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Miserabilia

È uscito anche in Italia il film di Ladj Ly “I miserabili”, un racconto esplosivo e al tempo stesso claustrofobico di una banlieue dove la normalità si fa eccezionale

Un anno dopo Cannes 2019 in cui aveva avuto la sua eco e il suo clamore, nel silenzio culturale del dopo-lockdown, in queste settimane di rivendicazioni, violenze e controviolenze proiettate sempre in un altrove per cui tifare, è uscito finalmente anche in Italia I miserabili.

 

Storia di un momento di ordinaria tensione – il primo giorno di lavoro in banlieue del poliziotto “buono” e riflessivo (lasciamo stare se lo scavo nella psicologia di questa figura-stereotipo sia sufficiente) – in un quartiere in cui la normalità si fa eccezionale, ritmato da improvvisi allentamenti e accelerazioni morbose, è un film ben montato e molto duro.

 

Il tema generico è presto detto: nell’assenza di istituzioni formali e informali che costruiscano qualcosa per un mondo dove religioni e droghe si contendono il popolo, nella borgata soffocata dal caldo e da condizioni di alienazione diffusa, costellata da ragazzini-“pidocchi” che sono ovunque, stanno ovunque, ovunque ai margini della legalità, come si dice, altrettanto ovunque è la violenza. È paesaggio monotematico, anonimo e di massa. È radice e ossigeno: entra nei polmoni di tutti, ma è inalata e restituita come aria viziata dalle forze dell’ordine chiamate a gestire il territorio – unica testimonianza dello Stato in un distretto di casermoni e cemento che cola.

L’unità di tempo è quella estiva e straniante di un paese, la Francia, che ha appena vinto i Mondiali 2018. La bandiera, la retorica dell’unità sono in the air, lo dice pure il capo della polizia nell’istruire i tre protagonisti adulti – i tre poliziotti della Bac (Brigade anti-criminalité), l’unità in vettura che sorveglia la banlieue. Il film avvolge in una trama senza respiro, dove gli eventi per un pretesto apparentemente nullo precipitano fino a rompere i sottili equilibri del dominio che regolano l’area – dove tra etnie, culti e cani sciolti le forze dell’ordine sono solo una delle pedine.

La polizia è una funzione dell’apparenza: si fa vedere, tratta, minaccia, è minacciata. Soprattutto, fa politica. Ovvero tesse trame, gioca col comando e l’obbedienza: amministra il conflitto insieme ad altre entità, altri organi. Non ha neanche lontanamente il monopolio della violenza “legittima”. Ha visibilmente quello delle armi. Ma proprio da un abuso di quel monopolio si accende una scintilla che viene gestita sempre dai policiers con perizia politica, con arguta politesse, ma non basta. Il resto – senza svelare nulla – pur esplosivo, è claustrofobico senza liberazione. Inchioda lo spettatore ad atmosfere simil-Diaz benché rovesciate. Eppure, nonostante l’esplosione sia forte davvero, si stenta a credere che il futuro di quei miserabili in rivolta sia l’emancipazione.

 

 

Certo i miserabili, questi miserabili, a violenza rispondono. Ma, diversamente dagli esempi che un po’ tutti hanno chiamato in causa, in questo film non si vede uno stile negli oppressi. Non ci sono il sarcasmo e i beat di Fai la cosa giusta, né il nulla estetizzato de L’odio, c’è un mugghiare sordo, afoso di ragazzini che presentano il conto – davvero miserabili.

 

Il titolo, si sa, è tratto da Victor Hugo. E anche l’ambientazione – Montfermeil. E pure la frase finale, epitome ideale del progetto, è tratta da Hugo: «non ci sono erbe cattive, né uomini cattivi, ma solo cattivi coltivatori».

 

La frase è bella, è bellissima. Contiene le istruzioni per ogni visione di sinistra, di chi sta dalla parte del torto, della parte esclusa. Di chiunque sa che nessun uomo è un’isola, che Venerdì è il nome che il padrone dà allo schiavo. Chiunque abbia a cuore il ruolo della società, del collettivo, dell’educazione nel far migliori gli ambienti e quindi le persone sente che Hugo ha ragione.

Hugo dice mauvaises herbes. E dice mauvais hommes. E noi giustamente traduciamo «uomini cattivi».

 

Ecco, i miserabili sono uomini che ‘vogliamo’ cattivi. Ma sono appunto uomini. Perché se c’è un’evidenza solare nella trama del film è la mancanza pressoché totale del femminile. Le donne non appaiono mai nell’intreccio di ghetti di Montfermeil.

 

Le miserabili non ci sono – e le eccezioni, fondamentali conferme della regola, si contano sulle dita di una mano.  Meglio, ci sono in soli quattro casi. Del primo diremo a breve. Il secondo è un gruppo di adolescenti che vengono bullizzate dagli agenti della Bac alla fermata dell’autobus – per una sessione di quella che il poliziotto-capetto chiama “palpatine”. Scena molto vista, sufficientemente irritante, di abuso di tutto. La terza eccezione è un trio di ragazzine che, filmate di nascosto dal drone di un piccolo voyeur che avrà un ruolo decisivo, pretendono di guardare il video, per poi chiamare “puttane” le loro coetanee vittime di analogo sguardo senza consenso. Adolescenti vittime, quindi, in entrambi i casi. Che nel secondo si vendicano facendo mera eco al linguaggio maschile.

Poi ci sono il primo e l’ultimo caso di “femmine in scena”. Qui occorre cautela. Perché la prima donna che vediamo è il capo della polizia. E il capo della polizia, lo ha spiegato G. K. Chesterton nell’Uomo che fu giovedì, di solito è il capo dei criminali. E se l’intuizione ha un senso – e il senso ce l’ha –, se ce l’ha anche qui tra i maschi miserabili, la pia burocrate lievemente anonima impersonata da Jeanne Balibar, che sentenzia che qui la forza si usa, ma si rimane sempre nei confini, svela semplicemente l’ovvio segreto: la polizia non è ciò che appare. La sua violenza riproduce that same old song. La capa mima il maschile in ciò che c’è di più preordinato, di più noioso nel suo dominio: la ripetizione, l’automatismo, l’indifferenza di ogni atto che prolunga all’indefinito lo status quo (senza mai porre un discrimine, senza mai praticare la crisi). Dovesse anche usare violenza, la polizia lo farà sotto silenzio, nei confini laschi, squamosi del suo monopolio. Lo farà apparendo come appare la capa – una burocrate che dice e ripete limiti patriarcali in forma di legge.

Infine c’è la quarta epifania, una scena ambigua e potente nella sua letteralità. Il poliziotto nero, l’uomo né buono né cattivo che coltiva la scissione nel lavoro quotidiano al servizio dello Stato, alla fine della giornata in cui non solo ha sbagliato tutto ma lo capisce, va dalla madre ed erutta emozione. Ma la madre, vestita in abiti tradizionali, non lo abbraccia, non lo consola. Gli offre senza esito del cibo. E quando l’eroe che ha fatto violenza al suo simile come da prassi epica piange lacrime calde, lei gli parla. Eppure, mentre lui capisce, noi in sala non cogliamo nulla di quel che dice. Perché gli parla una lingua per noi incomprensibile, la sua lingua di origine, aprendo una lacerazione mostrata a stento dal protagonista. La lingua del femminile appare qui solo in un privato che non esce fuori dalla casa: occultata dalle complicità delle tattiche di banlieue e impenetrabile per tutto il contesto in cui il poliziotto ha fino a quel momento operato.

 

 

Per districarsi nell’apnea dei Miserabili, forse bisogna spiegare la divaricazione tra questi due linguaggi. Quello irritante, amministrativo della burocrate che spiega chi comanda, che «noi qui non vogliamo mai esagerare». E quello rimosso, senza sottotitoli, di una madre che non culla il figlio nella colpa. Che lo lascia al suo dilemma, alla sua responsabilità di coltivare così anche lui “erbe cattive”.

Tutto il resto è moto, è frenesia. È maschile ovunque. Dopo infinite provocazioni e traumi inaccettabili, come in un Signore delle mosche metropolitano gruppi di ragazzini esasperati, furiosi – tutti maschi – restituiscono una violenza che scintilla poi esplode, fotogenica e inquietante, senza seguito.

 

In un contagio machista di colpi e di minacce, quella che vediamo in scena è una violenza che piace alla riproduzione, che piace – tanto – all’estetica delle copie, dei simulacri di giustizia condivisi via social. Non alla rivoluzione.

 

Finché l’immaginario della rivendicazione, finché l’immagine del conflitto è dominata dal maschile, dall’eterna icona del maschio che si controlla poi esplode poi piazza il colpo nel fumo nel fuoco, finché il conflitto e il suo modo di violenza replica espressioni patriarcali e non trova forme altre, i “miserabili” restano di quell’unico genere. In eterna, rinnovata alleanza con lo stato di cose presente.

 

Le immagini sono dei fotogrammi presi da “I Miserabili” di Ladj Ly