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L’orizzonte spettatoriale. “Teatro contemporaneo 1989-2019” di Valentina Valentini

Come si è trasformato il teatro italiano negli ultimi quarant’anni? Con questa domanda il libro di Valentina Valentini “Teatro contemporaneo 1989-2019” (Carocci 2020) esplora il passaggio dal teatro tradizionale e sperimentale alla nascita delle arti performative sotto il segno del “politeismo” delle forme artistiche e del regime di una nuova spettatorialità

Lo spettatore è sotto assedio. Trascinato all’interno di dispositivi della messa in scena sempre più complessi e spietati, strattonato per una miriade di formati e generi, il suo sguardo non è più sovrano, i suoi sensi sono attaccati da ogni lato: dalle incursioni sperimentali dentro realtà virtuali fino a spericolati ritorni verso i territori dell’artigianato, il nuovo teatro (o teatro contemporaneo) sembra reclamarne a sé lo scalpo, ne vuole mettere in discussione l’incolumità percettiva. È questo, forse, il dato che emerge in controluce da Teatro contemporaneo 1989-2019 di Valentina Valentini (Carocci editore), in cui la studiosa e ricercatrice di arti performative attiva all’Università “La Sapienza” di Roma si lancia nel difficile compito di effettuare una ricognizione degli ultimi quarant’anni di pratiche sceniche, per rinvenire possibili connessioni tra i diversi percorsi e tracciare alleanze inaspettate tra linguaggi anche distanti fra loro.

In questo senso il “1989” non rappresenta, evidentemente, un punto di partenza arbitrario, ma neanche – come molto spesso lo si ritrova trattato – un “anno-simbolo”. È, al contrario, un momento di snodo effettivo, una micro-esplosionestorica per cui tramontano definitivamente tutta una serie di modi precipuamente politici di “abitare” la scena, degli “stare” estetici che erano in tutto e per tutto, e direttamente, anche “etici”. Il teatro, al netto delle differenze dei diversi contesti socio-geografici, proverà da qui in avanti a dar conto di una tale rottura, a riannodare i fili di una unità, certo problematica, multiforme e non lineare, ma quasi universalmente percepita come perduta. Si tratta della crisi delle ideologie e, dunque, delle avanguardie, dell’eclissi di un’idea “forte” di regia (Strehler, Brooke, ecc.) così come dell’esaurimento di una forte tensione verso il superamento e lo smantellamento dei ruoli e delle gerarchie interne alla messa in scena, tra cui la regia stessa (Antonin Artaud, Carmelo Bene, ecc.)… in mezzo, per molte compagnie e molti artisti (in particolare attivi nel decennio dei ‘70, continuamente evocato nel libro di Valentini), la convinzione profonda che non ci fosse una vera e propria soluzione di continuità fra teatro e società, fra il dramma agito su di un palco e i gesti di contestazione e rivolta portati nel mondo.

 

Il tramonto del “secolo breve” costituisce dunque anche il tramonto di una tale convinzione. Proprio Valentini evidenzia nella premessa al libro come «le parole d’ordine considerate radicali abbiano perso la propria efficacia a fine Novecento, insieme con la perdita della speranza di poter trasformare il mondo». Similmente il teatro perde la speranza, da una parte, di potersi fare vettore di un cambiamento politico più ampio, dall’altra, di potersi trasformare esso stesso riformando o rivoluzionando i principi della rappresentazione. Ne deriva una messa in discussione meno intensa, ma forse – e paradossalmente –  più radicale, per cui invece della rappresentazione viene posto a critica lo statuto del teatro in quanto tale, il terreno stesso su cui si fonda la sua pratica. Per usare sempre le parole di Valentini: «Il fenomeno che chiamiamo “teatro” è diventato un temine anacronistico, sostituito nell’ultimo decennio con “arti performative” che, con dizione conciliante e leggera, oltre il teatro, convoca la performance, la danza e la musica».

Dizione “conciliante e leggera”, sotto la quale dunque si nascondono spesso operazioni deboli e puramente di facciata, ma che allo stesso tempo descrive oltre ogni ragionevole dubbio il campo d’azione scenico degli ultimi tempi. In questo senso, e con notevole arguzia critica, Valentini assume una sorta di atteggiamento “mimetico” nei confronti della fluidità contemporanea di generi e registri: invece che impostare la propria disamina in maniera gerarchica e strutturata, la studiosa adotta una prospettiva agile e orizzontale, tesa a connettere fra loro diversi aspetti più che a subordinare un evento all’altro. Basta dare una semplice occhiata all’indice, che non segue un andamento cronologico: «Questioni / Storie senza figure / Drammaturgie artistiche e politiche / Formati / Drammaturgie sonore», non si vuole fissare una scansione temporale convincente né mettere a fuoco particolari correnti estetiche e/o ideologiche. Piuttosto, si cerca di render conto della multidimensionalità degli approcci e delle tensioni, nonché di come questi ultimi si intreccino sotterraneamente.

 

Ecco allora che, tornando alla “data di svolta” del 1989 da cui prende avvio il libro stesso, il passaggio da teatro ad arti performative non costituisca per forza una resa nei confronti del presente, ma anzi un tentativo di posizionarsi ancora in “contro-tempo”. Se è vero – come afferma l’antropologo Piergiorgio Giacché – che «la globalizzazione, intesa come mercato, è il nuovo committente sociale» delle produzioni sceniche, spinte sempre più verso una natura liquida e conciliante, altrettanto vero è che, per indagare in maniera conflittuale i cambiamenti della modernità, occorre cambiare anche le forme della rappresentazione, le lenti e i dispositivi attraverso cui osserviamo la realtà. O meglio, considerare il fatto che quelle lenti e dispositivi, che prima potevano abbastanza tranquillamente segnare una cesura fra società espettacolo, risultano ora irrimediabilmente mescolati al quotidiano, ai normali ritmi della percezione. Il teatro diventa dunque arti performative, assume cioè uno statuto più vaporoso e indeterminato, sì per soddisfare delle esigenze di mercato e di “vendibilità” nella mutata situazione contemporanea, ma anche e soprattutto per stare con tutt’e due i piedi dentro tale situazione, per andare a coglierne i punti di discontinuità.

Anzi, verrebbe da dire che la ricerca di Valentina Valentini registri proprio un simile passaggio, per cui da un teatro che si “opponeva al mondo” si arriva a uno che invece prova ad abitarne le pieghe, a confondersi con le sotto-articolazioni di una società che è sempre più, appunto, mischiata allo spettacolo (e viceversa). La con-temporaneità delle attuali arti sceniche, dunque, risiede soprattutto nella sua com-presenza, nella simultaneità di linguaggi e formati. Annota l’autrice, sollevando anche alcuni interrogativi: «[…] le pratiche recenti manifestano un’attitudine semplificatrice della complessità, azzerando innanzitutto la dimensione temporale, la coesistenza di passato e presente dei processi culturali, erodendo i margini che differenziano e distinguono opera e documento, evento reale e spettacolo, passato e presente, originale e artefatto», posizionandosi «all’interno di un continuum percettivo». C’è, insomma, una sorta di “conflagrazione” di diverse tecniche, stili, tensioni verso pratiche e meccanismi di produzione comuni. Dopo il secolo novecentesco, in cui si sono prodotte esperienze fortemente radicate in un contesto e in un territorio precisi, talvolta delle vere e proprie “comunità” (si veda a questo proposito il fondamentale Registi pedagoghi e comunità teatrali nel Novecento di Fabrizio Cruciani), i nuovi percorsi sembrano andare più in una direzione di sincretismi e compenetrazioni, di affinità e somiglianze reciproche.

 

 

È, evidentemente, la conseguenza di un mondo in cui le differenze di immaginario si assottigliano e in cui le tradizioni artistiche si sviluppano più in orizzontale che in verticale. Eppure, è anche – in una certa misura – l’effetto dirompente di tutta una serie di nuove soggettività che “invadono” la scena e di nuovi margini che si fanno improvvisamente visibili. Da una parte, infatti, il teatro fa proprie tutta una serie di suggestioni teoriche e politiche “selvagge” e “decentrate”, dall’intercultura ai gender studies e ai queer studies, dalle nuove ondate del femminismo al pensiero decoloniale e postcoloniale: l’artista, cioè, si fa sempre di più etnografo e ricercatore sociale, mentre i performer portano sulla scena sempre più se stessi nel tentativo di scardinare i principi di soggettivazione e le norme di genere. Dall’altra, si fanno avanti nuove aree geografiche e nuovi centri di produzione teatrali (in particolare tutto il contesto post-sovietico e i paesi mediorientali) che hanno la forte esigenza di fare i conti con la propria storia e con la fase di transizione politica e simbolica che stanno attraversando.

In questo senso, Teatro contemporaneo 1989-2019 è davvero un’opera esaustiva: gli sviluppi relativi al nostro paese (dall’importanza della Societas Raffaello Sanzio fino alle più recenti esperienze di Roberto Latini o delle Albe, passando per le peculiari traiettorie di gruppi come Motus, Fanny&Alexander, CollettivO CineticO) vengono costantemente messi in parallelo con evoluzioni e figure attinenti ad altre zone (dal “teatro della realtà” di Milo Rau, Svizzera, o Lola Arias, Argentina, agli scavi fra personale e sociale di Rabih Mroué, Libano, oppure alle incursioni diacroniche di Eimuntas Nekrošius, Lituania), restituendo così i contorni di quello che comunque continua a essere un afflato collettivo, un discorso “a più voci e più teste” che ancora cerca di indagare le infinite possibilità di “universali simbolici”, di un idiolettocomune. «Se Dio è morto, che vivano molti dei», si dice, e dunque se è scaduta la credibilità delle grandi narrazioni e si è esaurita la fede in ideali (politici) trascendenti, ecco che un senso del fare teatro in un contesto siffatto potrebbe essere proprio quel politeismo che lo studioso e docente teatrale Claudio Meldolesi indicava come “l’oltre” delle avanguardie («Il politeismo non significa solo: esistono vari tipi di teatri; significa: il teatro è la compresenza di vari tipi di teatri, ognuno dei quali poggia su una mentalità diversa») e che, in un certo senso, è anche la naturale conseguenza di quel “passaggio di stato” da teatro ad arti performative che abbiamo assunto come punto di partenza.

E qui si arriva dunque a una delle caratteristiche più preziose dell’indagine di Valentini: Teatro contemporaneo 1989-2019 non è una rassegna, non è un semplice resoconto cronologico né un’analisi teorica, ma è forse la tangibile constatazione – per via giustappositiva e comparatistica – che i diversi stili e i diversi linguaggi, i diversi percorsi del presente delle arti sceniche sono leggibili solo all’interno di un quadro più ampio, solo in quanto (e appunto) contemporanei ad altri stili, linguaggi, percorsi. Molto più che nel periodo precedente, in cui le differenti linee teatrali erano spesso dirette e precipue espressioni di contesti circoscritti, gli spettacoli d’oggi – anche se provenienti da aree del mondo distanti, anche se messi in scena con formati agli antipodi –  si chiamano allora l’un l’altro in causa e assumono senso soprattutto se considerati come interconnessi. Le polifonie e le drammaturgie sonore di scuola italiana (Chiara Guidi, Ermanna Montanari, Roberto Latini, etc.) nascono dalle medesime inquietudini che conducono invece altri soggetti verso la smaterializzazione e la decostruzione del corpo performativo (i “coming out” di Jérôme Bel, Silvia Calderoni, etc.), così come i rituali partecipativi à la Roger Bernat riecheggiano la tensione di tanto teatro dell’est a portare sul palco l’attualità più calda e scottante (Il processo di Krystian Lupa, per esempio)…

Tornando alle battute iniziali, si capisce perciò come lo spettatore si trovi “sotto assedio”. Egli è il medium privilegiato attraverso cui una tale interconnessione può avvenire, il suo sguardo – se non è direttamente compartecipe della creazione stessa delle opere – certo contribuisce a definirne il senso di una maniera forse più attiva che in passato, definitivamente più politica. In altre parole, il campo di battaglia del “nuovo teatro” non è tanto propugnare ideali rivoluzionari oppure convincere “i cuori e le menti”, bensì esplorare il potenziale di una diversa spettatorialità, di un regime dell’attenzione diverso da quello imposto dai ritmi (neo-)capitalistici: «[…] situare il dissenso all’interno delle strutture culturali», dice Valentini a un certo punto del libro. Esautorata la regia, decostruito l’attore e scomposta la linearità drammaturgica, a essere entrata in crisi è dunque la dimensione della fruizione tout court, il principio della visione: per usare la formula di Jacques Rancière, l’orizzonte di lotta è quello per uno “spettatore emancipato”, in cui il teatro possa essere rito di rottura, gioco finalmente liberatorio.