ROMA

Non Una Studente Di Meno!

A Roma nelle piazze transfemministe del 25 e 28 novembre c’è stata una grande partecipazione di studentə di scuola e dell’università. Le voci di alcunə di loro

Nello stesso istante in cui dal camion di Non Una Di Meno è annunciato l’inizio della zona fuxia, risuonano dei cori in lontananza che poco a poco si fanno più forti. Con porta del Popolo sullo sfondo e i fumogeni rossi che colorano il cielo grigio, una moltitudine compatta e rumorosa si fa strada dietro allo striscione fuxia con la scritta in nero e bianco: «contro la violenza di genere studenti e studentesse in lotta». Sono arrivatə lə giovanissimə.

«Siamo qui per manifestare contro una violenza che è evidente, come nei femminicidi, ma può anche essere invisibile, perché è sistemica, è nelle istituzioni, è legge, è la società patriarcale – racconta una studente del Mamiani, di 17 anni, che preferisce rimanere anonima – È la violenza che tutte e tutti sentiamo sulla nostra pelle ogni giorno nel non poter uscire la sera senza avere paura, senza essere conformi a un modello che tuttavia non ci rappresenta».

In mezzo ai fumogeni, gli interventi al megafono e tutto il frastuono della piazza, racconta di come sia decisiva nelle scuole la presenza del movimento transfemminista. Le bastano poche parole per spiegarlo: «Anche la scuola è un luogo di violenza patriarcale e sessista. E invece deve essere uno spazio dove ogni ragazza possa sentirsi al sicuro, in cui poter parlare di queste tematiche e avere un’educazione sessuale. Dobbiamo crearci una coscienza tutte e tutti insieme, proprio all’interno della scuola che è lo spazio in cui noi viviamo».

 

 

La piazza di sabato 28 novembre fa capire in che misura l’ondata nera e fuxia stia travolgendo anche i luoghi di formazione e a raccontarlo è proprio chi, quei luoghi, li vive quotidianamente. Una studente, con il pañuelo fuxia al collo e la veemenza degna di una guerriera, legge dal camion la lettera che le studenti universitarie e attiviste di Non Una Di Meno hanno scritto alla nuova rettrice della Sapienza. «Nonostante la Sua elezione le posizioni di vertice, di maggiore stabilità professionale e prestigio all’interno delle università sono ancora un monopolio maschile e sappiamo come ciò non sia un fattore casuale – recita la lettera e continua – Vogliamo che dentro l’università sia praticata un’educazione alle differenze su tutti i livelli, finalizzata alla costruzione e alla trasmissione di un sapere critico e non neutro».

Tanta è l’energia nel leggere la lettera, che più di una semplice lettura assomiglia a un grido assordante, come a sottolineare l’urgenza delle rivendicazioni di cui è voce, tra cui la necessità di sportelli antiviolenza, consultori, sportelli psicologici e asili nido accessibili a chiunque, all’interno dell’università. Ma anche il bisogno di contrastare la violenza di genere con un impegno strutturale e quotidiano, e non relegato ad occasioni sporadiche. Dopo un lungo elenco di rivendicazioni, la lettera si chiude: «Siamo la luna che muove le maree/ cambieremo il mondo con le nostre idee!».

Sara, del liceo Socrate, era in piazza anche il 25 novembre, al flash-mob organizzato da Non Una Di Meno a Montecitorio. Il collettivo della sua scuola ha creato una piattaforma, su tellonym, in cui le compagne possono raccontare in forma anonima i loro vissuti di violenza. L’iniziativa è stata lanciata domenica scorsa, in vista del 25 novembre, ed è stata condivisa anche dai profili social di altri collettivi studenteschi. In due giorni hanno raccolto più di cento testimonianze, di ragazze dai 12 ai 18 anni. Storie di tutti tipi, tra cui alcune particolarmente pesanti. «Non ci aspettavamo una risposta così grande – raccontava Sara a Piazza di Montecitorio – Perciò abbiamo deciso di attacchinare queste storie per tutta Roma, in modo che chiunque possa leggere quello che viviamo quotidianamente. È molto importante per noi scendere in piazza, riappropriarci degli spazi della città e portare le nostre voci».

 

 

Anche alla piazza di sabato si è parlato di questa iniziativa, stavolta dal microfono del camion e tramite la voce di Alessandra, anche lei studente del Socrate, visibilmente emozionata, ma comunque ben determinata a parlare: «Come giovani donne abbiamo bisogno di uno spazio sicuro da ogni tipo di giudizio ed ecco ancora una volta un esempio di come la violenza sia sistematica e di quanto sia necessario dare voce a tutte queste esperienze». Alessandra continua il suo discorso e poco a poco le sue parole si fanno sempre più sottili, finché a un certo punto la sua voce si rompe, scatenando subito un fragoroso applauso in tutta la piazza.

 

C’è anche tanta fragilità nelle voci e negli occhi dellə giovanissimə che in questi due appuntamenti di Non Una Di Meo sono scesə in piazza. È nella voce di Alessandra, ma è anche nella premura di una ragazza che, a registratore spento, si scusa perché pensa di aver detto un sacco di cose banali per l’articolo. Non è forse questo che insegna una società patriarcale alle giovani ragazze?

 

Che in effetti la loro opinione non conta e ci sarà sempre qualcuno che dirà qualcosa di più interessante (un maschio, ovviamente). Ma la differenza sta nel parlare lo stesso, pur con tutte le fragilità che questo, a volte, può far uscire. Nel mostrare le proprie insicurezze e le proprie ferite portandole in piazza, come un qualcosa che è anche collettivo. «Sorella, non sei sola», in fondo vuol dire anche questo.

Clara ha 23 anni e un cartello appeso al collo con scritto «il corpo è mio, decido io». Viene sempre alle manifestazioni di Non Una di Meno, ma non solo: «Che sia per le donne, per l’ambiente, contro il razzismo o il fascismo – racconta – La violenza ha molti volti e può essere fisica, mentale, evidente o meno, ma va comunque combattuta». È un concetto che viene ribadito anche da Chiara, 16 anni, del liceo Cavour: «Anche se magari sulla carta ci sono gli stessi diritti, non è così nella realtà. Le donne non si sentono sicure a uscire di casa la sera, ma anche semplicemente a stare in casa con il proprio marito, perché sappiamo che ogni tre giorni in Italia avviene un femminicidio. È una cosa che va ricordata e dobbiamo reagire». Con la stessa fermezza, nonostante l’emozione, Alessandra conclude il suo intervento dal camion: «Se c’è una cosa che ci accomuna tutte è che siamo stanche di avere paura, di essere giudicate, di non essere credute e di subire le violenze di questo sistema oppressivo e patriarcale. E non ci fermeremo finché non ci sarà più niente da raccontare».

 

 

Tutte le foto di Matteo Oi