approfondimenti

EUROPA

L’Europa tra dazi e liberal-fascisti

Quale rapporto tra la guerra commerciale, onda reazionaria europea e rilancio bellico? Una prima lettura geoeconomica delle elezioni UE e dei possibili scenari futuri sul complesso scacchiere internazionale

Colpisce che il primo atto della Commissione europea uscente, a pochi giorni dalle elezioni, preveda l’aumento del 38% dei dazi nei confronti delle auto elettriche cinesi. Erano già al 10%, arriveranno dunque fino al 48%. Provvedimento fortemente voluto dall’Italia e dalla Francia, avversato duramente dalla Germania, ma anche da Stellantis. Aumento che segue la scia americana: in maggio, Biden li ha portati al 100%, nel segno della “distensione” del fronte indopacifico. Del regime di guerra, è la sua articolazione commerciale; che si somma a quelle militare, ideologica (la propaganda dello scontro di civiltà), monetaria e alla nuova politica industriale statunitense, caratterizzata da sostanziosi sussidi federali (l’Inflation Reduction Act, di 369 miliardi di dollari; il Chips Act, del valore complessivo di 53 miliardi di dollari).

È probabile che i dazi spingano alcuni colossi cinesi, tra cui Byd e Chery, ad assemblare in Europa, come in passato accadde con le giapponesi Nissan e Toyota. Probabile. Assai più probabile che i veicoli elettrici salgano di prezzo (studi autorevoli calcolano aumenti almeno di 10.000 euro per veicolo), rendendo impraticabili, di fatto, gli obiettivi climatici dell’Unione.

La domanda da farsi allora è la seguente: sono ancora condivisi, nell’Unione, gli obiettivi climatici (stop, dal 2035, alla vendita di auto a benzina e diesel)? Evidentemente no, lo dimostra il rafforzamento delle destre più o meno fasciste, in Francia, in Germania, ma anche in Italia ovviamente

Il Green Deal, senza dubbio, sarà il primo scalpo della maggioranza Ursula allargata: ai Verdi senz’altro, in caduta libera e quindi marginali; ai Conservatori di Meloni, con buona probabilità. Non stupisce, allora, che Meloni abbia messo sul piatto delle trattative per il secondo mandato di Von der Leyen, non soltanto la Vicepresidenza della Commissione, ma anche l’agricoltura, per consolidare sul piano della governance le istanze più “negazioniste” del movimento dei trattori (in parte, già accolte dalla Commissione negli scorsi mesi).

Il protezionismo europeo, paciosamente definito reshoring, dovrà però vedersela con problemi non banali: in primo luogo, l’approvvigionamento delle materie prime cosiddette critiche, nonostante gli sforzi europei, non può che passare per la Cina; così le forniture, per esempio, di batterie agli ioni di litio e delle celle a combustibile a idrogeno; in secondo luogo, si tratterebbe di rinunciare a impianti costosi ed efficienti costruiti nel tempo nel Sud della Cina; in ultimo, ma non per importanza, il costo del lavoro. Se il reshoring diventa derisking (riduzione, sul piano economico, dei rischi di natura strategica), e il problema delle vetture elettriche cinesi ha a che fare con la raccolta di dati e informazioni che genera preoccupazione per la sicurezza (secondo il leit motiv americano), nulla cambia per la debolezza europea dal punto di vista della capacità produttiva: «il nastro della globalizzazione non si riavvolge», in un giorno.

Ciò vale in particolare per la Germania, locomotiva ferma della manifattura e dell’economia continentale. Colpita, per un verso, dal bombardamento ucraino di Nord Stream 2, in generale dall’interruzione del gas russo a basso costo per le sue industrie; per l’altro, dall’accelerazione protezionistica anticinese, prima americana e ora della stessa Commissione

Scholz paga colpe antiche. Appena si è insediato, nel corso di una drammatica seduta al Bundestag, ha dovuto subito prendere atto che la Germania era dinanzi a una nuova Zeitenwende, un vero e proprio mutamento di fase storica, così dirompente da mettere in discussione radicate convinzioni geopolitiche e geoeconomiche che avevano guidato l’intera classe dirigente tedesca – dalla tragedia della Seconda guerra mondiale fino alla caduta del muro e alla riunificazione – nel segno della Ostpolitik, ovvero del rapporto diplomatico ed economico con la Russia. Come se non bastasse, Scholz, emanazione ultima del partito di Schröder, quello di Harz IV e di Gazprom, si è trovato a pagare, avendone responsabilità dirette, il prezzo di una politica condotta nel verso della precarizzazione del mercato del lavoro e della complicità con Putin e i suoi oligarchi. Il crollo dell’attuale Cancelliere tedesco va letto alla luce della disastrosa deriva della SPD, indubbiamente.

Non si possono in alcun modo sottovalutare, però, altri due aspetti: il rilancio in forze del riarmo, con industrie belliche tedesche in passato colluse con il Kaiser e Hitler che fanno affari senza sosta – la Rheinmetall, in particolare, dal gennaio del 2022 al febbraio del 2024 ha aumentato la capitalizzazione del 394%; l’impennata senza fine dei costi energetici per la manifattura teutonica

Il primo aspetto, fa della SPD assieme ai Grünen forze politiche guerrafondaie, non più attraenti per un elettorato di sinistra che pure, in Germania, ancora guarda di buon occhio alla follia dell’invio di armi all’Ucraina. Il secondo aspetto, invece, potrebbe stare alla base del successo di AfD (Alternative für Deutschland): senz’altro il voto dell’Est impoverito e rancoroso, ma anche, ed esplicitamente, l’anti-atlantismo della borghesia tedesca che si risveglia fascista, nostalgica addirittura delle SS.

Ma d’altronde, aggiungiamo: non è Bolloré (Vivendi), il magnate della comunicazione, che prova a unire Le Pen e gollisti in Francia? E non sono Elon Musk e buona parte dei protagonisti di Big Tech a gonfiare le vele elettorali di Trump? Gli «sconfitti della globalizzazione», nelle province impoverite d’Occidente, secernono razzismo e fascismo di ultima generazione, vero. Ma una montagna di denaro sostiene leader e partiti reazionari, propaganda social virale e incessante, politiche feroci contro welfare e diritti. È in Europa, però, che si profila il rischio maggiore: da una parte, la guerra commerciale anticinese dei tecnocrati filoatlantici; dall’altra, l’antiamericanismo schiettamente neofascista. Giorgia Meloni ambisce a federare le due opzioni della borghesia europea, candidandosi a fare da ponte tra Von der Leyen e Le Pen. Le elezioni francesi prima, quelle americane poi, senz’altro renderanno il quadro più chiaro; con buona probabilità, ancora più catastrofico.

La foto in copertina è di Nick Humphries su Flickr


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