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OPINIONI

Martina Testa: «Nel “caso” Gorman la traduzione non è il problema»

«Le polemiche in Italia mancano il bersaglio», ci dice la traduttrice ed editor di Edizioni Sur. «Bisogna guardare ai meccanismi che governano l’industria culturale»

Amanda Gorman ha letto la poesia The Hill We Climb in occasione della cerimonia di insediamento di Joe Biden, ricevendo una grande visibilità. Sono in uscita in lingua inglese due libri contenenti la poesia, uno ad aprile e uno dopo l’estate, e in lavorazione traduzioni in mezzo mondo. In seguito a polemiche, due di queste traduzioni (quella olandese e quella catalana) hanno cambiato traducente in corso d’opera, ufficialmente perché non erano le persone giuste. In particolare, erano bianchi che traducevano una giovane scrittrice nera.

Con le consuete e dozzinali semplificazioni, in Italia si è gridato allo scandalo per il presunto tentativo di impedire a traduttori e traduttrici bianche di tradurre autori e autrici nere: «Questo è un modo per sviare», ci dice Martina Testa, una delle più importanti traduttrici italiane e editor di Edizioni Sur, che abbiamo raggiunto al telefono, «nessuno lo ha detto, nessuno lo sostiene, non c’è pericolo, che i bianchi possano tradurre i neri e viceversa non è mai stato messo in discussione. Magari qualcuno lo ha fatto, ma chi lo ha fatto è scemo. È come prendere in considerazione il terrapiattismo». Di cosa parliamo allora e perché va ben al di là del caso specifico di due traduzioni in lingue europee di una scrittrice statunitense?

 

Pensi che questo dibattito si svolga al di fuori del testo in sé e abbia più a che fare con il mercato editoriale?

Sì, penso che in questo caso non ci sia un problema di oggettiva difficoltà linguistica, non mi pare ci siano dei gerghi particolari, o uno straniamento della lingua, viceversa è un testo privo di ambiguità, di polisemia, molto semplice da leggere e di facile comprensione. Non è insomma alta letteratura, ma un testo presentato in un’occasione pubblica e ufficiale in supporto di un leader politico, con una retorica piuttosto elementare, come in fondo è normale che sia in quel contesto (non voglio chiamarla “poesia di regime”, ma non è neanche una voce sovversiva che speaks truth to power).

La pubblicazione quindi non è un’operazione letteraria, coraggiosa, avanguardistica, è sostanzialmente un’operazione commerciale. The Hill We Climb ha avuto un’improvvisa risonanza data l’occasione, il nome della poetessa si è diffuso, e negli Stati Uniti il suo libro si annuncia come un best seller. Su queste premesse si è messa in moto l’editoria newyorkese e la sua agenzia. Rispetto a questo tipo di merce il mercato editoriale italiano è totalmente permeabile. È difficile che un libro che negli Stati Uniti si presenta come un grosso successo commerciale qua in Italia non venga recepito.

In questo caso, l’agenzia vendeva un pacchetto di tre titoli: The Hill We Climb, da pubblicare singolarmente, e in più una raccolta che la comprendeva e un libro illustrato; e pare che ci sia stata un’asta rapidissima sulla base di un partial manuscript (gli editori non hanno ricevuto in lettura tutta la raccolta). Io in questo tipo di acquisizioni vedo una forma di sudditanza dell’editoria italiana a quella statunitense. Che è sempre più concentrata in cinque colossi editoriali (anzi adesso quattro perché Simon & Schuster è stato comprato da Penguin) tutti con sede a New York, tutti che seguono le stesse linee editoriali tanto che è difficile distinguerle, e questi fanno il mercato internazionale.

 

(foto: ActuaLitté da Flickr)

 

 

Mi chiedo se ci sia anche un lato positivo in questo, cioè l’apertura e l’arrivo di voci diverse che non siano solo maschi bianchi, o se arrivano così inquinate e già depotenziate…

Ma certo che vengono depotenziate queste voci! Depotenziate da un sistema editoriale che è ormai solo industriale. Lo scrivere romanzi è diventato un mestiere che ha una sua trafila. Quasi nulla si pubblica se tu non sei uscito da un MFA (Master of Fine Arts), cioè un corso universitario di scrittura creativa – la stragrande maggioranza degli esordienti americani escono da questi corsi. C’è già una selezione in partenza visto che solo alcune persone possono permetterseli. È un ambiente laboratoriale. Niente di male a imparare a scrivere con una tecnica, però oggettivamente se la produzione che arriva alla pubblicazione nasce tutta e solo in ambiente laboratoriale un po’ si standardizza.

Si ha un feedback costante da parte di un gruppo di altre persone, il che è utile, però può anche limitare gli aspetti più idiosincratici, estremi, della scrittura; e soprattutto è un ambiente strutturalmente competitivo, perché alla fine dell’MFA tutti cercheranno di guadagnarsi una rappresentanza con un agente letterario possibilmente newyorkese possibilmente rinomato e fico il quale a sua volta dovrà far avere un contratto con una casa editrice, possibilmente una major di un grosso gruppo che darà un grossissimo anticipo e via dicendo. Questa trafila (MFA, agenzia letteraria per lo più newyorkese, casa editrice per lo più major), è un cursus honorum ormai istituzionalizzato. Ovviamente esiste ancora l’editoria indipendente – e ce ne è – però il percorso mainstream più importante prevede queste tappe.

Se la produzione avviene all’interno di un sistema così rigido e definito, di base c’è il rischio che il tutto sia meno originale, ci sia meno devianza, e quindi anche se ci sono voci provenienti da culture e comunità diverse nella scrittura, sulla pagina, non mi sembra di riscontrare una reale vivacità di invenzione linguistica, di trama, di immagini. E poi, come faceva notare anche Zadie Smith in un lungo saggio uscito sulla “New York Review of Books” e che ho poi tradotto per “Internazionale” (Mi affascina presumere, n. 1335, 29 novembre-5 dicembre 2019), la letteratura sembra sempre meno letteratura di invenzione e sempre più testimonianza del sé. Sembra che vada molto un tipo di libro in cui la storia narrata è molto molto vicina al vissuto dall’autore, e in quanto vicina a questo vissuto viene ritenuta autentica e quindi valida.

 

Però questo succede perché ci sono voci che per tanto tempo non hanno parlato…

Sì, ma se si accodano tutte per essere pubblicate da Penguin Random House siamo punto a capo. In molti esordi recenti c’è dietro il portato di un mondo, di una comunità, di un territorio, che è diverso da quello che abbiamo visto raccontato cento volte (come New York, o il Far West) insomma sentiamo raccontata una parte finora marginale degli Stati Uniti. Però se questa narrativa viene costruita con l’equilibrio formale di una serie televisiva non ci si sente dentro la vera forza innovativa di una tradizione letteraria diversa. Sono romanzi che funzionano nel contesto del mercato editoriale/culturale statunitense mainstream; romanzi selezionati da e per quel mercato. Ben vengano esperienze diverse e via dicendo, ma se lo sbocco è sempre l’editoria newyorkese temo che il modo di raccontare tenda a rimanere quello.

 

Insomma, c’è qualcuno che poi compra e vende un certo modo di raccontare le cose…

Esatto. I mezzi di produzione, o quantomeno di distribuzione, sono nelle mani di pochissimi.

 

Zadie Smith (foto di Francesca Leonardi da Flickr)

 

 

A me pare questo il cuore del discorso. Invece in Italia il dibattito si è spostato su un’altra questione (e un’altra mezza), e cioè una levata di scudi sulla questione di quanto sia assurdo che una persona bianca non possa tradurre una nera. Probabilmente nessuna delle persone che ha commentato ha chiaro il mercato editoriale olandese o catalano. La questione della qualità delle poesie di Gorman pure mi pare secondaria, mi sembra più importante parlare di come arrivano le opere…

L’idea “i bianchi non possono tradurre i neri” non vorrei proprio ammetterla nel mio campo di dibattito; non solo perché la considero irricevibile nel suo significato generalmente percepito, ma anche perché a ben pensarci non ho chiarissimo di cosa parliamo quando parliamo di “bianchi” e di “neri”, e se non ho chiari i termini della questione preferisco non addentrarmici.

Invece sì, appunto, il modo in cui arrivano le cose alla pubblicazione negli Stati Uniti è una questione basilare. Non ci vedo poi niente di strano nel fatto che Amanda Gorman diventi un best seller negli Stati Uniti, anche se The Hill We Climb è un testo letterariamente così poco complesso; non capisco invece perché tutto il mondo debba leggere le poesie di Gorman (che si riferiscono alla sua cultura, al suo paese) come se lei fosse la voce nera, dei neri del mondo. Il fatto che una voce afroamericana in Italia o forse anche in Europa venga considerata una voce “nera” è un atto di sudditanza culturale grave nei confronti degli Stati Uniti.

Amanda Gorman non parla necessariamente a tutte le persone di pelle nera del mondo. A una persona che nasce e muore nell’Africa occidentale non interessa quello che Amanda Gorman dice davanti a Biden. Gorman non parla a nome di tutti i neri, ma qua arriva come la rappresentate di tutti. Tutto quello che arriva dall’America non viene contestualizzato come succederebbe se venisse che ne so dalla Corea. Sembra che sia generale e per tutti. Ne è passato di tempo dal Piano Marshall, ma mi pare che l’editoria e la cultura italiana siano più dipendenti che mai dagli Stati Uniti.

Figuriamoci, non me ne tiro fuori: io come editor sono specializzata in letteratura angloamericana e importo materiale culturale dagli Stati Uniti, ma cerco di farlo sempre con un grande occhio critico. Questo tipo di clima culturale fatto dei safe space, dei sensitivity readers, per cui ogni minoranza o ogni gruppo che si definisca robustamente come tale ha diritto a essere rispettato e non offeso, o questa attitudine generalizzata a vedere il conflitto come abuso…

Queste tendenze intellettuali non sono tendenze dello spirito umano, così, in astratto, ma sono tendenze che si stanno sviluppando in un determinato posto in un determinato tempo e non è un caso che certe tendenze nascano al tempo del neoliberismo e del capitalismo della sorveglianza nelle università degli Stati Uniti che non hanno un sistema educativo nazionale (e dove spesso gli studenti si indebitano).

In Usa non c’è stato sociale, è un paese strutturalmente diverso in cui l’individuo ha meno garanzie e tutele, una società individualistica che ha alla base uno stato di precarietà e dove il singolo è più abituato a pensare per sé e a difendersi da solo e anche un paese che ha una tradizione meno lunga di dibattito politico e culturale: cioè per tutta una serie di motivi i “pischelli woke” esistono in America e non in Gambia. Ma non è che perché esistono negli Stati Uniti allora devono esistere anche qua! È una società diversa.

 

(foto di Eric Wagner da Flickr)

 

 

Però le risposte sono sbagliate ma le domande giuste. Occorre trovare un modo per includere, per ascoltare voci diverse, non lasciare il campo solo a maschi bianchi. Perché in Italia mi pare che spesso non si voglia guardare alle domande, uscirsene con cose assurde come “ma come si può impedire a una persona bianca di tradurre una non-bianca!”, punto fine della storia…

Certo che c’è un problema di disuguaglianza radicale, che però va affrontata innanzitutto su altri piani, quello economico, quello dei diritti. E poi certo, c’è anche il piano della rappresentanza e della visibilità. (Di base era quello il tipo di domanda che facevano le attiviste nere olandesi rispetto al libro di Amanda Gorman: chiedevano visibilità, non c’entrava la traduttologia; perché l’oggetto in questione è un prodotto commerciale, molto prima che un’opera letteraria.) E su quel piano certo che l’editoria può e deve lavorare; e non semplicemente in termini di numero di autori di colore pubblicati, ma anche nel modo in cui li pubblica.

Ti faccio un esempio. La nostra edizione de La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead, è, a quanto ho potuto googlare (ma sarei felice di essere smentita!), l’unica al mondo che ha in copertina una faccia di donna nera. Perché, anche se è un libro che ha al centro lo strazio anche fisico di una donna nera, madri nere, schiavi, corpi neri martoriati, la copertina con cui il libro è girato in tutto il mondo è una copertina rossa con i binarietti della ferrovia, che a me, abbi pazienza, fa pensare a un libro sui trenini. Della scelta di Sur alcuni librai si sono lamentati; avrebbe venduto di più con la copertina internazionale?

Forse, ma io alla nostra copertina tengo molto, la rivendico. Anche Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo: se vedi l’edizione Penguin c’è una donna con un turbante in testa, che sembra una donna africana. È un modo di presentare il libro che a me appare esotizzante, agli occhi dei lettori bianchi. Siccome invece è un libro che parla di Inghilterra, nell’edizione Sur abbiamo scelto di mettere una donna dal look occidentale con la pelle nera, un’immagine che colleghi il corpo di colore più all’Europa che all’Africa. Anche questo vuol dire parlare di rappresentanza e visibilità. Mi sembrano operazioni culturali doverose.

 

Questo dibattito si è sviluppato soprattutto sui social. Ti pare su un mezzo del genere possano uscire discussioni serie o il rischio è comunque quello di perdersi?

No da lì non può uscire nessuna discussione seria perché quello che esce è un consolidarsi del potere economico di queste piattaforme che sono programmate apposta per creare caos cognitivo e diseguaglianza nella proprietà e nella diffusione della conoscenza, come sostiene Shoshana Zuboff. Qualunque cosa possiamo dire sui social, qualunque buona idea possiamo trasmettere, importa meno del fatto che il sistema è fallato in partenza. Io sono sicura che il poco che io possa scrivere da persona di sinistra sui social viene letto per il 95% da persone che la pensano come me, perché sono fatti apposta.

Il dibattito si fa, ma spesso è tra persone che si conoscono, è un parlare tra noi, non un parlare al paese. Io ci penso tanto se intervenire lì o altrove, ma mi pare che in questa fase non ci siano altri spazi per la discussione. Prima di parlare di qualunque cosa dovremmo parlare di questo: del fatto che non si può più fare discorso culturale, o discorso politico, sui social, dobbiamo trovare dei modi alternativi, o più realisticamente forse cambiare il contesto normativo che permette ai social network di funzionare in un certo modo (vedi il lavoro che sta facendo Francesca Bria nel campo dei diritti digitali). Quindi sì, i social sono un problema, forse il problema di chiunque faccia cultura o politica.

 

Immagine di copertina da commons.wikimedia.org