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MATANGI / MAYA / M.I.A

È stato presentato alla Berlinale nella sezione Panorama MATANGI / MAYA / M.I.A il film documentario di Steve Loveridge dedicato alla celebre rapper e cantante anglo-cingalese. Non solo un riuscito biopic ma anche una splendida riflessione sull’immaginario globalizzato dei migranti di seconda generazione

A pensarci bene, in effetti, era quasi strano che un film su M.I.A. non fosse ancora stato fatto: la cantante e rapper anglo-cingalese è impensabile senza la sua parte visiva, senza il suo stile, il suo modo di vestirsi, i suoi video e il suo gusto per le grafiche nei dischi. M.I.A. la si deve vedere prima ancora che sentire. E questo in effetti è quello che succede in questo bellissimo documentario che a lei è stato dedicato dal regista Steve Loveridge e che è stato presentato nella sezione Panorama della Berlinale.

Il documentario musicale è un genere solitamente parecchio scivoloso: quelli cinematograficamente rilevanti delle ultime due o tre decadi si contano sulle dita di un mano e questo per due ordini di motivi praticamente impossibili da aggirare. Innanzitutto perché nel 90% dei casi si tratti di lavori fatti su commissione dagli stessi artisti (che devono consentire all’utilizzo della propria immagine) e dai loro produttori, ed è quindi inevitabile, a seconda del grado di consapevolezza artistica degli interessati, che si finisca più dalle parti di un prodotto da ufficio stampa che di un vero e proprio film. E poi per la musica, che spesso è più un supporto a uno storytelling in prima persona e all’abuso della forma delle “teste parlanti” e che non viene mai valorizzata se non per brevi snippet. Il risultato è che si vedono artisti, critici o diretti interessati che “parlano” della propria carriera e che ricordano i tempi d’oro, senza lasciare quasi mai che le immagini o le loro canzoni parlino per loro.

MATANGI / MAYA / M.I.A. in questo senso riesce parzialmente a distanziarsi da questa usuratissima formula. Non tanto per la musica – della quale purtroppo sentiamo poco o niente per intero nei quasi 100 minuti di film – ma per il fatto che le immagini che vediamo scorrere sono per lo più girate dalla stessa M.I.A. durante gli anni della sua vita. Una delle prime cose che veniamo a sapere infatti è che M.I.A. prima ancora di diventare una musicista è stata un’artista visiva. O almeno questo è quello per cui ha studiato al St. Martin’s College di Londra negli anni Novanta, un’accademia d’arte di cui lei ha seguito le lezioni di film e video. Prima ancora di imparare a smanettare con i beat di un Roland MC-505 Maya Arulpragasam (questo è il suo vero nome) si portava in giro una telecamera digitale. E questo è quello che letteralmente fa struttura portante a tutta la prima parte del film dove a farla da padrone sono le immagini girate in famiglia, con gli amici, e persino quelle del 2001 dove M.I.A. ritorna per un po’ di tempo in Sri Lanka a “riscoprire”, se così si può dire, la sua identità culturale e politica.

Perché anche se lei durante il film si definisce una first generation immigrant è chiaro come questo film parli invece in modo incredibilmente efficace dell’immaginario di un migrante di seconda generazione. Cresciuta di fatto a Londra (ha vissuto in Sri Lanka solo fino a 9 anni), M.I.A. è da sempre visibilmente intrisa di cultura urban e di quel mix hip-hop, club culture e periferie londinesi che da sempre ha formato il suo immaginario. Come spesso accade in questi casi si tratta di una posizione soggettiva molto complessa: da un lato si è di fatto lasciato il proprio luogo natale molto presto e se ne è perso il contatto reale quasi completamente (un cugino a un certo punto glielo rinfaccia anche “tu di questo posto non conosci nulla direttamente”), dall’altro nel proprio paese – cioè in questo caso l’Inghilterra – si assume inevitabilmente l’identità dell’immigrato. La realtà è che da questo film emerge una M.I.A. completamente “globale”, in cui la sua cultura è di fatto un patchwork di hip-hop di Brooklyn e black culture caraibica, Wu-Tang Clan e Frantz Fanon, cinema americano e musica giamaicana. È difficile non vedere in una che ha costruito la propria carriera artistica tra gli anni Novanta e il primo lustro dei Duemila l’influenza decisiva della rete, come si evince chiaramente quando vediamo intervistato il rapper anglo-nigeriano di Londra Afrikan Boy che ammette di essere stato contattato da M.I.A. tramite MySpace (nonostante fossero nella stessa città).

La questione dell’identità Tamil di M.I.A. – uno dei temi sul quale il film si concentra di più – è particolarmente interessante perchè è più che altro il frutto di una rimediazione consapevole e adulta che non la scoperta di una presunta cultura originaria. A tutto questo si aggiunge anche il complesso rapporto con il padre, che è uno dei fondatori del gruppo armato delle Tigri Tamil e che abbandona la famiglia molto presto per ritornare in Inghilterra come rifugiato quando Maya è ormai già grande. La riscoperta della militanza delle Tigri Tamil avviene dunque in un momento molto difficile, non solo per le ripercussioni sul rapporto con il padre, ma anche perché l’escalation del conflitto bellico in Sri Lanka mette M.I.A. di fronte alle contraddizioni di dover giustificare il proprio supporto alla causa Tamil in un momento in cui l’organizzazione fondata da suo padre inizia a essere considerata in tutto il mondo come terroristica.

Il grande pregio di questo film è però soprattutto quello di essere stato fatto non da un professionista del cinema chiamato a doc per “raccontare una storia”, ma da un compagno di scuola con cui l’artista anglo-cingalese aveva condiviso parte della sua vita già a partire dagli anni Novanta. Questo rende non soltanto la scelta del materiale estremamente intima e lo sguardo autenticamente interno (soprattutto durante le parti più controverse e difficili della sua carriera, come quando durante il superbowl l’NFL chiede a M.I.A. 16 millioni di dollari di danni per aver mostrato il dito medio in mondovisione quando venne ospitata durante l’half-time show di Madonna) ma anche l’intreccio stesso del film estremamente singolare. Il problema fondamentale di M.I.A. è stato infatti sempre quello della costruzione artistica della propria identità e della propria immagine, più che della sua scoperta in qualche giungla asiatica o periferia londinese. Non è forse un caso che il film sia letteralmente pieno di immagini – per altro di un fascino davvero magnetico – di lei che balla da sola di fronte a un telecamera in casa: a Londra, in Sri Lanka, a Los Angeles o in chissà quale altro luogo del mondo. Come se l’immagine di se stessa, costantemente ricercata e ricostruita, fosse davvero l’oggetto della sua carriera. E forse anche la vera questione attorno alla quale prende corpo anche la sua domanda soggettiva.