ROMA

Mentre attraverso lo spazio pubblico a San Lorenzo

Ogni giorno centinaia di persone attraversano il quartiere, che ha cancellato lo spazio pubblico e impedisce le relazioni sociali. Fra automobili e tavolini dei locali chi si muove a piedi si sente estraneo nello spazio che percorre. Come si ricostruisce lo spazio dove nascono le relazioni sociali?

I testi che pubblichiamo sono il risultato del Workshop che si è svolto il 18 febbraio e il 18 marzo nello spazio di Esc atelier: “Raccontare la città fra urbanistica e giornalismo” parte del progetto “San Lorenzo Solidale” che si è svolto grazie al contributo della Tavola valdese. 

In quei giorni di lavoro abbiamo analizzato come si costruisce un reportage, utile a leggere e raccontare le trasformazioni urbane che incidono sulle nostre vite. Abbiamo poi attraversato lo spazio della città, con una lunga camminata da San Lorenzo alla stazione Tiburtina, guardandoci intorno con curiosità. Abbiamo lavorato collettivamente, cercando di decostruire le narrazioni dominanti sulla città, superando le contrapposizioni tra degrado e decoro, riqualificazione e abbandono, gentrification e svalutazione per abituare lo sguardo a cogliere negli interstizi del presente le possibilità del futuro.

I reportage prodotti si propongono di trasformare il racconto della città in pratica urbanistica e sociale. 

Fugacità pedonale

Mi trovo tra le vie di San Lorenzo e mi faccio spazio tra uno slalom di macchine, i lavori in corso e un valzer di corpi distratti da un telefono o dagli auricolari. Tutte le persone che incontro camminano velocemente in un marciapiede troppo stretto. Io invece passeggio a passo lento e mi sento un outsider. Osservo i commercianti, mentre attendono orari migliori e svolte di acquirenti a braccia conserte, tra un mandarino appassito e un tappeto persiano. La pratica dell’attesa si consuma sul loro pezzettino di marciapiede che diventa come una boa di salvataggio in mare aperto. Quello che possono osservare dalla loro postazione è il palazzo di fronte o un collega con cui chiacchierare, quando va bene. Un lavoratore in pausa pranzo mangia in piedi, in posizione ricurva e sfiancata, appoggiato al sellino della sua moto. Un altro ragazzo pranza seduto sul gradino grigio di un negozio sfitto. Gli altri universitari si fermano a parlare appoggiati a una macchina parcheggiata, oppure si scambiano due parole sull’ultima lezione nel tragitto per arrivare all’autobus. E poi? Il vuoto. Questa “liquidità pedonale” che noto a San Lorenzo si riprende i suoi spazi solo nei luoghi di consumo, nei bar e nei ristoranti, dove le persone possono sedersi tranquillamente senza rischiare di essere investiti o senza la necessità di urlare più forte del traffico imponente.

La necessità dello spazio pubblico

Alfredo (nome fittizio), un simpatico signore ben vestito, di circa ottanta anni, mi ricorda l’importanza della possibilità di vivere lo spazio pubblico con un approccio partecipativo.

Lui sta passeggiando solo e con estrema coscienza dei luoghi che attraversa, si vede che è uno del posto. Si trova su uno dei tanti marciapiedi claustrofobici proprio quando scatto una fotografia e non si lascia sfuggire l’occasione per fare una battuta: «che me hai preso? Io so’ brutto, attenta che se rompe tutto! ». Gli spiego cosa sto facendo con le mie foto e questa volta ne approfitto io per chiedergli se lui abbia sempre abitato a San Lorenzo e se me ne vuole parlare. Come se avessi aperto un portale di sofferenza, Alfredo perde il sorriso e il suo volto si colma di malinconia. Comincia a rispondermi con delle informazioni apparentemente fuorvianti: «io vivo qua da sessant’anni.  Mo’ sto anda’ a gioca’ ar Superenalotto…». Gli chiedo scusa per il disturbo, ma lui continua: «cinque anni, cinque anni fa. Ho avuto un doppio lutto, mia moglie e mia figlia, sono rimasto solo, solo!». Mentre cerco parole di conforto, lui riprende a parlarmi della sua solitudine: «io esco e faccio questo, sotto e sopra, sopra e sotto, e poi alle tre rientro a casa. Che devo fa’? Almeno prima c’avevo qualcuno con cui anna’ a magna’ na pizza, scambia’ pareri, chiacchiere. Mo’ niente. Cinque anni…». Non so che dire, oltre che mi dispiace molto.

Dove socializza un anziano solo? Chi può incontrare se gli spazi che attraversa sono scomodi, trafficati, brutti, stressanti? ( Tra 2010 e 2021 l’incidenza di pedoni deceduti è aumentata nel Lazio, passando da 16,9% a 24,0% ) . Come socializzare in una città che fa dei pedoni un intralcio?  E soprattutto, perché la sua idea di socializzazione si è fermata a un ristorante? Io e Alfredo ci salutiamo, continuo a camminare, e avverto ancora di più la sensazione di disagio e solitudine che attanaglia persone di ogni età durante la giornata.

Continuo a camminare e mi viene in mente della Società liquida di Bauman, e penso che è una sorta di “liquidità pedonale” quella che sto attraversando. Sento addosso a me la fugacità del momento, perchè la mancanza di spazi di aggregazione mi rende impossibile immaginare un senso di appartenenza a quel luogo, anche attraversandolo numerose volte o frequentandolo assiduamente. Io, e tutti i pedoni, diventiamo attori sociali meramente di passaggio.  L’obbiettivo è il raggiungimento di un luogo dove si sosta per il guadagno con il fine ultimo del consumo. Il gioco è fatto: la forma utilitaria dei luoghi, come un cancro, si è presa il posto di quelle belle cose che sono la socialità e l’incontro.

È questo che grida a gran voce il caso del Cinema Palazzo: il 15 aprile 2011 il quartiere di San Lorenzo decise un’azione simbolica per impedire l’apertura di un casinò in Piazza dei Sanniti. In tre giorni di liberazione dello spazio, si riuscì a dire no all’ennesima azione di gentrificazione del quartiere. Per dieci anni il Cinema Palazzo ha rappresentato un luogo dove lo sport, la cultura e l’attrazione artistica sono stati alla portata di tutti e tutte. Il 25 novembre 2020 lo spazio è stato sgomberato, senza proposte alternative o soluzioni. Uno spazio in meno, dunque, mentre le amministrazioni pubbliche continuano ad alimentare il sistema dei privati, come unica modalità di gestione dello spazio pubblico.

C’è una soluzione?

Marc Augé definisce i nonluoghi in contrapposizione ai luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Li associa alle stazioni, ai supermercati e a tutti quei posti in cui il nostro spazio viene condiviso con altri esseri umani che hanno scopi pratici più che sociali. Cosa succede se questo avviene anche nei quartieri? Quando i luoghi di consumo lasciano spazio solo a chi può permetterselo? Potremmo riappropriarci degli spazi pubblici attraverso la progettazione urbanistica?

Ne ho parlato con Piero Rovigatti, ingegnere civile, dottore di ricerca in Pianificazione Territoriale ed Urbana, professore associato di Urbanistica, presso l’Università di Chieti-Pescara.

«C’è stata questa grande occasione in cui di fatto siamo stati tutti a casa, in cui lo spazio pubblico  è stato annullato, così come la mobilità, a causa dei terribili mesi del Covid-19 e del lockdown. Subito dopo, anche sulla traccia dell’idea che lo spazio pubblico era un luogo da preferire, perché più salubre, poiché nei locali al chiuso era più facile ammalarsi è stato messo al centro dell’attenzione di molte amministrazioni. Per esempio, l’amministrazione di allora iniziò anche a realizzare piste ciclabili. Ma poi non se ne è fatto più nulla».

Quindi, chiedo cosa si potrebbe fare per migliorare la fruibilità degli spazi pubblici e, di conseguenza, la qualità della vita e la socialità degli abitanti del quartiere: «La soluzione più semplice sarebbe pedonalizzare tutte le strade. Ma sappiamo che è un’utopia. Bisognerebbe iniziare a pensare che le macchine sono intruse. Un ottimo punto da cui partire sarebbero le scuole. Le “strade scolastiche” sono un’invenzione sperimentale nata nelle capitali europee, come ad esempio a Barcellona con il progetto “Protegim les escoles”, che prevede la pedonalizzazione delle strade davanti alle scuole, e ha avuto un grande successo. Queste azioni sono state molto spesso accompagnate da processi partecipativi con gli abitanti del quartiere, con la comunità abitante. L’elemento comune è proprio questo: cominciare a liberare lo spazio dalle automobili».

Quindi, mi chiedo, proprio come è sacra la piazza davanti una chiesa, non dovrebbe esserla in egual modo quella davanti i beni comuni urbani e i luoghi di educazione? Ed è proprio quello che sostiene Paolo Pileri quando parla di “sagrato scolastico”, ovvero l’idea che «Lo spazio pubblico, sia esso aperto o costruito, ha un ruolo chiave nel formare i cittadini di domani». E a mantenere sani di mente quelli di oggi, aggiungerei.

Ma più cammino per il quartiere e più mi rendo conto di quanto le automobili siano parte integrante della città, e che tutto è plasmato per loro. Quindi chiedo al professore come potrebbe essere decostruita l’abitudine del mezzo di spostamento privato, senza forzare la mano o bloccare un’intera città: «Per chi amministra è molto complicato dare risposte immediate e le alternative risiedono nel trasporto pubblico, che però è sempre stato un elemento che non ha mai funzionato. Oggi c’è un grande squilibrio tra utilizzo del mezzo privato e quello pubblico».

Ma il punto non è questo. Potremmo focalizzarci erroneamente solo sull’automobile come problema, mentre è solo una conseguenza: «la domanda di mobilità deriva anche dal fatto che una persona si sposta per raggiungere un servizio o un bene. Chi vive al centro di Roma è privilegiato, e un aspetto difficile da risolvere attiene alla distribuzione dei servizi. Una città dove servizi, pubblici e privati, sono ben distribuiti, diventa una città molto più vivibile. E l’opzione di andare a piedi diventa un’opzione molto più vantaggiosa, in termini economici e di tempo».

Luci, periferia e criminalità: i cliché da smontare

Camminando a San Lorenzo di notte, come accade spesso anche in altre zone, avverto un senso di paura, mi guardo le spalle, accelero il passo. Certo, sono donna e non aiuta, ma la paura diffusa è che la molestia avvenga più facilmente al buio. Il timore comune è che il buio sia il male e basti illuminare a modo le strade per eludere la criminalità.

Come afferma Wolf  Bukowski nel suo testo “perché non si vedono più le stelle”: «la paura non è solo un’emozione individuale, ma un fatto sociale. Il binomio buio e criminalità è impresso nelle menti di tutti e tutte e rischia di spostare il focus dai numerosi problemi rappresentati dalla mancanza di uno spazio pubblico accessibile, inclusivo e sicuro. Bukowski cita anche un interessante studio del 2002 (Improved Street Lighting and Crime Prevention di David P. Farrington e Brandon C. Welsh, pubblicato su Justice Quarterly), che si interroga sull’eventualità che non sia proprio l’orgoglio di comunità, catalizzato e aumentato dalla nuova illuminazione, a far diminuire i crimini, piuttosto che l’illuminazione in sé. Infatti, in alcuni dei casi analizzati, i crimini diminuiscono sia di notte che di giorno; Bukowski sostiene: «se fosse solo una questione di luce nel buio dovrebbero diminuire solo quelli perpetrati nelle tenebre. E spiegherebbe anche perché i quartieri dotati di nuova illuminazione ma in qualche misura privi di una comunità stabile, come quelli oggetto di gentrificazione, massacrati da sfratti ed espulsioni, non ricevano significativo beneficio, in termini di riduzione dei crimini, dall’aumento dei lampioni».

Bukowski parla anche di “turistificazione”: «La turistificazione, per affermarsi, necessita di decoro, di sicurezza e di ipervisibilità, e tutte queste istanze hanno bisogno tanto dei led quanto delle telecamere che si affacciano dallo stesso palo».

Camminando di sera, infatti, noto grandi quantità di luce soprattutto nei vicoli carichi di ristoranti, per fare spazio a una immagine di “decoro” e controllo.

Spesso quando i media parlano di “degrado”, indicano residenti e studenti che passano il tempo in piazza la sera solo per il gusto di stare insieme, o per indicare i senza tetto che dormono sulle panchine, o ancora il fenomeno dello spaccio. La notte e il buio sono considerati quasi sempre la causa di questi mali, la luce è utilizzata per proteggersi da questi “crimini”.

E così, senza neanche rendercene conto, chi abita questi luoghi rinuncia al diritto allo spazio pubblico e si reca solo nelle zone “in luce”, dove si consuma. Le zone “buie” sono relegate alla desertificazione urbana e sociale.

Invece io penso alle persone che non hanno uno spazio dove aggregarsi, studiare, confrontarsi, in casi estremi anche abitare e mi viene naturale chiedermi come può crescere una persona che si sente ai margini dal momento in cui per lei lo sport, la cultura, lo svago, la casa, rappresentano un lusso e non un diritto.

La mia visuale si sposta, la notte mi fa meno paura, mentre ciò che mi spaventa è il mio futuro in mano alle istituzioni attuali.

Tutte le immagini di Sara Santoleri