ITALIA

“Non una goccia di sangue in più”. La lotta degli indios, dall’Amazzonia all’Europa

Il viaggio della delegazione indigena in Italia, passata per Roma, Torino e Bologna. L’obiettivo della campagna “Sangue indigeno” è mostrare all’Europa la minaccia rappresentata dalla deforestazione delle terre Oltreoceano

Uno dei risultati del tanto agognato progresso è l’eclissi “climatica”: il sole completamente oscurato e un brusco crollo delle temperature in poche ore. Questo almeno è quello che è successo a metà agosto nei cieli del Brasile. Per capire meglio andiamo sul sito dell’Insituto Nacional de Meteorologia di Sao Paolo e leggiamo questa nota diramata tra il 19 e 20 agosto: «Secondo le misurazioni INMET, nella parte settentrionale della capitale, domenica pomeriggio la temperatura alle 15 era di 28, 4 gradi, mentre contemporaneamente il giorno seguente, era di 15,3 gradi centigradi. Dati simili sono stati osservati nella parte sud della città di Brasilia, domenica alla stessa ora, un massimo di 29,3 gradi centigradi e il lunedì di 14,4 gradi centigradi». Una differenza di temperatura di quasi 15 gradi. Contemporaneamente – continua la nota – già dal primo pomeriggio il cielo è diventato buio come fosse notte fonda. Il materiale particolato causato dagli incendi nei territori al confine tra Bolivia, Paraguay e Brasile «potrebbe aver influenzato la formazione di nuvole temporalesche e limitazione della visibilità».

In poche parole, anche se nel periodo di luglio e agosto dall’altra parte dell’oceano atlantico è pieno inverno, la centrale metereologica registrava comunque con preoccupazione uno strano mutamento atmosferico, causato e aggravato da una enorme nube nera che opprimeva i cieli di quella fetta consistente di America Latina, provocata da roghi su vasta scala appiccati a ridosso della regione Mato Grosso do Sul.

Sembrava un ricordo lontano il massacro degli indiani d’America trucidati in Colorado nel 1864 e annegati «nel letto del Sand Creek», come cantava anche Faber. Ciò di cui non siamo ancora ben consapevoli, infatti, è che da diversi mesi la grande foresta pluviale amazzonica – oltre 6 milioni e mezzo di chilometri quadrati con il 20 per cento dell’acqua dolce presente sulla terra – sta lanciando un costante e sonoro SOS al nostro sordo pianeta. Solo nell’anno in corso infatti, come denuncia l’Istituto Nazionale di Ricerca Spaziale del Brasile, sono stati circa 75 mila gli incendi nel “polmone” del mondo, affetto ormai da una gravissima crisi respiratoria in rapido e inesorabile peggioramento. A farne le spese, per adesso, sono soprattutto le tribù indigene, abitanti in zone nevralgiche per l’ecosistema e vittime già da tempo di espropri di terreni da parte di multinazionali energetiche e di ripetute violazioni dei diritti umani. Aumentate da quando è in carica il nuovo presidente, Jair Bolsonaro, alleato con tutti i capi di Stato, di partito e di governo più a destra nel mondo.

Per questo i nativi americani, gli indios, hanno deciso di fare arrivare forte e chiaro il grido della foresta Amazzonica «Non una goccia di sangue in più» in Europa. Dopo essere stati in Francia sono passati anche in Italia dove, dopo una tappa iniziale a Città del Vaticano ospiti del Sinodo sull’Amazzonia indetto da Papa Francesco, hanno incontrato associazioni e movimenti tra la Capitale, Torino e Bologna. Obiettivo della campagna “Sangue indigeno” (promossa dall’”Apib, Articolazione delle popolazioni indigene del Brasile”, in Italia insieme a una rete di associazioni tra cui il “Gruppo Abele”, “Parents for future” e i tanti gruppi locali “Fridays for future” sparsi per l’Italia), è quello di far capire, una volta per tutte, a cittadini e istituzioni, quanto sia minacciosa e globale la deforestazione delle terre Oltreoceano.

«È un peccato che la cavalleria brasiliana non sia stata efficiente quanto quella americana nello sterminare i suoi Indiani». Minacce e offese come questa rilasciata al Correio Braziliense il 12 aprile 1998, sono state ripetute più volte da Bolsonaro, allora generale dell’esercito, nei confronti degli indigeni, “colpevoli” di abitare le terre tanto care all’agro business. Ad aprile 2015, Campo Grande News riportava questa frase: «Gli Indiani non parlano la nostra lingua, non hanno denaro né cultura. Sono popoli nativi. Come hanno fatto a ottenere il 13% del territorio nazionale?».

Con buona pace di Bolsonaro, però, non solo hanno ottenuto buona parte delle verdi e preziose terre amazzoniche, secondo un recente studio dell’Ipcc, Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (istituito nel 1988 dalla World Meteorological Organization e dall’United Nations Environment Program), le tribù indigene rappresentano un attore di fondamentale importanza nel contrasto al cambiamento climatico e soggetto propulsore di un nuovo tipo di sviluppo, ovviamente salutare.

Il viaggio della delegazione indigena in Italia ha toccato diversi spazi sociali autogestiti e ha fatto tappa anche nelle università. Ironia della sorte, la mattina di lunedì 21 ottobre, mentre parlavano degli incendi in Amazzonia nella sala lauree del Campus Luigi Einaudi dell’Unito, a pochi metri da lì andava in fiamme il soffitto della Cavallerizza Reale, edificio del ‘700, nel cuore della Torino universitaria, riconosciuto patrimonio Unesco, un tempo di pertinenza dell’Accademia Reale, poi abbandonato e occupato da tempo dai collettivi studenteschi. Ebbene a raccontarsi ai giovani allievi e ai prof sabaudi c’era Alberto Terena, presidente esecutivo Apib e leader degli abitanti del Buritila, la stessa Regione del Mato Groso do Sul (la seconda per numero di indigeni abitanti in Sudamerica) di cui sopra, che ad agosto spaventava i meteorologi brasiliani.

 

«Il nostro sangue è quello che scorre nelle terre invase dall’industria dell’agro business, che incendia migliaia di ettari terreno e ci fa scappare per impossessarsi delle coltivazioni di soia che arriva in quantità elevate qui in Europa – denuncia Terena –  Voi potreste darci un grande aiuto smettendo di foraggiare questo mercato omicida».

 

Soia e mercato bovino sono tra i principali mercati artefici della graduale ma irrefrenabile – almeno per adesso – estinzione dell’Amazzonia.

Lo conferma Ersivan Guajajara, 29 anni, della regione del Maranhao, «dove negli ultimi giorni decine di famiglie delle tribù Urubu sono state sfollate a causa degli incendi», racconta.

Ersivan è un giornalista, in un Paese dove raccontare la realtà è praticamente proibito. Lui stesso ha subito gravi minacce quando lavorava per un giornale nazionale e sfidava la censura. Per questo lui e altri suoi amici hanno fondato “Mìdìa India”, canale indipendente di informazione, o meglio l’unica testata a dare voce ai “povos indigenas”, i popoli indigeni e raccontare senza filtri questo “amazzonicidio” perpetrato dai lunghi artigli del libero mercato occidentale.

Certo, i principali quotidiani dello Stato gialloverde come Extra raggiungono su Facebook oltre due milioni e mezzo di utenti, O Globo e Folha de Sao Paulo superano i cinque milioni e seicento visitatori. Mìdìa India, però con circa 21 mila seguaci è una sorta di edizione locale nello Stato del Maranhao del canale indipendente Mìdia Ninja che, con due milioni e mezzo di followers, tiene testa ai colossi brasiliani dell’informazione e si fa megafono indigeno.

Su queste pagine online, infatti, si trovano numerose interviste ai leader delle comunità native che Bolsonaro sta tentando di estinguere.

 

«Da quando è in carica il nuovo presidente sono state prese oltre 100 terre e numerosi leader e capitribù sono stati assassinati – accusa Ersivan – noi abbiamo deciso di attraversare l’oceano perché è necessario parlare con l’Europa. Lanciamo l’allarme sulla violazione dei diritti umani da parte delle industrie occidentali e vogliamo creare un forte legame con la società civile europea, perché tutti voi prendiate coscienza di quanto sangue stiamo versando».

 

Insieme a loro c’è una delle più attive rappresentanti del movimento delle donne indios, Célia Xakriabà. In assoluto la prima laureata indigena e la prima a ottenere la borsa per svolgere un dottorato di ricerca, «provengo da una popolazione di 11 mila persone nella mia regione e mio nonno è stato il primo nella comunità a imparare a leggere», precisa. Come i suoi compagni di viaggio, porta anche lei in testa il kostoweh, copricapo indiano dalle lunghe piume colorate.

Nella gremita sala lauree del Campus Luigi Einaudi commenta con amara ironia: «Neanche c’era bisogno di prendere l’aereo per venire qui dato che l’Europa la vediamo e la subiamo ogni giorno nella nostra terra». Alle decine di studenti e ricercatori presenti convocati dal professor Egidio Dansero, Vice Rettore vicario alla Sostenibilità, mostra il video della prima manifestazione organizzata dal Forum Nazionale delle Donne Indigene che a metà agosto ha portato in piazza a Brasilia, per la prima volta, appunto, circa 100 mila manifestanti.

Viene dalla regione del Cerrado, Célia. La seconda regione al mondo per integrità della biosfera, certificato anche dal WWF e conta oltre 90 comunità indigene. Lei voleva diventare insegnante, per aiutare ed educare la sua comunità a difendere i propri diritti. «La nostra terra è un bene prezioso e noi dobbiamo difenderla dall’industria della soia che se ne vuole impossessare».

Come ha certificato il Cimi, Consiglio Indigeno Missionario, a partire dal 2019 le invasioni nei territori indigeni si sono intensificate: da gennaio a settembre di quest’anno sono state registrate 160 invasioni in 153 terre indigene, rispetto ai 111 casi simili registrati in 76 territori indigeni nel 2018. Per questo gli indios, riconosciuti dalle Nazioni Unite e da Ipcc (Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico), come principale attore nella salvaguardia del pianeta, urlano alle istituzioni internazionali che siano rispettati gli accordi internazionali sui cambiamenti climatici e sui diritti umani sottoscritti dal Brasile – tra cui l’Accordo di Parigi, la Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei Popoli Indigeni e la Dichiarazione di New York sulle foreste.

Un urlo, simile Perché non venga più versata “ni una gota maìs”. Non una goccia di sangue in più.