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Mamma, sono un ribelle

“Andrea Pazienza diceva che Freak Antoni era il più pazzo di tutti quelli che conosceva”

In tempi di parole gettate con facilità nei social network, l’aggettivo “geniale” e la patente di “genio” vengono consumati, spesi con troppa leggerezza. Ma non c’è dubbio che Roberto “Freak” Antoni fosse un genio, uno di quelli che nascono una volta ogni tanto. Andrea Pazienza diceva che Freak Antoni era il più pazzo di tutti quelli che conosceva. Probabilmente sta in quella vena di pazzia, mista a molta più intelligenza di quanto mostrasse ad uno sguardo superficiale, il genio di questo artista che più di ogni altri è riuscito a mettere insieme la carica anglosassone del punk (in Italia non abbiamo avuto i Sex Pistols, ma gli Skiantos degli inizi furono altrettanto destabilizzanti), la vena creativa delle controculture che sfociarono nel laboratorio conflittuale del Dams bolognese (si era laureato con tesi sul linguaggio “amore-cuore” delle canzoni di Sanremo) e le parole taglienti dei movimenti degli anni Settanta (che incrociò, derise e cui sopravvisse).

Il solo ascolto di “MonoTono”, primo e insuperato album dei suoi Skiantos è sufficiente a comprendere la portata culturale di Freak Antoni, la sua grandezza amplificata dalla irresistibile nonchalance. Solo i grandi possono evitare di prendersi (troppo) sul serio. Il disco si apriva col celebre fiume di parole nella neolingua brufolosa e tossicheggiante che costituiva una dichiarazione d’origine ma anche una solenne presa per il culo delle nicchie giovanilistiche, di quelle masse in cerca di un vate che di lì a poco avrebbero affollato gli stati per applaudire Vasco Rossi. Gli Skiantos avevano davvero il fegato spappolato ma erano tutt’altro che accomodanti: salirono sul palco con una cucina da campo e invece di suonare si cucinarono un piatto di pasta davanti al pubblico inferocito. Senza considerare il potentissimo uno-due assestato alle retoriche rivoluzionarie con pezzi come “Io Sono un Autonomo” e “Mamma, sono un ribelle”.

Vale la pena di rileggerlo tutto, il cut-up che apriva quello che può considerarsi un concept album, un viaggio allucinato nell’Italia di quelli che hanno appena scoperto che la rivoluzione è rinviata a data da destinarsi:

«Ma che cazzo me ne frega! Genere ragazzi genere! Ehi sbarbo smolla la biga che slumiamo la tele. Sei fatto duro, sei fatto come un copertone. Ci facciamo? Sbarbi sono in para dura! Ok, ok nessun problema ragazzi, nessun problema! Sbarbi sono in para dura. Schiodiamoci, schiodiamoci. C’hai della merda? Ma che viaggio ti fai?! C’hai una banana gigantesca. Oh c’hai della merda o no? Un caccolo! Ma che viaggio ti fai? Intrippato. Brutta storia ragazzi, brutta storia. C’ho delle storie ragazzi, c’ho delle storie pese! C’hai delle sbarbe a mano? No c’ho delle storie, fatti questo slego».

Poi parte il primo pezzo, “Eptadone”, che comincia prendendosi gioco anche dell’ultima ondata punk: i Ramones puntellavano le loro esibizioni col bassista Dee Dee che urlava “1-2-3-4”, gli Skiantos cominciavano la loro tirata demenziale con Freak Antoni che batteva il tempo sgangherato “1-2-6-9” e inanellava rime, appunto, geniali che culminavano nel verso che – come un quadro di Schifano o un riff discorde dei Talking Heads – apre mondi e sconvolge anche il senso poco comune dell’anomalo “pubblico di merda” del gruppo:

“Le massaie fan la coda

per comprare la mia broda”.

Il riferimento sbrindellato, tutt’altro che rispettoso, al punk-rock era ancora più palese nella traccia successiva, “Panka Rock”:

“Se tu bruci una banca

il direttore poi si sbianca

gli dai in testa anche una panca

e vedrai che poi la pianta”

La puntina scivola fino alla celeberrima “Largo all’avanguardia” (“pubblico di merda”) e ai coretti di “Ehi ehi ma che piedi che c’hai” (“Dal calzolaio tu ci andrai/ le scarpe giuste troverai/ ma risuolarle poi dovrai”). Si tratta di prendere le rime idiote della canzone italica, quella dei juke box e di Sanremo, e portarle nelle situazioni anonime della vita quotidiana, per palesarne l’inconsistenza, metterle a nudo. Vale la pena di ripescare un album misconosciuto, side-project di Freak senza Skiantos: in quell’occasione prese il nome di “Beppe Starnazza” e coverizzò i classici dello swing italiano, toccando le vette di Fred Buscaglione.

L’assalto alle convenzioni di ogni genere musicale sarebbe proseguito nel secondo disco degli Skiantos, “Kinotto”, i cui episodi centrale sono canzoni che. come “Heroin” del mostro sacro Lou Reed, raccontano la dipendenza da una merce: i “Gelati” (“I gelati sono buoni/ ma costano milioni”) e “Kinotto”, (“Un chinotto ogni due ore/ è un gran viaggio da signore”). Di droghe, peraltro, Freak Antoni se ne intendeva, tanto che nel 1994 avrebbe scritto un serissimo testo per i tipi di Feltrinelli “Per sopravvivere alla tossicodipendenza: manuale di prevenzione”. Tre anni prima, Antoni aveva dato alle stampe “Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti (seguirà dibattito)”, sublime raccolta di scemenze e trovate poetiche che anticipava la degenerazione dei libri comici e degli “stupidari”.

Proprio in quanto nemico della seriosità, Freak Antoni ha maneggiato le armi dell’ironia e della provocazione con grandissima serietà. Non ha mai ceduto alla tentazione di trasformarsi in un guru decadente, anche agli occhi delle generazioni successive è rimasto un fratello minore di cui prendersi cura, il pazzo che mostrava il culo dal finestrino ai passanti raccontato da Pazienza e ti guardava con occhi spiritati. Dall’alto di questa attitudine, in una delle sue ultime interviste, ragionava sulla triste figura di Giovanni Lindo Ferretti: “Hai messo su un’impresa artistica, facendo una critica ironica di un certo tipo di massimalismo, senza aver capito che dietro al comunismo c’è una visione particolare – disse a Rolling Stone – Non si è mai confrontato con la lotta di classe? Non ha mai cercato di capire cosa significa il socialismo? Ferretti è un simulatore affascinato dalle parole d’ordine”. Non amava neanche Elio delle Storie tese, col quale non mancò di duettare, probabilmente infastidito dalla volontà del milanese di scrollarsi di dosso l’etichetta di “demenziale” per agire su più livelli artistici.

Se ne è andato a 59 anni, realizzando in senso più profondo la profezia rock’n’roll degli Who (“Spero di morire prima di diventare vecchio”): non diventò mai il monumento di se stesso o il rancoroso ex. Freak Antoni ci mancherà. E il modo migliore di ricordarlo sarebbe lanciare l’assalto psichico al festival di Sanremo di Fazio&Litizzetto.