EUROPA

Make it in Europe

Riflessioni sullo spazio europeo dei conflitti verso il vertice dell’11 luglio a Torino. READ THE ENGLISH VERSION

La scala è gettata: nessuna nostalgia sovranista, nessun ritorno alle vecchie patrie e all’identità nazionale. Questo possiamo dire di fronte al risultato delle elezioni europee e del suo elettorato volatile almeno quanto lo sono i mercati finanziari, che ci hanno consegnato l’avanzata dell’estrema destra e dei partiti nazionalisti nei Paesi occidentali ma anche, e soprattutto, il nascere di interessanti esperienze della sinistra nei paesi del sud: pensiamo a Syriza in Grecia o Podemos in Spagna.

È in questo scenario che si deve prendere posizione contro l’Unione Europea della governance neoliberale, fondata sulla privatizzazione dei servizi pubblici, delle istituzioni del welfare state e lo stretto controllo della mobilità della forza lavoro. È in questo stesso scenario che il parlamento europeo dovrà fare i conti con una crisi economica che ha favorito una torsione decisionista delle istituzioni europee e globali, laddove la dittatura della Troika ha imposto non solo piani di risanamento, ma veri e propri governi politici in alcuni paesi europei. Se la speculazione finanziaria sull’euro oggi sembra placata, questo è dovuto non tanto a una regolamentazione dei mercati finanziari, quanto perché le stesse istituzioni rappresentative liberali sono state sacrificate in nome del profitto.

Dobbiamo quindi batterci per un ritorno della centralità dei parlamenti nazionali come unici luoghi della rappresentanza dei cittadini, in un momento in cui lo stesso nesso di rappresentanza è in crisi? Crediamo di no, sebbene nell’era della governance neoliberale e della dittatura commissaria, gli stati-nazione non scompaiano, ma rimangono in campo; è semmai il senso stesso dello spazio nazionale che si è trasformato, e il nesso tra territorio, confini e sovranità non esiste più come siamo stati abituati a conoscerlo.

L’Europa non è una, ma sono molteplici istituzioni in conflitto tra loro e processi che si sovrappongono: l’eurozona, l’UE composta da 28 Stati, l’area Schegen, il Bologna process… Di cosa parliamo quando parliamo di Europa? Non si tratta della semplice sommatoria di regioni imbrigliate da poteri economici sovranazionali, o la composizione di aree egemoniche.

È semmai un territorio che non coincide con i suoi confini giuridici e che abita intimamente le sue frontiere. La crisi ha disposto nuove configurazioni regionali, molteplici forze d’interconnessione attraversate da una riorganizzazione spaziale e politica tra centro e periferia, tra sud e nord, tra est e ovest mostrando asimmetrie che si sono radicalizzati durante la crisi. A ciò si accompagna la moltiplicazione delle periferie e delle frontiere, tanto interne quanto esterne, oltre alla nuova centralità dei cosiddetti margini. Questo punto di vista impone la dirompente centralità dei confini orientali: non a caso Frontex, l’agenzia europea nata per coordinare il pattugliamento delle frontiere esterne aeree, marittime e terrestri degli Stati della UE ha il suo centro direzionale a Varsavia, in Polonia: avamposto nel nuovo blocco euroasiatico. L’Europa la si afferra osservandone le sue mutate coordinate e la radicale trasformazione spaziale: essa è uno spazio frastagliato e non omogeneo, caratterizzato dalla presenza di differenti regioni, corridoi di mobilità e una moltiplicazione dei confini, materiali e immateriali.

Se osserviamo le sue migrazioni interne, vediamo come sono cresciute in termini quantitativi e, al contempo, stiano mutando di segno. Ogni crisi, si potrebbe anche dire, è anticipata da fughe preventive, e seguita da vere e proprie ondate di partenze. Se negli ultimi dieci anni sono stati soprattutto i giovani studenti e laureati a sperimentare la mobilità in Europa, grazie ai programmi Erasmus e Leonardo, a loro oggi si affiancano giovani con competenze spendibili su molti mercati del lavoro: si tratta di una mobilità inedita, legata non più al contesto universitario, bensì alla formazione e qualifica professionale. La stessa Germania ha già attivato diversi programmi di reclutamento per offrire contratti di apprendistato e formazione professionale per i giovani che emigrano in cerca di lavoro. La sua economia è affamata di medici, infermieri, ingegneri, designer, informatici e ristoratori stranieri, disponibili a spostarsi dal sud e dall’est.

Il mercato europeo del lavoro giovanile, caratterizzato da alti tassi di disoccupazione e da una mobilità inter-regionale e continentale, si ridefinisce attraverso lo statuto e il ruolo dei saperi, dando vita a filtri e originali gerarchie sociali dagli effetti dirompenti. Si tratta di una mobilità selettiva per una forza lavoro giovanile che incarna saperi professionali chiave per l’economia dell’export e gli alti segmenti della valorizzazione capitalistica. Una mobilità legata a differenze geografiche, generazionali e di competenze professionali che denota un forte potere di stratificazione e gerarchizzazione della forza lavoro qualificata e giovanile, che pure si deve confrontare entro il mercato del lavoro globale. La qualità di queste migrazioni interne fanno intravedere un’Europa come potenza del lavoro cognitivo, lo stesso livello su cui è attaccata dai BRICS. In questo riposizionamento, la nuova divisione internazionale del lavoro non ha più una centralità e se c’è, è scongiurata per seguire lo sviluppo e la crescita economica nel nuovo blocco euroasiatico che si sta delineando.

L’Europa non è un unico centro e una sola periferia: è la moltiplicazione dei centri e delle periferie. È la posta in palio e il nostro terreno di conflitto, denso di contraddizioni a livello economico, politico e giuridico.

È dove partire per pensare l’organizzazione e lo sviluppo del movimento oggi. Come reinventare la soggettività militante e politica come terreno minimo di invenzione in questo contesto? L’Europa è la cifra minima dell’agire politico dove le lotte sociali si confrontano nello spazio mutato dello scenario globale. Questa regione continentale, con i nuovi mercati e le enclosure del neoliberalismo, è l’inaggirabile presente dell’organizzazione politica.

È in questo scenario che dobbiamo immaginare un processo organizzativo non solo tra sud e nord per ripercorrere un vecchio problema di discriminazione, classificazione e confinamento; occorre sperimentare un’organizzazione capace di stare all’altezza dei movimenti sociali del presente, della mobilità transnazionale della forza lavoro nel frastagliato territorio europeo. Dobbiamo allora intendere la relazione tra i paesi del sud e del nord, così come tra est e ovest, come un articolato insieme di vettori capaci di decentralizzare e dislocare, tanto a livello temporale che geografico, i rapporti di forza, le relazioni di asimmetria e le gerarchie che si affermano a livello globale. Si tratta di rompere la logica delle opposizioni e di scrivere uno spazio continuo tra le divisioni introdotte dalle politiche di Bruxelles, dalle decisioni di Francoforte e dai mercati.

Non c’è Europa possibile se non a partire dai precari, i disoccupati, i migranti, gli unici in grado di pensare e di innovare le categorie e i processi politici e organizzativi al di là dello spazio nazionale. Scriviamo questo documento a partire dall’empasse che le lotte vivono – in primis – in Italia, quando si richiudono nello spazio nazionale per resistere alle politiche di austerity e di rilancio della competitività. A tale livello non c’è resistenza, anche se forte e radicata, che sembra riuscire a rompere l’imposizione delle politiche neoliberali.

Il vertice europeo di Torino sulla disoccupazione giovanile, a cui diamo appuntamento, può essere l’occasione per verificare originali rapporti di forza. Al centro dell’incontro dei numeri uno dell’Ue il programma europeo Youth Guarantee, che verrà implementato a livello nazionale e locale, e che coinvolge tutti quei Paesi dove la disoccupazione giovanile è oltre il 25%.

Tirocini, apprendistato o formazione gratuiti entro quattro mesi dall’entrata in disoccupazione sono i suoi punti di forza. Detto in altre parole: politiche attive che offrono forza-lavoro sottopagata ma ben istruita alle imprese, e ancora soldi per gli enti di formazione gestiti nella maggior parte dei paesi in maniera poco trasparente, anche dai sindacati confederali.

Se il primo vertice europeo sulla disoccupazione giovanile che si è tenuto nel 2013 ha visto l’allora presidente francese neoeletto François Hollande promuovere ricette post-austerity, questo secondo sancisce la fine dell’asse franco-tedesco e vedrà senza dubbio protagonista il governo Renzi, grande vincitore delle elezioni europee, che in Italia ha lanciato un’offensiva senza eguali: riforma del mercato del lavoro, rilancio delle grandi opere, lotta alle occupazioni abitative e sociali.

Le giornate di contestazione che si stanno organizzando a luglio possono essere una grande occasione per sperimentare un metodo transnazionale: pubblico, non identitario e a rete, inclusivo ad altre città europee, capace di dotarsi degli strumenti per un discorso condiviso. Negli ultimi anni si sono aperti spazi inaspettati per i movimenti sociali a livello globale, e nel contesto europeo gli stessi movimenti hanno mostrato una buona capacità nell’indicare nelle politiche di austerity, nella banca centrale e nella la Troika un nemico comune. L’11 luglio 2014 è un appuntamento importante, un passaggio per affermare un programma che ci porti a Francoforte nell’autunno e che ci faccia stringere, nei prossimi mesi ancora, più solidi legami con i gruppi e le realtà organizzate nell’Europa continentale, così come del sud e dell’est.

L’Europa della crisi è il campo dove sperimentare strategie e forme di organizzazione dentro i regimi di accumulazione, sviluppo e gestione differenziale della forza lavoro, del debito così come delle garanzie sociali e dell’accesso al welfare.