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OPINIONI

L’estinzione come orizzonte. Intervista a Franco “Bifo” Berardi

«La modernità, particolarmente la cultura capitalistica e in sommo grado quella neo-liberale, comporta un’idea di illimitatezza della libertà. La potenza viene concepita come funzione della libertà. Ma non è vero che la potenza si manifesta nello spazio della libertà. È vero il contrario: la libertà si manifesta nello spazio della potenza». Una conversazione a partire dal concetto di “psicodeflazione”

La prima volta che ti abbiamo sentito parlare di estinzione era in un cinema, nel novembre 2019, al termine di Passion – Beetwen Revolt and Resignation, lungometraggio di Christian Labhart. Sul volantino del Torino Film Festival c’era scritto: «in questo periodo connotato dall’attesa della catastrofe e angosciato dall’urgenza di evitarla TFFdoc ha deciso di concedersi il tempo di fermarsi a contemplare ciò che abbiamo intorno, di godere del piacere dello stare nel mondo». Quella sera ci hai spiegato come la volontà umana sia divenuta del tutto impotente e come fosse giunto il momento per l’umanità di riconoscere l’estinzione come un orizzonte probabile.

E ancora ci ponevi la domanda – straziante – su come fosse possibile una vita felice all’interno di questo orizzonte. Tra il pubblico un tizio sui quarantacinque, si arrabbiò parecchio, gesticolando provò in ogni modo ad opporsi: «io ho moglie, figli, gli amici, non mi voglio estinguere! Ma come fate a stare così tranquilli?!». Non è passato nemmeno un anno e in quella catastrofe ci siamo trovati tutti, noi, tu e il signore arrabbiato. E tutti, chi più chi meno, facciamo i conti con la nostra impotenza. Il futuro non è più una dimensione programmabile, razionale, condivisibile. Comincia a svolgersi “magicamente”, come direbbe Sartre.

Nel tuo ultimo libro Fenomenologia della fine descrivi il presente come l’attraversamento – dalla durata imprecisata – di una soglia, in cui cominciamo a scorgere un orizzonte esistenziale diverso ed entriamo nella “era dell’estinzione”. Aggiungiamo noi che, forse, in questa soglia alcuni c’erano da anni, soffocati da un’idea di futuro senza più futuro. C’era la moltitudine dei sofferenti, disagiati, malati mentali e altre forme di eretici che sono giunti alla crisi prima di altri. Che ne sarà delle ragioni del loro e del nostro soffrire? Verso quali frontiere dell’esistente si sposterà la lotta per la vita di cui si fa carico chi soffre? Come comprendere il disagio psichico di oggi e domani senza depotenziarne il portato politico è un tema verso cui hai sempre mostrato una rara sensibilità.

Con questo scambio vogliamo provare a gettare uno sguardo oltre la soglia, magari iniziare a compiere il suo attraversamento. Vogliamo immaginare la vita che ci aspetta al di là della catastrofe, perché, ci ricorda De Martino, «il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte».

 

Nel tuo libro parli della reazione al coronavirus come psicodeflazione: «Stanca di elaborare segnali troppo complessi, depressa dopo l’eccessiva sovreccitazione, umiliata dall’impotenza delle sue decisioni di fronte all’onnipotenza dell’automa tecnofinanziario, la mente ha abbassato la tensione». In maniera simile, Hartmut Rosa, in Accelerazione e alienazione (2015), parla della depressione come una decelerazione che protegge l’individuo dalla società dell’accelerazione. Che relazione c’è tra depressione e psicodeflazione? Pensi che la psicodeflazione possa arrivare a essere terapeutica?

In alcuni momenti mi capita di trovarmi di fronte all’alternativa tra ansia e depressione. Dovevo e volevo andare a Barcellona, a metà ottobre. Ma le restrizioni sanitarie stavano montando, di fronte al diffondersi del virus in Catalogna, e poi anche in Italia. Gli aerei da Bologna a Barcellona non esistono più, ce n’erano tre prima di febbraio. Andare a Barcellona voleva dire assumermi un carico di ansia, ma rinunciare significava espormi a una depressione da impotenza. Ho scelto di non partire, non so se ho fatto bene o male, ma ho deciso così. Ecco, la psico-deflazione è una scelta che l’inconscio compie in una situazione di intollerabile accumulazione dell’ansia. In questo senso la psicodeflazione ha carattere contemporaneamente depressivo (quindi patogeno) e anche rilassante, terapeutico. È il paradosso nel quale si trova l’inconscio collettivo nella soglia pandemica contemporanea. L’accelerazione costante cui il sistema nervoso è stato sottoposto nei decenni della globalizzazione digitale ha avuto un effetto ansiogeno, ha provocato quello che con un’espressione di Felix Guattari chiamerei “spasmo”. L’esplosione insurrezionale planetaria dell’autunno 2019, da Hong Kong a Santiago a Barcellona a Beirut a La Paz, ha avuto il carattere di una convulsione spastica a cui è seguito un collasso e un conseguente rallentamento, sgonfiamento della tensione. In questo senso si può parlare della scelta depressiva del sistema nervoso come di una terapia contro l’ansia. Tutta questa è una descrizione puramente metaforica, lo so, ma mi pare che descriva bene il processo a cui abbiamo assistito e assistiamo.

 

(da commons.wikimedia.org)

 

 

Un’altra categoria che sembra ri-emergere con forza è quella di noia, nel suo essere, almeno apparentemente, il contraltare dell’ansia, dell’iperstimolazione e del mutamento continuo. Qualche anno fa, il gruppo inglese dell’Institute of Precarious Consciousness scriveva che il successo della cultura neoliberista era da ricondurre proprio alla capacità di strumentalizzare e sistematizzare la critica alla noia, strappando questo obiettivo alle avanguardie rivoluzionarie dell’epoca. Non è però che l’abbia cancellata del tutto, e infatti Mark Fisher scriveva «no one is bored, everything is boring»…

Mi piace il riferimento alla noia. In effetti direi che l’epoca delle rivolte libertarie, diciamo l’epoca ’68 fu preceduta da un decennio in cui la noia predominava dolcemente nell’esistenza (e melanconicamente, anche se vuoi). La noia è la condizione in cui la realtà non coincide con l’estensione del desiderio. Desideriamo viaggi, esperienze, amori… e siamo chiusi nella stanzetta solitaria a leggere romanzi di Salgari o focosi proclami rivoluzionari. La generazione che emerse nel ’68 veniva da un lungo periodo di aspettative di un possibile che non si poteva sperimentare, esperire. Fin quando quel possibile esplose nella vita quotidiana come rivolta, come liberazione, come esperienza collettiva. Il ’68 contiene anche una critica della noia di cui il situazionismo è un’espressione. E in effetti il neoliberismo si inserisce proprio in questa domanda di esperienza. L’enorme allargamento dell’area dell’esperienza possibile che il capitalismo matura rende possibile è colonizzato dal culto del “just do it” che però è anche competizione, e alla fine ansia. L’attenzione è stata invasa da stimoli che provocano una sorta di sovraccarico.

 

Da una parte, quindi, non si regge alla piattezza esistenziale e alla noia di un corpo sociale a cui si non si chiede altro che lavoro e disciplina, dall’altra, però, non si regge all’iperstimolazione e si anela un blackout generale per poter rifiatare. La vita odierna sembra essere una perenne oscillazione tra noia ed ansia. In questa situazione come ci si può sintonizzare con ciò che emerge dal caos?

Il caos è in effetti la sproporzione tra intensificazione dello stimolo e capacità di esperienza nel tempo. Quanti segnali siamo in grado di elaborare? Quanto tempo abbiamo per l’elaborazione emotiva degli stimoli? Mi chiedete come sintonizzarsi con quel che emerge dal caos. Beh, sul piano personale ti dirò che la poesia per me è proprio questo tentativo del linguaggio di correre lungo la dinamica dell’accelerazione, di decodificare sensibilmente l’eccesso di senso che non riusciamo a decodificare razionalmente. Può questa funzione della poesia, del linguaggio che interpreta l’eccesso, funzionare come una terapia collettiva? Rispondo di sì, ma non sono sicuro di sapere esattamente cosa questo significa. Sto cercando di capire meglio cosa voglio dire…ma ci vuole tempo… E non so quanto tempo mi resta.

 

Cambiamo prospettiva. Il respiro è il punto d’incontro delle rivendicazioni dei movimenti contemporanei, da Black Lives Matter a Fridays for Future, passando perfino per i No Mask, quasi ad evidenziare la preoccupazione di chi sente il rischio di soffocare per colpa di una società tossica. Può essere che l’orizzonte condiviso di crescita e accumulazione infinite abbia cessato di dare ossigeno, al contrario tolga il fiato? Può deprimere? Che relazione c’è tra l’insostenibilità della vecchia idea di futuro e le patologie mentali che dilagano?

Il respiro e il soffocamento sono entrati nella percezione comune, e anche nel discorso comune, in questi ultimi tempi. Il soffocamento fisico provocato dall’inquinamento ambientale, o dal ginocchio di un razzista con la divisa di poliziotto. A me interessa, però, dire qualcosa sul soffocamento psichico, cioè sull’umiliazione. Umiliazione, forzoso ritorno alla terra, obbligo di abbassare la testa verso la terra. Non mi pare che l’umiliazione sia stata tematizzata dal pensiero critico, né dalla psicoanalisi, anche se da qualche parte Freud parla dell’umiliazione del padre cui lui dovette assistere nella sua infanzia. L’umiliazione cui viene sottoposto l’ebreo. Ma quello dell’umiliazione è un sentimento ambiguo. C’è l’umiliazione degli oppressi da parte dei loro oppressori (l’umiliazione degli armeni da parte dei turchi, che oggi si ripresenta, l’umiliazione dei neri da parte degli schiavisti, l’umiliazione degli ebrei da parte dei nazisti), ma c’è anche l’umiliazione degli oppressori da parte di forze più grandi di loro. L’umiliazione della Germania dopo il 1918, da cui germina il nazismo (Keynes lo aveva previsto nel suo libro The Economic Consequences of the Peace). L’umiliazione dei bianchi senescenti americani che si sentono impotenti di fronte all’invecchiamento, alla malattia, alla solitudine, all’impotenza. L’umiliazione di Trump che non ammette di poter essere sconfitto. Nel suo libro Too Much and Never Enough la nipote di Trump, Marie, parla proprio di un’umiliazione cui il padre psicopatico sottopose il piccolo Donald, e dell’intima decisione del piccolo Donald di non subire mai più l’umiliazione, e di fare di se stesso il Grande Umiliatore.

 

“Him” di Maurizio Cattelan (da commons.wikimedia.org)

 

 

Qual è l’origine del tuo interesse per l’umiliazione?

Non so ma mi sembra che in questa questione, nella sua ambiguità, ci stia qualcosa di irrisolto, di non teorizzato, di non compreso, qualcosa che invece gioca un ruolo fondamentale nella genesi del fascismo in generale, e di quello trumpista in particolare. Gunther Anders parla di umiliazione nel suo libro L’uomo è antiquato (edito da Boringhieri). Di fronte alla bomba atomica, di fronte alla prospettiva dell’annullamento che la bomba ha aperto, l’uomo si sente umiliato. L’iper-potenza della tecnica è al tempo stesso il supremo trionfo dell’umano e la sua umiliazione. Curare l’umiliazione (dell’oppresso, ma anche paradossalmente dell’oppressore) è un compito psicoanalitico ma anche, direttamente, un compito politico. Non abbiamo mai costruito le condizioni per l’elaborazione dell’umiliazione, per una sua evoluzione cosciente. La questione diventa importante nell’orizzonte dell’estinzione: tutt’a un tratto ci rendiamo conto del fatto che ci sono processi ingovernabili dalla volontà umana, e la volontà di potenza iscritta nella cultura della modernità reagisce in maniera panica, aggressiva, e alla fine suicidaria.

 

Questa tensione apocalittica sembra ricorrere ogni qualvolta si produce uno scarto incolmabile tra la capacità di metabolizzazione del nostro vissuto e la formulazione di aspettative future. Proprio Gunther Anders definiva la condizione dei suoi contemporanei come «quelli che-esistono-ancora», vedendo una soluzione solo nel «fare in modo che l’età finale, che potrebbe rovesciarsi ad ogni momento in fine dei tempi, non abbia mai fine; o che questo rovesciamento non abbia mai luogo». La «vita come dilazione» può essere rovesciata in una via perseguibile anche nel nostro orizzonte di estinzione?

No, quando Anders dice che la soluzione politica consiste nel procrastinare all’infinito l’estinzione, (a mio parere) vuol dire che la soluzione politica non risolve niente. Siamo posti in una condizione di dilazione (della fine) che trasforma la vita in depressione o guerra. Credo che sia più intelligente liberarsi dall’illusione di onnipotenza dell’umano, e rilassare lo spirito nell’orizzonte dell’inevitabile. Solo in questa condizione psichica diviene possibile creare spazi di vita felice. E solo creando spazi di vita felice si rende possibile il dissolvimento di quell’orizzonte. Quando la mente collettiva è libera dalla paura dell’estinzione (inevitabile) può emergere l’imprevedibile, e può evitarsi l’inevitabile.

Il pensiero del Novecento, compresa la psicoanalisi, ha evitato di affrontare il tema dell’invecchiamento. Freud afferma esplicitamente che la psicoanalisi non può curare le persone anziane perché il materiale accumulato nell’inconscio non può essere elaborato in un tempo di sopravvivenza così breve. La senilità (e l’impotenza che l’accompagna) è stata un po’ rimossa dal pensiero critico, ed è il rimosso assoluto della politica. Poco importa che i politici siano vecchi. La loro azione politica consiste proprio nello scongiurare la vecchiezza. Il caso di Reagan in Alzheimer, di Berlusconi rimbambito, e dello squilibrato che si sta barricando nella Casa Bianca sono prove evidenti di questa volontà isterica di negazione della vecchiezza, dell’impotenza, e soprattutto del divenire nulla.

 

Le tue parole su umiliazione e impotenza ci fanno pensare agli studi di Erich Fromm degli anni Trenta, sui meccanismi psichici che portavano, ad esempio, un individuo a consegnarsi ciecamente a una personalità autoritaria. Secondo quelle tesi, il «piccolo grande uomo» di turno era una figura nella quale si poteva riconoscere la propria mediocrità e contemporaneamente idealizzare, quasi a esorcizzare, la vergogna verso sé stessi. Ti sembra ancora valido il ragionamento?

Certo Fromm coglie un aspetto decisivo nella formazione della personalità autoritaria e nella genesi del fascismo. Ma quel che è nuovo nella condizione contemporanea è il fatto (che aveva osservato un altro filosofo vicino alla scuola di Francoforte, cioè Gunther Anders) che l’umiliazione diviene strutturale, perché implicita negli effetti sociali e psichici della tecnica. Anders osserva che la tecnologia nucleare ha creato le condizioni dell’annichilamento fisico della vita. Ma la tecnologia digitale, nel suo intreccio con l’economia e con la finanza ha creato le condizioni per annichilire la politica, la potenza della volontà. Non solo più l’umiliazione dell’uomo da parte dell’uomo, come nel caso delle conseguenze che la sconfitta militare della Germania e le decisioni del Congresso di Versailles portarono nella società tedesca. Ma l’umiliazione strutturale (indipendente da un’azione umana come le imposizioni dei vincitori sulla Germania sconfitta) per cui il 62 % dei greci vota contro il memorandum della troika, ma Tsipras è costretto a piegarsi alla logica matematica della finanza. La grande massa di coloro che hanno votato per Trump (e rivotato) sono coloro che hanno dovuto subire, senza neanche capirla, la dinamica finanziaria dopo il crollo del 2008.

 

In merito a questo, ci interessa approfondire le conseguenze psichiche a cui hai accennato in precedenza. Oggi l’umiliazione si scontra con una certa idea di soggetto forte, che si crede capace di tutto ma che cede alla rassegnazione della propria miseria, e alla depressione, nel momento in cui si scontra con la propria impotenza e con i limiti umani e ambientali. Essere umiliati è un essere scaraventati a terra, un “atterramento”. Tuttavia, con il tonfo siamo costretti ad appoggiare i piedi, ci permette di radicarci nell’humus, ricordandoci che c’è una forza di gravità rispetto alla quale siamo impotenti: «Non c’è umiltà senza umiliazione» dice Bergoglio…

Ci stiamo muovendo su un terreno che è molto ambiguo, e pericoloso in un certo senso. Io rispetto molto il discorso di Bergoglio, ma non dimentico che il suo discorso si svolge entro un orizzonte teologico che non è il mio. Il discorso religioso può proporre l’umiltà, la rassegnazione, e non è questa la mia intenzione, perché non credo nel risarcimento teologico, ultraterreno.

Quel che mi interessa è piuttosto una decostruzione della volontà di potenza implicita nella modernità, dell’imprinting faustiano di quella volontà di potenza. L’umanesimo, la messa al centro della volontà umana ha avuto una potenza straordinaria, sul piano culturale e sul piano della civilizzazione. Ma la negazione del limite che l’umanesimo porta con sé apre la strada al sentimento di essere privati di qualcosa di fondamentale: l’illimitatezza del libero arbitrio. La questione della libertà, il concetto stesso di libertà va ripensato. La modernità, particolarmente la cultura capitalistica e in sommo grado quella neo-liberale, comporta un’idea di illimitatezza della libertà. Direi che la potenza viene concepita come funzione della libertà (illimitata, dopo l’emancipazione umanistica dalla volontà di Dio). Ma la premessa è sbagliata: non è vero che la potenza si manifesta nello spazio della libertà, è vero il contrario: la libertà si manifesta nello spazio della potenza. Noi siamo liberi di fare ciò che abbiamo la potenza di fare. Il concetto individualista di libertà è in questo senso patogeno, e un ripensamento ecologico del concetto di libertà è il solo modo per “curare” la malattia dell’impotenza.

 

Chernobyl (foto di Артём Апухтин da Pixabay)

 

 

Nei tuoi scritti, infatti, ritorna più volte la necessità di abbandonare il progetto modernista di assoggettamento della natura alla volontà umana. Per i terapeuti, l’unico modo di guarire una depressione è accettare l’impotenza. D’altro canto, dietro a un’adozione strategica dell’idea di impotenza si celano delle insidie tutt’altro che trascurabili sul piano politico. Non si rischia semplicemente di lasciar fare chi sta distruggendo il pianeta?

Beh, temo che abbiamo già lasciato fare chi distrugge il pianeta. La distruzione è già avvenuta, e in questo senso la storia del mondo si è già conclusa, è già collassata, per lasciare il posto all’evoluzione della Terra. La modernità ha dato per scontato, con Protagora, che “l’uomo è la misura di tutte le cose”. È stato vero in qualche misura, fintanto che la dimensione dell’agire era essenzialmente riferite alla costruzione della sfera urbana, della civiltà come costruzione essenzialmente linguistica. Ma mi pare che l’esperienza attuale mostri che il paradigma Protagora è fuori uso. L’uomo non è più la misura delle cose, non delle cose che determinano la sua vita. Il global warming non è nella misura dell’umano perché è il troppo grande. E anche il virus o le radiazioni nucleari post-Fukushima non sono nella misura dell’umano, perché sono il troppo piccolo. L’invisibile, ciò che sfugge alla percezione e al controllo. Ciò che prolifera al di fuori della portata della decisione.

 

Nel momento in cui si rifiuta la “volontà politica”, cosa rimane? Su quali altre forze, diciamo “involontarie”, si deve sperare?

Io non spero. Non ho mai usato la parola “speranza”. La sostituirei con la parola: aspettativa. Cosa ci aspettiamo dalla vita, dal rapporto con gli altri, dal rapporto con la natura, e con la tecnica? Che immaginazione siamo in grado di elaborare e di proiettare, a partire dai limiti della nostra potenza e quindi della nostra libertà. Sono le aspettative di mondo ciò che dobbiamo (e forse possiamo) riformulare. Il concetto di frugalità mi pare utile qui, insieme al concetto di eguaglianza. Frugalità non significa povertà, significa concentrazione sull’utile e non sullo scambio. Uscire dalla gestalt capitalistica significa essenzialmente mettere al centro l’utile, non l’accumulazione, il piacere, non l’espansione competitiva.

 

Non a caso nel dibattito teorico-politico spicchi – tra le varie cose – per non aver mai distolto lo sguardo su desiderio e piacere. Come piacere e desiderio possono rimettere in moto il corpo sociale psicodeflazionato?

Figuriamoci se sono in grado di rispondere a questa domanda. Non lo so, proprio non ne ho idea. Se debbo rispondere sinceramente e bruscamente direi che non c’è niente da fare: quel che intravvedo nella soggettivazione prossima è un’alternanza tra depressione diffusa, e aggressività identitaria. Il fascismo, l’aggressività nazionalistica o fondamentalista sono tentativi (fallimentari) di elaborazione della depressione. L’insurrezione americana è stato, fra le altre cose, un tentativo di uscire in modo non depressivo dall’isolamento del lockdown. Si apre qui un capitolo nuovo: come concepire insieme un processo di terapia della depressione e la sperimentazione di forme di vita egualitarie e frugali.

 

Immagine di copertina da Alexandre Dulaunoy da Flickr