ROMA

“Non abbiamo altra scelta che resistere”. Lo sciopero della fame contro l’isolamento del popolo curdo

Abbiamo incontrato Erol Aydemir, militante curdo da 23 giorni in sciopero della fame nel centro Ararat di Roma. Con lui, altri 7 mila curdi stanno animando la protesta in tutto il mondo

Lo sciopero della fame di Erol Aydemir è arrivato al ventiduesimo giorno. Iniziato a Cagliari il 21 marzo, giorno del capodanno curdo, Erol ha deciso di trasferirsi a Roma, per dare maggiore visibilità alla sua azione di protesta.

Ha lo sguardo sereno, nonostante i molti giorni passati in stato di digiuno: «fino al ventesimo giorno stavo bene, solo in questi ultimi due sto cominciando a sentirmi debole. Aumentano i dolori nelle ossa e nella schiena. Ma al tempo stesso, posso dire di sentirmi molto forte».

Assieme a lui, altri 7 mila curdi stanno conducendo da molti mesi lo sciopero della fame dentro le carceri turche e centinaia fuori, per protestare contro la sistematica violazione dei diritti umani nei confronti del popolo curdo e contro lo stato di isolamento riservato a Abdullah Öcalan, leader del partito dei lavoratori del Kurdistan.

Nove di loro sono morti durante la protesta. Leyla Guven, deputata del Partito democratico dei popoli in Turchia (Hdp), è arrivata al 156esimo giorno di digiuno. La protesta è iniziata il 1° marzo e ha l’obiettivo di rompere l’isolamento dei prigionieri politici curdi e di fermare il massacro in corso: «ad Afrin abbiamo perso 8 mila persone, 12 mila sono morte per combattere l’ISIS», ci dice Erol, «il nostro popolo sta soffrendo la fame».

Lo incontriamo insieme a diversi compagni nel centro Ararat, centro socio-culturale e storico luogo della comunità e dei rifugiati curdi a Roma, all’interno del Campo Boario nel quartiere Testaccio di Roma, oggetto qualche anno fa – assieme a molti altri spazi sociali romani – dell’attacco dell’amministrazione capitolina contro i luoghi autogestiti.

All’ingresso un grande murale colorato con le bandiere del Kurdistan, dell’Ypj e dell’Ypg, l’immagine di Lorenzo Orsetti, il combattente italiano morto in Siria contro l’ISIS, e quella di Abdullah Öcalan.

Ararat, è stato occupato nel 1999, proprio lo stesso anno in cui Öcalan veniva catturato dai servizi segreti turchi, dopo che il Governo D’Alema aveva deciso di non concedere l’asilo politico al leader curdo.  «Il Governo italiano è stato responsabile della consegna di Öcalan allo Stato turco. Questa vergogna ce la ricordiamo tutti, l’Italia è in debito con il popolo curdo eppure continua ad avere gravi responsabilità per il nostro massacro».

Come spiega Erol, la sua protesta e quella dei suoi compagni non è rivolta esclusivamente contro il governo della Turchia: «il potere di Erdogan deriva dall’appoggio internazionale che riesce ad avere da molti paesi, compresa l’Italia. Perché l’Italia e gli altri Stati continuano ad aiutarlo?».

 

 

«Ho deciso di intraprendere questa azione dopo essere stato in Rojava e aver visto con i miei occhi l’esperienza del confederalismo democratico, questo nuovo paradigma politico pensato da Öcalan che può mettere in discussione il sistema. È questo il motivo per cui torturano e mettono le persone in isolamento», Erol ci parla del sistema democratico instaurato in Rojava, «noi non vogliamo uno Stato. è questa la grande idea di Öcalan ed è per questo che ha molti nemici».

A sostegno dello sciopero della fame di Erol si è attivata una staffetta di solidarietà con il popolo curdo. «Noi curdi diciamo che è da mille anni che facciamo politica. Sappiamo bene cosa voglia dire. La politica contro di noi non l’ha certo inventata Erdogan», continua, «la sinistra e i movimenti devono capire che la nostra lotta è una lotta per tutti i popoli. Il fascismo è uno, quello che sta facendo Erdogan in Turchia non è molto diverso da quello che Salvini sta facendo qui in Italia. Noi pensiamo che la nostra lotta possa essere un’arma contro il fascismo».

«Noi non vogliamo morire, vogliamo vivere, ma non abbiamo altra scelta che resistere», conclude Erol, «finché non romperemo l’isolamento e non fermeremo il fascismo».

Foto di Gaia Di Gioacchino