EUROPA

Non è un “giorno migliore” per la Russia

Con una dose massiccia di retorica nazionalista e investimenti militari, Putin si avvia ad un nuovo mandato sessennale nelle elezioni presidenziali di oggi. Ma dietro lo “stato d’emergenza permanente” vi è il neo-liberismo in salsa russa, tra misure d’austerità, taglio alle spese sociali e congelamento dei salari

Il 3 marzo 2018 c’è stata la più grande manifestazione pre-elettorale per Valdimir Putin allo stadio Luzhniki di Mosca, con decine di migliaia di lavoratori del settore pubblico portati da ogni regione del paese ad ascoltare i discorsi del Presidente e degli altri attori e cantanti venuti in suo supporto. Poco prima che lo stesso Putin apparisse alla folla, Grigory Leps, un cantante famosissimo in Russia e con diversi trascorsi criminali, cantò il pezzo “Il giorno migliore” (Самый лучший день). Anche sei anni prima, alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2012, Leps cantò “Il giorno migliore” in un’altra manifestazione di supporto a Putin. La scena era la stessa, a conferma della vittoria dell’immutabile regime politico sul passare degli anni.

In effetti, presentare il putinismo come un “eterno presente”, fondato su una storia nazionale eroica e millenaria, rimane una delle figure ideologiche fondamentali delle elite al potere.

“Il giorno migliore” del 2012 era però molto diverso da quello del 2018. Il regime allora godeva di un supporto della maggioranza della popolazione non solo grazie alla retorica patriottica: con gli alti prezzi del petrolio e una continua crescita economica Putin era effettivamente in grado di promettere un aumento dei salari per i lavoratori del settore pubblico e una crescita dei redditi di tutta la popolazione. Nel 2018 la Russia è invece un paese sempre più immerso nella povertà e senza prospettive concrete per un nuovo rilancio dell’economia.

L’annessione della Crimea nel 2014, con le conseguenti sanzioni, e la caduta dei prezzi energetici, hanno frenato lo sviluppo di un modello di capitalismo russo basato unicamente sullo sfruttamento predatorio della produttività industriale ereditata dall’era sovietica. Negli ultimi anni, il governo di Dmitry Medvedev ha messo costantemente in atto una versione russa delle “misure d’austerità” la cui severità avrebbe fatto invidia alle elite dell’Unione Europea. La sanità e l’educazione hanno subito dei “programmi di ottimizzazione” a cui si sono accompagnate chiusure di scuole e ospedali, mentre l’inflazione è stata combattuta con un “congelamento” effettivo dei salari. I russi hanno pagato e continuano a pagare per una crisi creata dall’elite. La retorica della “fortezza assediata” adottata dal governo dall’inizio della crisi ucraina ha fatto anche sì che qualunque protesta sociale venisse dichiarata parte di una sotterranea “guerra ibrida” da parte dell’Occidente contro la Russia.

Alla vigilia del suo nuovo mandato sessennale, Vladimir Putin non è in grado di proporre nient’altro che una continua stagnazione economica e una discesa sempre più ripida verso la povertà. Il vero programma di governo, quello che viene discusso dagli esperti, prevede un’aderenza assoluta alle “esigenze di budget”, un aumento dell’età pensionabile, e una riduzione della spesa sociale.

Questa inquietante mancanza di ogni prospettiva futura si rifletteva nel discorso programmatico fatto da Putin l’1 marzo 2018, dove dopo qualche frettolosa promessa di “miglioramento della qualità della vita” passava a quello ch era il vero tema principale: la minaccia militare. Dietro alla piccola figura presidenziale, si accendevano degli schermi enormi con delle grafiche che sembravano venire da una generazione precedente. Putin descriveva con gusto i nuovi modelli di armamenti nucleari in grado di sfondare con facilità il sistema missilistico americano e ripeteva la solita tesi degli ultimi anni: se l’Occidente non è pronto a dei negoziati, ci faremo ascoltare con la forza. La crescita della potenza militare russa è stata il risultato del potere di Putin. In ogni caso, il paese continua a trovarsi circondato da nemici, e quindi continuare in questa direzione è necessario per la sua sopravvivenza.

In queste elezioni del 18 marzo, non si vota per l’elezione di un presidente pacifico ma di un Comandante Supremo; un leader che, in guerra, come Churchill o Stalin, non promette nient’altro che “sangue, sudore e lacrime”. La figura di Putin si mette, per così dire, al di sopra delle politiche economiche e sociali, la cui competenza viene trasferita ai tecnocrati al governo: lui è il leader della nazione, il responsabile principale di quello che riguarda la guerra e la pace.

È per questo che la retorica militare è diventata l’ideologia principale di orientamento della politica interna, che giustifica sia la direzione neo-liberista delle politiche sociali sia il conseguente inasprimento dei diritti civili e l’ulteriore autoritarismo del regime. L’insieme delle strutture di sicurezza, i cui fondi sono costantemente cresciuti negli ultimi anni, hanno avuto il mandato di agire sotto uno stato d’emergenza permanente nella battaglia per l’unità della nazione di fronte alla minaccia esterna. Non è un caso che alla vigilia delle elezioni, i servizi segreti federali (il cosiddetto FSB, i Servizi federali per la sicurezza della Federazione russa) hanno iniziato una nuova inchiesta su larga scala contro gli anarchici russi. Nel tentativo di mostrare come ci fosse un assurdo progetto di cospirazione armata contro il regime, gli investigatori dell’FSB hanno persino fatto ricorso alla tortura per ottenere le prove necessarie.

Il ricorso a minacce esterne e interne come giustificazione principale per la legittimazione del governo dimostra però la debolezza e il decadimento dell’attuale regime. Dietro alla prevedibilità della vittoria in queste elezioni “decorative” del prossimo 18 marzo si annida infatti l’imprevedibilità per gli incerti sviluppi futuri del paese.

(traduzione di Pietro Bianchi)

 

 

* Ilya Budraitskis è uno storico, attivista e curatore di Mosca. Fa parte della redazione di diverse riviste cartacee e online, tra cui Moscow Art Magazine, Openleft e LeftEast. Con Ekaterina Degot e Marta Dziewanska, Budraitskis ha curato il libro Post-Post-Soviet?: Art, Politics and Society in Russia at the Turn of the Decade (University of Chicago Press, 2013) mentre insieme a Arseny Zhilyaev ha curato Pedagogical Poem. The Archive of the Future Museum of History (Marsilio, 2014).

 

** Nell’immagine un frammento della monumentale installazione di ricerca del collettivo pietroburghese Chto Delat, dal titolo “the GROWTH, the ORGY, the LOWER DEPTH” (murali di Nikolay Oleynikov, 2011). In questa serie di pitture monumentali prodotte prima delle precedenti elezioni presidenziali del 2012, gli artisti esaminano e mettono in scena la Russia sotto Putin. La scritta dice: “Ci rendiamo conto che il potere dello Stato nel nostro paese deve essere imperturbato, deve essere un esempio e una garanzia di stabilità.” Per maggiori informazioni sul lavoro dell’artista si veda qui.

 

Una versione di questo articolo è uscita su ArtsEverywhere