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L’Italia verso il mondiale

La nazionale di calcio femminile continua a vincere, nonostante i pregiudizi sessisti

L’Italia non disputerà il mondiale 2018 di calcio che si svolgerà in Russia. Abbiamo visto e rivisto lo sceneggiato andato in onda per giorni: le lacrime di Buffon; l’interpretazione del labiale di De Rossi prima dell’ingresso in campo; la sventurata faccia dell’ormai ex tecnico Ventura; le dimissioni di Tavecchio; il finto processo al ‘sistema calcio’, messo in atto perché tutto cambi rimanendo uguale. Intanto, nel disinteresse e lontano dai riflettori, è andato avanti il percorso di qualificazione ai giochi mondiali della squadra femminile.

Un gruppo che ha faticato non poco per arrivare a questo punto e che dopo la vittoria in Portogallo è alla testa del proprio gruppo a punteggio pieno. Sembra di rivedere il miracolo che l’allenatrice Milena Bertolini aveva già compiuto quando, nel 2016, mentre nessuna squadra maschile arrivava ai quarti di finale di Champions (cosa che non succedeva da 15 anni), il suo Brescia C.F. sbarcava tra le migliori otto squadre femminili di calcio a undici in Europa, per venire sconfitto dalle blasonate giocatrici del Wolfsburg.

Ma perché parlare di miracolo? Intanto perché le azzurre mancavano dal mondiale dal 1999 e sembra ci siano tutti i presupposti per ritornare a disputarlo. Poi, perché la situazione del calcio femminile in Italia – in miglioramento negli ultimi anni con club maschili che poco a poco iniziano a creare delle squadre di ragazze e bambine, ma ancora lungi dall’essere vagamente accettabile – è complicata sotto il profilo economico e culturale, e di conseguenza tecnico.

Il calcio a undici, per le ragazze, è molto disincentivato dalle stesse scuole calcio, perché si riescono a trovare più sponsor (comunque scarsi) con il calcio a 5, partendo forse dal pregiudizio che il calcio tradizionale giocato da donne sia più noioso, anche se di solito, soprattutto per chi apprezza la tecnica, risulta godibilissimo. Così calciatrici di serie A titolari possono arrivare a guadagnare al massimo 1.500 euro al mese e ragazze che vogliano giocare preferiscono il calcetto per poter giovare almeno di rimborsi spese e pagamento delle trasferte.

Le professioniste, peraltro, vivono la situazione paradossale di non essere riconosciute dalla legge: secondo il legislatore (e qui l’articolo maschile è d’obbligo) “sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi e i preparatori atletici che esercitano lattività sportiva a titolo oneroso, con carattere di continuità nellambito delle discipline regolamentate dal Coni e che conseguono la qualificazione dalle Federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle Federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal Coni per la distinzioni dellattività dilettantistica da quella professionistica” (l.91 del 23 maggio 19811, articolo 2). Ovvero in sei discipline sportive, che ad oggi sono rimaste solo quattro: il calcio, il golf, il basket (solo nella categoria A1) e il ciclismo. Tutte e solo nel settore maschile.

Al di là delle questioni meramente economiche, il problema è anche di tutele sul lavoro, problema che per altro si presenta per numerosi sportivi, compresi i calciatori maschi a fine carriera. Le calciatrici che arrivano ai più alti livelli della carriera sono quindi persone che hanno compiuto sacrifici enormi sotto il profilo lavorativo per numerosi anni, spesso senza nemmeno poter aspirare a uno stipendio. Non proprio una prospettiva allettante.

Il calcio femminile non viene sponsorizzato anche perché non sembra interessare i media. Per fare un esempio macroscopico e rimanere in tema: le qualificazioni ai mondiali sono andate in onda solo sullo streaming della pagina facebook della FIGC, alle 18 di martedì 28 novembre. Per non parlare del fatto che proprio la sfera pubblica sportiva, e chi la rappresenta, non sembra proprio voler ammettere nel proprio mondo una calciatrice: basta ricordare le dichiarazioni di Felice Belloli ex-presidente della Lega Nazionale Dilettanti (che si occupa di tutte le squadre femminili, ma che a tutt’oggi non vede donne ricoprire ruoli apicali) che quando rivestiva tale carica disse che a “quattro lesbiche” non era bene dare ulteriori soldi. (Nulla togliendo al fatto che, anche qualora fossero veramente quattro lesbiche, non ci sarebbe alcun motivo per non assicurarne la possibilità di giocare, allenarsi e migliorare tecnicamente).

Miracoloso, dunque, che il calcio femminile riesca a crescere, e che si riescano a raggiungere dei risultati di livello, grazie a tecniche e tecnici appassionati, grazie alla caparbietà delle atlete, nell’indifferenza quasi generale. Risultati che sono anche individuali: delle calciatrici, sempre più numerose a perseguire con determinazione un sogno, delle allenatrici e degli allenatori che le seguono. Parlando di allenatrici è proprio la ct della azzurre Milena Bertolini una delle due donne abilitate per allenare una squadra di serie A maschile (l’altra è Carolina Morace). Ma siamo sicuri che a una donna in panchina a dare ordine a giocatori maschi la massima divisione non sia ancora pronta. Alle parole dell’ex terzina che ora siede sulla panchina delle azzurre, affidiamo la conclusione di questo breve excursus sullo stato di salute del calcio femminile in Italia, che vive nel paradosso di ottenere buoni risultati, senza che nessuno neanche se ne accorga. E la colpa, come spiega l’allenatrice, è soprattutto di un pregiudizio sessista: «Siamo indietro di 10 o 15 anni rispetto alle europee. Per una questione soprattutto culturale e non è un caso se i paesi dove il calcio femminile è più sviluppato sono gli stessi dove la parità di genere è ormai un assunto. In Italia il calcio è maschio e resistono fortissimi alcuni archetipi e un pensiero primordiale: le donne non sono fatte per il pallone. Nel calcio femminile il pregiudizio sessista è uno dei più resistenti di tutti. Anche se le cose stanno un po’ cambiando (…). La riforma Tavecchio prova ad aumentare numeri e qualità. La Juventus ha ora una propria squadra di donne: è un messaggio importante dal punto di vista mediatico. Investire sui vivai ed educare i maschi a giocare accanto alle femmine è pedagogico: saranno adulti migliori, che considereranno le calciatrici una cosa normale. E maschi che rispettano le donne. I cambiamenti culturali sono lenti, anche se dobbiamo togliercelo di dosso come alibi: la Spagna che ci somiglia come tradizioni, ha investito molto in promozione e sviluppo del settore femminile. E se ne vedono i frutti».