Lezioni di clandestinità

Una riflessione su La mia classe, l’ultimo film di Daniele Gaglianone.

Prossime proiezioni martedì 17 @ Cinema Farnese (Piazza Campo dè Fiori)

La mia classe… È la prima parte di un’asserzione che può essere seguita da giudizi di valore, considerazioni banali, dichiarazioni di intenti. È un frammento che rivela anche una debolezza: la classe è mia, m’appartiene o forse la vivo come tale, dimensione intima dalla quale non riesco a separami. Chiunque faccia o abbia fatto l’insegnante, a qualunque livello, l’avrà pronunciata almeno una volta nella sua vita. Con alcune differenze: dentro l’istituzione scolastica ufficiale la mia classe avrà sempre una destinazione certa. Fuori dall’istituzione, dentro i luoghi nei quali si creano classi per scelte individuali, aggregazioni o movimenti spontanei, il percorso si fa frastagliato, non necessariamente destinato ad arrivare da qualche parte.

Le scuole di italiano per migranti e le classi che nascono all’interno di un centro sociale appartengono a questa seconda categoria. Qui dentro i progressi sono lentissimi, difficili e sempre sorprendenti perché gli obiettivi mutano a seconda delle esigenze di coloro che apprendono. E queste, fuori dai programmi ministeriali, parlano di vite vissute, dolori atroci, speranze e fottutissimi desideri insondabili. L’insegnante, che non sta più in cattedra, o cammina in strada insieme al gruppo oppure serve a poco. La mia classe continua a farmi domande alle quali non so rispondere: la mia classe è meticcia, non parla la lingua ufficiale, confonde il maschile con il femminile, muove il corpo per aggiungere significato lì dove le parole ufficiali non bastano. La mia classe sta modificando la mia lingua, lo strumento con cui fino a ieri ho determinato la realtà. E lo fa sfacciatamente perché ne ha bisogno. E se non afferro subito, il problema è anche mio.

La mia classe è anche il titolo dell’ultimo film di Daniele Gaglianone. È stato presentato alla Mostra del cinema di Venezia 2013, Giornata degli Autori, e proiettato al cinema Farnese, in prima nazionale, sabato 14 settembre. Racconta il rapporto tra un insegnante, Valerio Mastandrea, e i suoi studenti, un gruppo di migranti. Le vicende si svolgono dentro una scuola: il corso è pomeridiano, come tanti corsi fatti in tanti istituti di Roma, l’obiettivo probabilmente l’attestato finale, magari il raggiungimento di un livello linguistico stabilito: un A2 che serve a conquistare un pezzo di cittadinanza. La storia doveva essere lineare, rispettosa dei canoni del racconto cinematografico, divertire, emozionare, soddisfare lo spettatore. Ma qualcosa non è andato per il verso giusto. La mia classe è diventato un metafilm, un racconto che svela i meccanismi che lo producono, le difficoltà di realizzazione, i dubbi di chi recita e di chi riprende.

La rottura del piano della fiction, “lo strappo nel cielo di carta”, è arrivato con un permesso di soggiorno scaduto, un attore che doveva abbandonare il cast, una piccola significante moltitudine che si fa domande, mette in crisi il regista, si ribella. Il film è diventato una scommessa giocata per necessità, ma che, infrangendo la sospensione di credulità che ci concediamo ogni volta che entriamo al cinema, ci ha colpito al cuore più forte e meglio di quanto avrebbe fatto fingendo. Il pathos di cui doveva caricarsi la storia, tra tecniche narrative e scelte di ripresa, ha lasciato il posto alla risata spontanea e al dramma documentato. Bello e inaspettato. Ma questo vuol dire anche che la catarsi è venuta meno: quel processo di liberazione tanto ambito e ricercato parte ma singhiozza, si blocca a metà e non si risolve: dentro, a te che guardi, ti lascia il magone. È una bolla di emozione con cui fai i conti alla fine della proiezione e se ti mette in crisi ha fatto il suo dovere. Le istituzioni ti accolgono male, ti formano, ti giudicano: alla fine del percorso o stai dentro o stai fuori. Ne La mia classe al contrario si viaggia insieme e quando qualcuno scivola fuori il brivido che attraversa le schiena è uguale per tutti. Anche per colui che insegna. Nascono i dubbi e il racconto si carica di esigenze. Esigenze politiche.

Chi scrive ha fatto una scelta: insegnare l’italiano ai viaggiatori obbligati, non nel contesto ampio e variegato del volontariato, ma all’interno di un centro sociale. Qui le nostre classi non sono più un banale servizio di assistenza, ma un percorso di crescita individuale e collettiva, lungo il quale si affronta lo sviluppo di un modello nuovo e critico di cittadinanza. È una dimensione politica che non ha una destinazione precisa, ma si definisce giorno per giorno con grande fatica. Se la troupe del film non avesse visitato i nostri luoghi, cercando i personaggi e gli spunti del racconto, non sarebbe incappata nel problema. Avrebbero fatto lo stesso un film, ma senza che la realtà arrivasse irruenta ad alterare gli equilibri. Il gioco a cui avrebbero partecipato avrebbe avuto un altro peso, un altro senso. Magari sarebbe stata pura fiction. E invece il prodotto finale è frutto di un inaspettato processo di contaminazione o magari di imbastardimento. Questa è un’evoluzione che non si governa, si vive: negli spazi occupati e nei loro luoghi di cultura, nel cinema che accetta la sfida di raccontare senza i manuali, nei quotidiani processi di liberazione, nelle parole. Dentro la mia classe la lingua è spuria, continuamente corrotta dall’esigenza di dire. Questo è un film da vedere e un luogo da frequentare.