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OPINIONI

Contro l’economia di guerra. Europa la nostra chance

Solo un’Europa federalista e democratica, non più subalterna agli Stati Uniti e alla NATO, può fermare la catastrofe. La frattura europea va abitata, promossa, organizzata. In particolare, ma non solo ovviamente, in Italia. Come farlo? Combattendo l’economia di guerra, rendendola impossibile per la governance tecnocratica. E lavorando affinché una forza federalista europea conquisti la scena

I massacri e gli stupri erano annunciati, la guerra è fatta di massacri e di stupri. Non serve ripetere l’elenco, ma di «bombe intelligenti» che hanno colpito mercati e ambasciate, negli ultimi trenta anni, ce ne sono state tante; quasi tutte in nome dell’Occidente, della libertà, dell’umanità. Ricordare Belgrado (1999), non significa voltare la faccia dall’altra parte rispetto all’inferno di Buča. Vuol dire invece condannare la barbarie della guerra, a maggior ragione perché i massacri e gli stupri erano prevedibili, già due mesi fa, prima che la guerra iniziasse. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Europa sapevano, continuare a indugiare sulla presunta pazzia di Putin è solo un modo, abusato, di prendere in giro la gente. Come lo è continuare a nascondere l’indiscutibile partecipazione occidentale alla nuova guerra europea; che al momento siano solo le armi e le sanzioni a combatterla, che la carne da macello la mettano gli ucraini, rende la nostra posizione semplicemente più infame.

Dall’inizio dell’invasione russa e dei combattimenti, non smetto di pensare che solo un’Europa federalista e democratica, non più subalterna agli Stati Uniti e alla NATO, possa fermare la catastrofe. Ma penso anche che, proprio ciò che potrebbe salvare, sia il bersaglio privilegiato di Putin e di Biden.

È impossibile avere dubbi sulla politica neoimperialistica di Putin, come lo è averne sulla decisione di Biden di non fare nulla, anzi, di fare tutto il possibile, affinché la catastrofe divampasse. Se sulle vere intenzioni del secondo qualcuno aveva dei dubbi, il discorso di Varsavia ha messo le cose in chiaro, in modo inequivocabile e una volta per tutte. Del primo, abbiamo compreso ascoltando il lungo discorso “storico” che ha anticipato l’avvio dell’invasione. Entrambi, pur non dicendolo, stanno colpendo (forse a morte) l’Europa. Questo non solo perché nessuno può escludere, giunti a questo punto, un “incidente” che imponga l’intervento diretto della NATO. Il problema è che la risposta europea, al momento, è irrilevante dal punto di vista diplomatico, scomposta da quello militare, pericolosa da quello politico, drammatica da quello economico.

(da commons.wikimedia.org)

Che le bombe raggiungano o meno l’Europa, sappiamo già che, al decennio di crisi finanziaria e dei debiti sovrani, approfondita dallo shock pandemico ancora in corso, si sta accompagnando una nuova recessione. Attenzione, però: se un decennio fa la recessione avveniva con i prezzi sotto controllo, mentre i debiti pubblici schizzavano in alto perché si decise di salvare le banche e la speculazione, ora la crisi si ripresenta dopo due anni di «strozzatura» delle catene globali del valore, con l’inflazione che galoppa, dopo un trentennio di moderazione salariale. La miscela prepara sommosse. È evidente infatti che le risorse disposte dal Next Generation EU sono già insufficienti, a maggior ragione perché gli Stati europei, in ordine sparso, stanno aumentando le spese militari. Inutile girarci attorno, armare l’Ucraina vuol dire partecipare alla guerra, il riarmo generalizzato che la guerra sarà lunga, dolorosa, globale. Oltre alle sommosse per salario e contro il carovita, auspicabili, si preparano anche nuove torsioni sovraniste e autoritarie in Europa, di più e peggio degli scorsi anni.    

Sono tre, in particolare, le questioni sulle quali vale la pena appuntare l’attenzione. In sequenza: la crisi della democrazia; quella dell’impero, e la rinascita degli imperialismi; l’immaginazione dell’alternativa, delle forze necessarie per affermarla.  

Democrazia e liberalismo non sono la stessa cosa. Hobbes e Locke, in modi senz’altro diversi, erano liberali, ma non democratici. Democratico era Spinoza, ma la democrazia esplode con i levellers e i diggers, durante la prima Rivoluzione inglese e quando per la prima volta cadde la testa di un re (Carlo I, 1649); con i sanculotti a Parigi, a partire dal 1792, con la Costituzione (mai applicata) del 1793. Ma sono il 1848 e la Comune del 1871 a presentare, per un verso, la democrazia operaia contro il liberalismo borghese, per l’altro, la «democrazia espansiva» come «autogoverno dei produttori». Per esser chiari, lo Stato liberale italiano, alla fine dell’Ottocento, bombardava gli operai in sciopero; quello americano, contro gli scioperi di massa organizzati dagli IWW, rispondeva con fucilazioni e sindacalisti impalati in pubblica piazza.

Il liberalismo incontra la democrazia, in America e in Europa, solo perché, durante la Prima guerra mondiale, operai e contadini russi trasformano, con l’energico sostegno dei bolscevichi, la guerra imperialista in guerra civile contro lo Zar, il governo provvisorio, la borghesia.

Ma ci vorrà anche la Grande Depressione del 1929, con la disoccupazione alle stelle, i poveri che muoiono in strada, a imporre al capitalismo una riforma in senso socialista, con investimenti pubblici, pianificazione, «scava buche e poi riempile». E ci vorrà la fine della Seconda guerra mondiale, con cinquanta milioni di morti di cui venti russi, per affermare la democrazia in Europa; la vittoria di Mao e dei comunisti in Cina, per strappare milioni di cinesi all’indigenza. Dopo il 1968, però, cambia tutto, le lotte rendono la democrazia troppo esigente, con le sue «aspettative crescenti» (Huntington): la svolta monetarista, in America e dopo la sconfitta in Vietnam, è in primo luogo reazione liberale contro la democrazia. Non stupisce allora che i massimi consiglieri di Putin indichino nella «democrazia sovrana» un’alternativa al liberalismo tecnocratico d’Occidente: il secondo parla di «spinta gentile», i primi di democrazia «gestita», in modo diverso entrambi odiano la democrazia insorgente, espansiva, dei molti, quella del Sessantotto.

(da commons.wikimedia.org)

Con tanti altri, ho passato anni a difendere il concetto di ‘impero’ proposto da Negri e Hardt. Il problema che i due pensano, dal punto di vista politico, e a partire dalla singolare congiuntura degli anni Novanta, è il «mercato mondiale». Decisivo tema marxiano che i marxisti, ovviamente, non ricordano.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, per un decennio gli Stati Uniti hanno tentato di costruire l’impero, ovvero la forma politica mista del mercato mondiale. Ci sono riusciti? No. A partire dall’11 settembre del 2001, dopo Genova e con la crisi della New Economy, la crisi egemonica americana, già esplosa negli anni Settanta, si approfondisce.

Una crisi che passa da una guerra di destabilizzazione all’altra (Afghanistan, Iraq, Libia, Siria). In questo quadro, la vocazione della Russia di Putin non è imperiale, ma imperialista, perché imperniata sul nazionalismo, sul culto della sovranità statuale, sul decisionismo à la Schmitt. Europa e Cina, in questo quadro, hanno in parte espresso e potrebbero esprimere una differenza: multilateralismo, governance della globalizzazione. L’Europa, nonostante tutto più democratica della Cina, è una differenza nella differenza. L’Europa, e un certo multilateralismo cinese, sono i bersagli privilegiati della guerra in Ucraina.

Comprendo il desiderio, di molti compagni e amici, di smarcarsi dagli slogan soliti, di stare dalla parte della popolazione che soffre e di chi resiste. Il problema è il seguente, però: possiamo ripetere oggi, ciò che facemmo in Palestina nel 2002 (farci forza di interposizione)? Io penso di no. Senza giudicare chi, in Ucraina, decide di resistere, penso che sia nostro compito occuparci di ciò che noi possiamo fare qui, in Italia, in Europa, adesso. Grazie al Papa e alla Germania, l’Europa non è la Polonia o la Gran Bretagna.

Il nazionalista Zelensky lo ha capito bene e si comporta di conseguenza. La frattura europea va abitata, promossa, organizzata. In particolare, ma non solo ovviamente, in Italia. Come farlo? In due modi. In primo luogo combattendo l’economia di guerra, rendendola impossibile per la governance tecnocratica. Se non lo facciamo noi, saranno le destre sovraniste a farlo. Aumenti salariali, no ai razionamenti energetici e al riarmo, subito investimenti per il welfare. In secondo lavorando affinché una forza federalista europea conquisti la scena. Federalista, antiliberista, femminista, antirazzista, ecologista. Bastano i movimenti sociali? No. Sono fondamentali ma non bastano. La forza in questione dovrà essere anche politica, combattere nei parlamenti nazionali e in quello europeo.

Nel caos che genera, la guerra produce anche ordine. Fa il lavoro inverso rispetto a quello indicato allora da Lenin: neutralizza la lotta di classe, la converte in violenza fratricida, scontro di civiltà, barbarie. Rendere economicamente insostenibile la guerra, in Italia e in Europa, significa battersi contro la guerra e per la pace.

Immagine di copertina da crimethinc

Articolo pubblicato originariamente sull’edizione de “Il Riformista” del 19/4/2022