chiaro, ma nella pratica, le azioni continuano a non arrivare».

Tutte le immagini dell’articolo sono di Daniele Napolitano

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