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Nimble Fingers

Il documentario di Parsifal Reparato racconta con sensibilità etnografica e denuncia politica la vita di Bay, 22 anni, che dai villaggi Muong è arrivata ad Hanoi per lavorare nelle fabbriche della Canon, indagando così la transizione del Vietnam verso una economia di mercato

Bay, 22 anni, viene dai villaggi Muong ed è arrivata ad Hanoi per lavorare nelle fabbriche della Canon: è una delle migliaia di donne che a ritmi insostenibili lavorano senza sosta nelle fabbriche dei più importanti marchi dell’elettronica a livello globale. Il documentario “Nimble Fingers” di Parsifal Reparato, disponibile online su Open DDB dal 1 giugno, racconta vita, dolori, rabbia e sogni di Bay, con sensibilità etnografica e denuncia politica e sociale, indagando così la transizione del Vietnam verso una economia di mercato.

 

Lungo la strada che porta all’entrata del parco industriale batte il ritmo continuo di passi affrettati, mentre autobus, biciclette e motorini scorrono in una sola direzione, velocemente, verso i cancelli. A fine turno, veloci, lo stesso ritmo, verso l’uscita, per le vie di Hanoi. Andata e ritorno a Thang Long, uno dei siti produttivi tra i più grandi al mondo, il parco industriale della periferia della capitale vietnamita. Migliaia di giovanissime ragazze, indossando come fosse un’anticipazione di un futuro comune quelle mascherine che oggi sono diventate indispensabili in tutto il mondo, si affrettano ad arrivare in tempo all’appuntamento con il ritmo del loro sfruttamento.

Bay è tra loro, ha 22 anni, viene dai villaggi Muong degli altopiani del Nord del Vietnam ed è arrivata ad Hanoi per lavorare nelle fabbriche della Canon. Bay fa parte di quell’80%  di donne che compongono la classe operaia vietnamita, in gran parte impiegata nelle fabbriche di alta tecnologia. Quelle che in media dopo cinque anni di lavoro in fabbrica la abbandonano, per motivi di salute, per non poter sostenere i ritmi di lavoro o le regole aziendali.

 

Bay, la protagonista del documentario, è una delle “nimble fingers”, le “dita agili”, che a ritmi insostenibili lavorano senza sosta nelle fabbriche dei più importanti marchi dell’elettronica e dei prodotti destinati ai circuiti globali del consumo tecnologico.

 

 

Il documentario racconta l’esperienza di Bay, le sue aspirazioni, i sogni, la quotidianità, le scelte, le paure, i timori, i dolori, la rabbia. Il ritmo della produttività e i costi umani sociali e ambientali del profitto avvolgono lo spettatore, sembra quasi di accompagnare la giovane protagonista fino all’entrata della fabbrica. Poi si torna a casa, nella periferia della capitale.

La fabbrica, però, non appare mai. I permessi per girare all’interno non sono mai arrivati. Davanti a questa censura, il regista ha reagito trasformando l’impossibilità di accedere con la telecamera all’interno delle fabbriche nella sperimentazione di uno stile narrativo molto efficace: sono le animazioni a raccontare la vita nella catena di montaggio. E le animazioni sono frutto di un laboratorio di disegno collettivo con le giovani operaie, che si è trasformato in uno spazio di critica e immaginazione politica collettiva.

La censura da parte delle aziende, sia italiane che giapponesi, viene denunciata attraverso il dispositivo narrativo delle animazioni che ci conducono nell’arcano della produzione globalizzata e delle catene di montaggio, pressoché scomparse dalle attuali narrazioni del lavoro contemporaneo. Sono così i disegni delle giovanissime lavoratrici vietnamite protagoniste del documentario a raccontare le ripetitive e insostenibili attività quotidiane dentro la fabbrica.

 

All’inizio del documentario, Bay chiede, rivolta a ognuno di noi: «Sei in grado di lavorare velocemente, senza fermarti per ore, senza perdere la concentrazione, senza porti mai domande e senza cedere alla stanchezza?»

 

 

Così inizia Nimble Fingers, il documentario pluripremiato dell’antropologo napoletano, giornalista e direttore della fotografia Parsifal Reparato, che dal 1 giugno,è possibile vedere online sulla piattaforma Open DDB, la prima rete distributiva di produzioni indipendenti in Europa.

Il regista ha svolto diverse ricerche sul campo prima a Cuba, poi in Indonesia, in Argentina ed in Vietnam. Ed è qui che nasce il progetto di questo documentario indipendente, realizzato con il sostegno di un crowdfunding nell’ambito di una ricerca sul campo ad Hanoi sui diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, sostenuta da diverse università italiane e vietnamite. Il documentario ricostruisce e denuncia le condizioni di vita e di lavoro nelle grandi fabbriche delle multinazionali e l’impatto sulla società vietnamita e proprio per queste ragioni, denuncia il regista, la precedente gestione dell’Ambasciata italiana ad Hanoi non ha supportato la distribuzione del film in Vietnam a causa «dell’imparzialità che siamo tenuti a mantenere nei confronti delle aziende straniere che figurano nel video». Ma il nuovo ambasciatore ha cambiato strategia rispetto alla precedente, accettando di sostenere la distribuzione del film in Vietnam: la proiezione era prevista per luglio ad Hanoi e HCM nell’ambito dell’undicesimo Documentary Film Festival Vietnam-Europe, ma a causa dell’epidemia è stata rinviata al 4 settembre.

 

 

 

Ben al di là di ogni logica dell’imparzialità e della neutralità che diventano spesso complicità con le più brutali forme di sfruttamento, il documentario racconta la vita di Bay rendendone la vitalità, i desideri, le traiettorie, i sogni frustrati che condivide con la sua generazione. Così ci inoltriamo in Vietnam attraverso le riflessioni di una giovanissima ragazza emigrata dai villaggi di montagna fino a una città che non la accoglie, ma che appare come spazio estraneo dove i sogni di indipendenza sconfinano nello sfruttamento più brutale.

Le azioni, gli sguardi, le attività della vita quotidiana di Bay, dei suoi amici e delle sue amiche, si intrecciano nelle conversazioni davanti a una cena, le risate, le battute, le preoccupazioni, la stanchezza, la povertà, i giochi, le passeggiate, i fine settimana passati a sognare una vita oltre la fabbrica, le passeggiate e la gita sul lago con il pedalò.

Sono le vite di queste «donne giovani e forti, rigorose, precise ed efficienti» a emergere nel film, le vite di queste donne che quando tornano al loro villaggio vivono una crisi e uno straniamento particolari: «nessuno chiede loro che vita fanno ad Hanoi» e, al tempo stesso, non «possono né sanno fare niente» nel villaggio, come dice Bay con profonda tristezza; dovranno tornare nelle risaie, o è possibile costruire nuovi cammini? Le giovani donne lasciano il villaggio cercando indipendenza, ma trovano solamente lavoro sottopagato nelle industrie multinazionali, dove essere «forti, rigorose, precise ed efficienti» significa incarnare le qualità che corrispondono alle necessità delle aziende. Eppure, proprio queste qualità emergono nel documentario in tutta la loro ambivalenza indicando infine anche possibili vie di fuga.

 

 

 

Il documentario si inoltra così nella complessa materialità della nuova composizione del lavoro, in un paese dove la compresenza di molteplici temporalità e spazialità esibisce scissioni e tensioni che emergono nella soggettività della giovanissima operaia.

 

Le aspirazioni di libertà si confrontano con i molteplici spazi obbligati o negati che costituiscono l’esperienza urbana della protagonista, dalla casa fino al lago Ho Tay di Hanoi, dagli snodi delle superstrade fino alle strade sterrate del villaggio sulle montagne del nord, nelle risaie e nelle foreste che ricoprono quel mondo lontano dove cambia la musica e il rumore di fondo.

Mettendo in tensione questa compresenza di tempi e spazi che caratterizza la globalizzazione capitalista e la sua crisi, il documentario indaga quella moltiplicazione del proletariato che i due antropologi Sharyn Kasmir e August Carbonella indicano come questione decisiva per una comprensione delle trasformazioni del lavoro nella contemporaneità. Il documentario contribuisce così a quell’auspicato approfondimento etnografico attorno alla proliferazione di nuove relazioni di lavoro per  interrogare la riconfigurazione e la nuova composizione della classe operaia globale.

 

 

Siamo di fronte alla moltiplicazione delle forme di lavoro che si ridisloca a livello planetario, lungo le frontiere rimodulate dello sfruttamento globale, analizzate da Sandro Mezzadra e Brett Neilson nel loro Confini e frontiere (2014): la vediamo dall’esperienza situata e specifica di Bay, che nel documentario racconta con gli sguardi, la parole, le immagini un Vietnam in costante trasformazione, dove il villaggio e le fabbriche dell’area metropolitana coesistono e, seppure risultino disconnessi tra loro e profondamente differenti, sono al tempo stesso più vicini e connessi di quanto possiamo immaginare nell’esperienza di migliaia di giovani operaie.

Il ritmo narrativo del documentario si dispiega secondo una particolare alternanza tra scene domestiche, spazialità urbane – dai mercati popolari alle strade in costruzione, dal lago alle vie in terra battuta che conducono alla casa di Bay – e disegni animati, che raccontano il ritmo denso delle nimble fingers, lasciando intravedere non solamente la vita di fabbrica, ma anche le aspirazioni delle lavoratrici.

 

Lo sguardo dell’autore sceglie così una prospettiva di parte e situata, quella di una giovanissima operaia vietnamita, per raccontare il tutto, il capitalismo globale e il suo impatto sul Vietnam.

 

 

Sviluppando la narrazione senza cedere al paradigma del vittimismo, ovvero all’attribuzione di una mera condizione di vittimità a queste figure del lavoro duramente sfruttate, analizza a partire dalla vita di queste giovani donne che sostengono, garantendo la possibilità del consumo di prodotti di elettronica, con turni massacranti nelle fabbriche di tutto il mondo dalle maquiladoras messicane fino al sud est asiatico, i processi di accumulazione del capitalismo contemporaneo.

Senza riprodurre una narrazione dell’impotenza o dell’incapacità di agire in autonomia, né cadere in semplificazioni culturaliste, questo documentario, addentrandosi nelle esperienze di vita, negli spazi urbani e rurali della sua vita, ma anche nelle paure, nei desideri e nelle aspettative di Bay con profonda sensibilità etnografica, ne restituisce le condizioni di sfruttamento ma anche gli spazi possibili di resistenza, le capacità di agency e la ricerca di vie di fuga anche in condizioni strutturali di sfruttamento.

 

 

«Disegno il mio sogno», dice sorridendo esausta dopo una dura giornata di lavoro.

 

Ma se le immagini della catena di montaggio non appaiono mai, se non ricostruite dai disegni e dalle testimonianze con cui le lavoratrici denunciano il lavoro ripetitivo e frenetico dentro la fabbrica, la denuncia delle condizioni di lavoro emerge chiaramente.

E appaiono così interessanti risonanze con le condizioni delle lavoratrici tessili a Buenos Aires analizzate da Verónica Gago: «per garantire la produzione per le grandi marche mantenendo le attuali condizioni di lavoro, gli operai e le operaie del comparto sartoria quasi non possono alzarsi dal loro posto. Andare al bagno diventa un lusso e un peso, si torna correndo velocemente per vedere quanti sono i pezzi di tela accumulati, disobbedendo al cronometro».

 

Le resistenze ai ritmi massacranti della produttività si tessono a partire dalle conversazioni sulle condizioni di lavoro tra le ragazze, che avvengono a casa. Uno spazio di politicizzazione femminista, che parte dalla propria esperienza e mostra un concatenamento di forme di sfruttamento che emerge dalle parole delle protagoniste.

 

 

«Nella tua fabbrica è facile chiedere un giorno di permesso, vero?». «Facile? Per niente, hai un giorno di permesso al mese e se ne chiedi due, il capo lo annota e, se non è d’accordo ma lo fai comunque, ti sottraggono lo stipendio». E se ti «ammali nel tuo villaggio, devi mettere in conto di perdere il lavoro». E poi, «non puoi assentarti, se ti ammali, non resti a casa,ma vai in infermeria. E in infermeria non puoi stare più di trenta minuti, se resti di più, non ti pagano». Non ti pagano, quando stai male. Se vai in infermeria per trenta minuti in più del previsto, ti tolgono dal salario trenta minuti, racconta Bay. E ricevi una cattiva valutazione. Appaiono così la stanchezza, la povertà e le forme pervasive di controllo.

I ritmi della produttività del profitto del capitale e la riproduzione della vita, viaggiano paralleli: «se non raggiungi i bonus di produttività, non paghi l’affitto», racconta Bay. Sullo sfondo programmi televisivi musicali, si prepara la cena, si scambiano esperienze, racconti, aneddoti. Un’intimità politica tra amiche, compagne di lavoro, di casa, di migrazione.

Questa intimità politica emerge nel documentario fino a costituire le trame di una esperienza urbana dove, tra il rumore di fondo senza fine che sembra il motore dello sviluppo di Hanoi, si riaprono spazi di vita oltre la catena di montaggio che il documentario indaga politicizzando le sensazioni, paure e preoccupazioni di una ragazza di poco più di vent’anni.

 

 

Una notte, dopo la festività del Tet, che Bay ha trascorso nel villaggio d’origine, dove si sente un’estranea e rivive le celebrazioni tra canti e cibi tradizionali, condivide le speranze, le paure e i dolori della sua vita ad Hanoi, che appaiono in tutta la loro intensità quando con sincerità racconta, nel ritmo lento del villaggio, che in città «bisogna pagare tante cose e il salario non basta mai».

 

Anche al villaggio emergono le difficoltà , il senso di spaesamento, la difficile relazione con la famiglia di origine. La condizione di Bay, il non sentirsi a casa né nel villaggio di origine né nella città che la accoglie miseramente, racconta il dramma di un intera generazione in un paese, il Vietnam, che sta vivendo una complessa transizione verso l’economia globale di mercato.

 

Ma quella festività passata nel villaggio in montagna, tempo di incontro e di riflessione, apre nuovi percorsi per Bay, laddove quel ritmo di lavoro smette di essere l’unica possibilità di vita. E così, le decisioni individuali aprono spazi, quantomeno nelle animazioni che emergono dai laboratori collettivi di disegno, per intravedere prospettive di trasformazione sociale, fino alla ricerca di altri orizzonti di desideri possibili da costruire nella materialità delle lotte a venire.

 

 

Il documentario è distribuito da Open Distribuzioni dal Basso dal 1 giugno 2020: