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Mindfulness e psicopolitica

Pratiche di meditazione, coscienza di sé e gestione delle emozioni e dello stress: all’epoca della psicopolitica e del neoliberalismo la Mindfulness viene messa al servizio della valorizzazione capitalista e del management di se stessi, senza mai mettere in discussione come lo stress, la depressione, il burn out e il disagio psichico sono da mettere proprio in relazione al modello di produzione e di relazioni sociali vigenti.

Se bazzicate più o meno regolarmente la home di Repubblica, se leggete ogni tanto riviste di salute, benessere spirituale o management d’azienda, è probabile che ultimamente vi siate imbattuti nella meditazione Mindfulness. Nata in Estremo Oriente qualche millennio fa, la Mindfulness ha ormai raggiunto anche le regioni occidentali del globo. Al di là delle apparenze, non si tratta dell’ennesima, esotica moda new age importata a nostro momentaneo uso e consumo, né va semplicemente relegata nella lista delle tendenze del nuovo millennio. Anche tralasciandone le nobili origini e gli stretti legami con la scienza occidentale, la diffusione della Mindfulness cela molto più che un’infatuazione di massa per una pratica vagamente misticheggiante e potenzialmente molto chic. A cercarne le cause ci si accosta infatti ben presto alle logiche strutturali del funzionamento della società.   

Dietro la loro facciata frivola, le cosiddette “mode” spesso nascondono, e perciò paradossalmente rivelano, alcune tendenze essenziali che contribuiscono a dar forma al nostro modo di abitare il mondo. È per questo che la Mindfulness merita di essere analizzata: essa non è solo una forma di esotismo spirituale o di salutismo trendy né una panacea, ma ricopre un ruolo all’interno dei processi di soggettivazione che disegnano una nuova antropologia dell’uomo occidentale e consente perciò di cogliere alcune trasformazioni epocali in atto nella civiltà capitalista.

Citando Wikipedia, «Mindfulness», in italiano “consapevolezza”, è «un’attitudine che si coltiva attraverso una pratica di meditazione sviluppata a partire dai precetti del buddhismo (ma scevra dalla componente religiosa) e volta a portare l’attenzione del soggetto in maniera non giudicante verso il momento presente». Questa pratica muove i suoi primi passi in Occidente alla fine degli anni Settanta, precisamente nel 1979, quando alla University Medical School di Worcester un medico del Massachusetts, Jon Kabat-Zinn, fonda la Stress Reduction Clinic e sviluppa un programma chiamato MBSR, Mindfulness-Based Stress Reduction (Riduzione dello stress basata sulla consapevolezza), adattando concetti tratti dal buddismo e da altre tradizioni contemplative orientali a un uso clinico e terapeutico.

Mindfulness traduce “Sati”, che in lingua Pali significa essenzialmente “attenzione”, “consapevolezza” e indica una condizione di “presenza mentale” in cui fenomeni interni ed esterni sono esperiti «come realmente sono (cioè privi di un sé intrinseco e forieri di sofferenza)», e come distinti dalle distorsioni mentali apportate dal soggetto. Raggiungere questa comprensione profonda, detta “Vipassana” nel buddismo Theravada, è possibile grazie a una pratica meditativa costante volta a incrementare la capacità di rivolgere l’attenzione, intenzionalmente e senza giudizio, all’hic et nunc, allo scorrere dell’esperienza nel presente.

Il protocollo clinico MBSR, strutturato su un ciclo di otto incontri settimanali in cui si propongono diversi esercizi di meditazione, stimola la facoltà di “attenzione non giudicante” con momenti di meditazione “formale” e pratiche “informali” da applicarsi in ogni momento del quotidiano: a poco a poco, lo stato mentale mindful deve divenire un vero e proprio habitus, un’abitudine alla continuità dell’attenzione e alla consapevolezza. Insomma, la Mindfulness non è una circoscritta tecnica riabilitativa: facendosi abitudine straripa nel quotidiano, influenzando l’atteggiamento del soggetto  verso la propria esistenza, rendendolo sempre più capace di percepire il qui e ora delle sensazioni corporee, il fluire del respiro, dei pensieri, delle occupazioni abituali. Imparerà sempre più ad accogliere l’esperienza del momento presente in maniera «gentile, accettante, amorevole, compassionevole».

Nella sua breve storia occidentale la Mindfulness si è rivelata capace di effetti terapeutici rilevanti, corroborati da numerose ricerche scientifiche: negli anni si sono moltiplicati gli studi che ne attestano l’efficacia nel trattamento di soggetti affetti da dolori cronici, tumori, patologie incurabili, nonché depressione, disturbi comportamentali, alimentari, attacchi di panico. A poco a poco però la Mindfulness è uscita dall’ambito strettamente terapeutico e riabilitativo per raggiungere altri settori della società: a oggi, scuole, corsi e seminari di Mindfulness spuntano come funghi.

A metà tra tecnica medico-scientifica e disciplina spirituale con radici religiose, sintesi di singolare fra trattamento riabilitativo e filosofia di vita, la Mindfulness interessa aziende e istituzioni ma anche individui smarriti nella nostra contemporaneità segnata da frenesia, precarietà e mancanza di senso.

Medici e psicoterapeuti di diverse scuole di pensiero consigliano la meditazione Mindfulness, le aziende la propongono come tecnica di gestione dello stress e trattamento per l’esaurimento nervoso, le scuole la usano per prevenire il bullismo ed educare al benessere psicologico. In tanti cercano nella Mindfulness una soluzione al disagio, un modo per gestire ansie e sbalzi emotivi o perlomeno un palliativo alla condizione di malessere e frustrazione che provocano esperienze lavorative e formative sempre più all’insegna dell’insicurezza.

Insomma, al di là delle sue origini e degli intenti della ricerca scientifica, la Mindfulness è in vendita sul mercato occidentale della salute e del benessere come rimedio allo stress e alla sofferenza emotiva provocati dalle dinamiche e dai ritmi di vita iper-moderni, come farmakon (al contempo medicina e veleno) per un’anima sottoposta a tensioni e frustrazioni di tipo e intensità forse inediti.

Non a caso un numero crescente di ricerche segnala l’emergenza sanitaria del nuovo millennio: i disturbi mentali, che aumentano notevolmente e sistematicamente nei paesi del cosiddetto “primo mondo”. In particolare crescono vertiginosamente tutti quei disagi psichici strettamente legati all’ambiente in cui è inserito il soggetto (ad esempio la depressione, l’ansia, l’iperattività, i disturbi borderline e dell’attenzione). Sono in aumento anche i lavoratori colpiti da burn-out e i suicidi.

Molti spiegano questa vera e propria epidemia di “disagio psichico”, che caratterizza gli ultimi trent’anni della nostra storia e che sembra colpire paesi con alti tassi di produzione e consumo, col passaggio da un modello di produzione di tipo industriale a un modello di tipo immateriale fondato sulla conoscenza, nel quale le fonti del plusvalore sono le facoltà comunicative e relazionali dei soggetti. Questa trasformazione è stata accompagnata dall’emergere di una razionalità neoliberale, un dispositivo di sapere-potere per dirla con Foucault, che fa di ogni lavoratore un imprenditore di se stesso e, dunque, un soggetto di prestazione.

Questo dispositivo non si limita a disciplinare i corpi degli individui per educarli alla leva del lavoro e punire i renitenti: inserendo i soggetti in un contesto di competizione sfrenata ed elaborando un discorso d’impresa basato sul management di sé, esercita un potere che si fa strada nell’interiorità del lavoratore guidandone le condotte, strutturandone le relazioni, plasmandone passioni e desideri.

Secondo i filosofi francesi Pierre Dardot e Christian Laval, la logica neoliberale permette di «oggettivare l’adesione dell’individuo alla norma di condotta che gli è imposta»; in poche parole, di far sì che il soggetto desideri per se stesso esattamente ciò che il sistema gli suggerisce di desiderare. Si tratta, come scrive il filosofo sud-coreano Byung Chul Han, di una forma di potere “intelligente”, “benevolo” che non opera frontalmente contro la volontà dei soggetti sottomessi, ma la guida incidendo direttamente sui loro desideri. «Il capitale sviluppa bisogni propri, che noi per errore percepiamo come nostri»,  spiega Byung Chul Han, che definisce psicopolitica questa inedita tecnica di governo dei soggetti.

Alla lista dei dispositivi descritti dal professore sudcoreano nella sua Psicopolitica (la ludicizzazione, il quantified self, i big data), aggiungerei quelle che con Dardot e Laval possiamo definire  “tecniche di miglioramento del sé” e che oggi rappresentano un vero e proprio programma di “ascetica prestazionale”. Grazie a queste tecniche psicologiche e motivazionali, che da alcuni anni costituiscono il mercato in espansione dell’auto-valorizzazione e della cura di sé, il soggetto si costruisce come “libero imprenditore di se stesso” e  sceglie “liberamente” di aderire a quanto gli prescrivono le logiche della produzione e del mercato. Tali tecniche mirano infatti a trasformare completamente la persona: tutti i campi della vita individuale sono potenziali risorse per l’impresa e offrono all’individuo occasioni per migliorare le proprie prestazioni; tutti gli ambiti dell’esistenza albergano stimoli adeguati a migliorare il management di se stessi. A sottoporsi ai training caratterizzati dall’utilizzo di una di queste tecniche non è l’individuo in quanto lavoratore, ma l’individuo nella sua interezza, tanto più che i lavoratori oggi si assumono e si valutano secondo criteri sempre più personali, fisici, estetici, relazionali e comportamentali.

Tra le tecniche di miglioramento del sé che contribuiscono a costituire il soggetto neoliberale si può annoverare anche la meditazione Mindfulness, che permette all’individuo di sopravvivere allo stress a cui il dovere costante della performance lo sottopone; d’altro canto, proprio incrementandone la  resilienza, garantisce che non si formino nel soggetto blocchi, ostacoli o resistenze all’estrazione di plusvalore.

La creazione di profitto a partire dalle capacità cognitive e emozionali dei soggetti trova infatti un limite nella loro incapacità, fisiologicamente determinata, di sopportare uno stress portato alle stelle dalla produttività senza interruzioni, h24. Assolviamo costantemente all’obbligo di fornire una prestazione per l’impresa di noi stessi: non solo quando studiamo o lavoriamo, ma anche mentre facciamo sesso, intratteniamo relazioni sociali, andiamo in palestra o ci dedichiamo alla comunicazione digitale. Tutto è concepito come prestazione e perciò sottoposto a valutazione: ne deriva una pressione fatale per l’equilibrio e la salute della psiche umana. Oggi la malattia mentale non indica più una devianza dalla norma, non è conseguenza di un trauma o di ipersensibilità: è la reazione assolutamente fisiologica della psiche che collassa su se stessa a causa dello stress parossistico e insostenibile cui è sottoposta. Scrive  Byung Chul Han: «A essere sfruttata è, ora, la psiche: così questa nuova epoca è accompagnata da patologie psichiche come depressione e burn-out».

Il soggetto depresso o in burn-out, però, cessa di essere produttivo per il sistema, ostacolando la creazione di plusvalore e l’estrazione di profitto. Come riesce il sistema capitalista superare questo limite, evitando che il disturbo mentale che esso stesso crea si tramuti in un freno alla produttività? Indubbiamente intervenendo sulla sintomatologia con dosi sempre più massicce di psicofarmaci; più profondamente, rendendo il disturbo mentale “normale” e gestibile per il soggetto e per la società, ri-plasmando la psiche umana tramite tecniche e trattamenti che ne influenzino i desideri e ne incrementino il più possibile le capacità di sopportazione e resilienza.

Perché le emozioni siano docili veicoli di profitto invece che bombe a orologeria pronte a esplodere in comportamenti o gesti che mettono a repentaglio l’ordinario svolgimento della catena produttiva sono necessarie consapevolezza e autocontrollo.

È per questo, e non per mera filantropia, che oggi sempre più scuole, università e aziende propongono corsi di Mindfulness-Based Stress Reduction. È un paradosso perverso: l’azienda offre al lavoratore corsi per imparare a gestire lo stress che è essa stessa a procurargli. Inoltre, gli insegna che questo stress, coi suoi attacchi d’ansia e panico, non deriva dal carico di lavoro o dalle cattive condizioni sociali, ma dalla sua incapacità di accettare e gestire certi ineliminabili aspetti della vita che non possono che causare sofferenza.

Saggiamente la Mindfulness ci ricorda che il dolore è una componente fondamentale dell’esistenza e che disagio, dolore e frustrazione sono «motivo di crescita e persino di creatività», dimensioni che non vanno negate ma accolte. Non sembrerebbe esserci nulla da eccepire, eppure, questa presa di coscienza, indispensabile e potenzialmente emancipatrice per il soggetto, coincide fatalmente col messaggio quotidianamente trasmessoci da aziende, media e politici: stress, disagio e sofferenza sono componenti ineliminabili di vita e lavoro. Per non diminuire la nostra produttività ed efficienza bisogna imparare ad accettarli e a gestirli. Nella razionalità neoliberale, insomma, non ci si apre autenticamente alla negatività costitutiva dell’esistere umano: quello che bisogna accogliere e tollerare è «unicamente il dolore che si può sfruttare al fine dell’ottimizzazione». Sembrerebbe una minaccia: bisogna imparare a tollerare e gestire disagi e sofferenze per non arrivare al collasso definitivo della propria psiche.

Il fatto è che, mentre sottopone i soggetti a livelli di stress da prestazione insostenibili, il neoliberalismo demolisce la dimensione collettiva dell’esistenza: ogni crisi sociale è percepita come una crisi individuale e i problemi sistemici si trasformano in fallimenti personali occultando così la propria dimensione essenzialmente politica.

Un esempio semplice ma emblematico lo troviamo il 18 marzo di quest’anno sul Corriere della sera. Titolo: «Le trentenni devono imparare a “fermarsi”. E a volersi bene». Occhiello: «Sull’orlo di una crisi di nervi, schiacciate tra mille impegni di lavoro e familiari. Dichiarano di non sentirsi bene e hanno ragione». Conclusione: «Trovare tempo per sé, imparare a gestire lo stress possono sembrare raccomandazioni banali, ma è quello di cui le donne oggi hanno bisogno per non essere travolte dalle loro vite in corsa». Insomma le donne stanno male a causa di un sistema economico e sociale che tritura letteralmente le loro vite, per uscirne però non servono misure di welfare, magari legate specificamente alla condizione femminile o un reddito garantito di base: devono solo imparare ad amarsi di più e a gestire meglio il proprio tempo. Potrebbero iscriversi a un corso di Mindfulness, aggiungiamo noi.

Sul Sole 24 Ore del 27 febbraio, la rubrica Management promuove la Mindfulness in azienda, mostrandoci quanto questa tecnica faccia ormai il paio con le esigenze del mercato: “Non vi è alcun modo per eliminare completamente lo stress dal posto di lavoro, ma alcune aziende stanno cercando di aiutare i collaboratori a rilassarsi. La Mindfulness cambia il modo in cui il cervello elabora le informazioni e gestisce gli effetti dello stress e dell’ansia. Coloro che praticano Mindfulness in azienda sono più sereni e più calmi, rispetto ai loro colleghi che non lo fanno”.

Tra gli effetti benefici per l’azienda si elencano: migliorare la concentrazione, favorire la produttività, il pensiero creativo, il problem solving e la comunicazione efficace, oltre  naturalmente a una maggiore “plasmabilità” del lavoratore rispetto alle esigenze aziendali e agli scopi d’impresa.

Nelle parole del guru californiano del neo-management Paul Aubrey, l’impresa di se stessi non è solo una metafora ma una vera e propria “entità psicologica e sociale, se non addirittura spirituale”, attiva in tutti i campi e presente in tutte le relazioni. L’intera attività dell’individuo, in ogni suo aspetto, è concepita come un processo di auto-valorizzazione: si tratta dunque di un modello olistico di estrazione di plusvalore, un vero e proprio habitus che il soggetto indossa quando da lavoratore si trasforma in imprenditore di se stesso.

Anche la Mindfulness cerca di costituire un habitus affidandosi ad un modello olistico: l’ascetica neoliberale trova allora una perfetta corrispondenza nei pilastri fondamentali della “via della consapevolezza”. Se il saggio buddista medita per armonizzare anima e legge karmica universale, il soggetto sfruttato del neoliberalismo lavora su se stesso per adeguare la propria condotta all’ordine cosmologico della competizione mondiale. Se devo essere aperto, in sincronia, positivo, empatico, cooperativo, non è solo in vista della mia felicità ma innanzitutto per poter fornire e ottenere a mia volta dai “collaboratori” prestazioni all’altezza delle aspettative.

Mondo e mercato non possono essere modificati; sono fatti, e perciò incontestabili. Resta lo spazio della reazione soggettiva: “Lo stress non dipende dagli stressors, ma dal mio modo di interpretarli e di reagire ai loro stimoli”.

Cosciente e padrone delle proprie scelte, il soggetto è anche pienamente responsabile di ciò che gli capita. Ad un mondo troppo globale per essere governato, di cui nessuno è responsabile, corrisponde l’infinita responsabilità dell’individuo per il proprio destino, per il proprio successo e la propria felicità. Nel linguaggio neoliberale si riformula il concetto buddista di karma: non puoi prendertela con qualcuno all’infuori di te stesso perché sono le tue azioni e le tue intenzioni a determinare il tuo destino karmico. Siamo i soli responsabili di quanto ci accade, la costrizione economica è colpa nostra.

Oggi si insiste tanto sull’autostima, l’essere se stessi e amarsi come si è, perché queste “pillole di saggezza” si inseriscono in un discorso sulla padronanza di sé che riordina il desiderio legittimo, selezionando a priori le possibilità d’essere e di fare del soggetto.

Scrive Byung Chul Han: “Nella società della prestazione neoliberale, chi fallisce invece di mettere in dubbio la società o il sistema, ritiene se stesso responsabile e si vergogna del fallimento. In ciò consiste la speciale intelligenza del regime neoliberale: non lascia emergere alcuna resistenza al sistema.

A guardarla con sospetto, la Mindfulness si rivela dunque uno strumento di individualizzazione e auto-addestramento funzionale alle esigenze del mercato capitalistico: riduce cali di produttività dovuti ai cedimenti psichici, e soprattutto emenda ogni possibile e residua istanza di resistenza al processo di accumulazione. Se il mio malessere non è dovuto all’ambiente, allora sono io che devo sapermi adattare agli imprevisti, divenendo flessibile e resiliente per non farmi abbattere da accidenti che non sono colpa di nessuno: le esigenze del mercato sono incontrollabili, accadono, come le leggi della natura.

Scrive ancora Byung Chul Han: “Se nel regime neoliberale vige l’auto-sfruttamento l’aggressione si rivolge contro se stessi: quest’aggressività indirizzata contro se stessi non rende gli sfruttati dei rivoluzionari bensì dei soggetti depressi”.

La Mindfulness è allora tecnica di “pacificazione”, mediazione tra i due “me stesso” in lotta tra loro: l’io padrone e l’io sfruttato. Come la maggior parte delle psicoterapie moderne, la Mindfulness promuove una gestione di sé che impedisce al conflitto di classe interiorizzato di manifestarsi in forma di depressione, attacchi d’ansia, crisi psicotiche.

Non c’è alcun dubbio sull’importanza della salute mentale al fine di condurre una vita degna: pur essendo sintomo di conflitti, il disturbo mentale, la depressione e il burnout sono ben lontani dal costituire un’espressione rivoluzionaria di sabotaggio del sistema. L’individuo paga il mancato adattamento psichico con l’esclusione traumatica, lo shock dell’allontanamento e dell’estraniazione, l’impossibilità dei legami sociali fondamentali, dunque con la chiusura definitiva di quell’orizzonte socio-relazionale in cui solo può nascere un atto rivoluzionario. Per il capitalismo, il lavoratore depresso, lungi dall’essere un ribelle, è l’occasione per nuove diagnosi e medicalizzazioni, per arricchire i flussi di denaro di un’industria psico-farmacologica oggi più che mai fiorente.

L’adattamento psichico alla situazione presente, che la Mindfulness contribuisce a coltivare, è allora una condizione necessaria per qualsivoglia iniziativa di resistenza; eppure non è assolutamente sufficiente se si vogliono modificare le cause strutturali del malessere del lavoratore.

La consapevolezza del momento presente rappresenta un apertura sull’esistenza che pone l’individuo in condizione di osservare in maniera “oggettiva”, distaccata, la situazione nella quale si trova immerso, dunque lo pone nella possibilità di compiere scelte “libere” e razionali, non influenzate dall’arbitrio capriccioso delle emozioni e degli stimoli esterni. Percepito il malessere e recepite le risorse interiori sulle quali poter fare affidamento, il praticante Mindfulness può decidere se utilizzarle per riprendere a correre dietro i ritmi iper-accelerati della macchina produttiva capitalista (continuando a gestire come un equilibrista sospeso su un filo lo stress prodotto dall’esser parte di questa macchina) oppure se usarle per provare a influenzare e sabotare l’andamento stesso della macchina, per costruire nuovi meccanismi più equi e meno deleteri per la salute mentale. In quanto strumento di accrescimento della consapevolezza individuale, dunque, la Mindfulness può anche rendere capace l’umanità di una emancipazione esistenziale e sociale.

La pratica della meditazione poi, oltre a essere possibile premessa a una scelta di resistenza, è di per sé un ambito piuttosto impermeabile alla valorizzazione capitalistica: essa consiste di fatto nel non-fare nulla. Come anche i più grandi maestri orientali insegnano, però, il non fare della meditazione è paradossalmente il fare forse più produttivo di tutti. Inoltre, la meditazione qui in Occidente è ben diversa dalla sua controparte orientale: noi sediamo a meditare un’ora al giorno se va bene, e poi torniamo immediatamente alle nostre occupazioni quotidiane: mail, telefonate, palestra, Facebook. Il lavoro. La meditazione spesso è vista come mero momento di “ricarica”, necessario a lasciarsi alle spalle i carichi di stress accumulati, rimarginare le ferite inferte dalle ingiustizie subite e ripartire serenamente a consumare, produrre, competere.

Nell’epoca della psicopolitica, scrive Byung Chul Han, il soggetto non appare più come sub-iectum, sottomesso, ma come un pro-getto libero che delinea e reinventa se stesso secondo le proprie scelte. Eppure, proprio così l’individuo si sottomette a obblighi interiori e costrizioni auto-imposte: si forza alla prestazione e all’ottimizzazione, avvertendo tali obblighi come “scelte”, momenti della propria libertà. La razionalità neoliberale apre allora dinanzi al soggetto spazi di libertà che poi, però, manipola, impedendo qualunque scelta di vita alternativa a quella che essa stessa surrettiziamente impone. Come scrive Foucault, il neoliberismo ci governa attraverso la nostra libertà.

Un approccio all’esistenza veramente “olistico” e mindful non può chiudere gli occhi di fronte alle dimensioni sociale ed economica: consapevolezza è sì risveglio dei sensi e coscienza delle emozioni ma è anche conoscenza delle reali cause del disagio, cause che spesso hanno natura strutturale ed economica e risiedono, non per caso né per natura, nella iniqua distribuzione delle risorse e nell’organizzazione gerarchica e classista della nostra civiltà. Un’efficace exit strategy rispetto ai disturbi d’ansia e alle depressioni che segnano la contemporaneità non può allora costruirsi esclusivamente come auto-addestramento e adattamento del soggetto isolato al macrocosmo oggettivo che lo trascende; essa non può fare a meno di considerare il soggetto nella rete delle relazioni che lo costituiscono, dunque impone la necessità di pensare fino in fondo la dimensione intimamente comune che segna i nostri legami e costituisce, in ultima analisi, i nostri destini.