OPINIONI

L’eredità più dannosa di Pansa

Il revisionismo storico di cui il giornalista recentemente scomparso è stato illustre esecutore ha come obiettivo i conflitti del presente

Ma è il rosso il colore più aspro dei miei ricordi di bambino.

Parlo d’un rosso speciale, il rosso del sangue.

Erano rossi i piedi di Tom e dei suoi compagni, la domenica che i fascisti li fecero sfilare per il centro della città. Rossi, e anche violetti, nerastri, giallo-putridi, perché a Tom, e agli altri ragazzi erano stati cavati gli scarponi e le calze, per poi obbligarli a marciare a piedi nudi nella neve o nel fango gelato, lungo chilometri e chilometri, dal paese di Casorzo sino a Casale.

Era il 14 gennaio 1945.

(G. Pansa, Il gladio e l’alloro, 1991)

Appena prima della chiesa, c’era l’ingresso della Corte d’assise riservato al pubblico. […]

La mia memoria di bambino la ricorda grande e scenografica. […] Adesso i buoni avevano vinto. E i cattivi stavano per essere puniti. […]

Quel che vidi non l’ho più dimenticato. […] Quando mi viene chiesto perché, dopo aver scritto tanto sulla Resistenza e sui partigiani, mi sono deciso a occuparmi dei fascisti sconfitti, ho pronta più di una spiegazione. Ma forse la spinta vera mi è venuta da molto lontano: dal me stesso bambino che voleva vedere i processi ai neri. Senza rendermene conto, scoprii allora che c’erano pure loro, esseri umani come tutti, nel bene e nel male, anche se avevano scelto di combattere per una causa che, ancora oggi, giudico sbagliata.

(G. Pansa, Il sangue dei vinti, 2003)

È morto qualche giorno fa Gianpaolo Pansa. Già il fatto che si senta un diffuso bisogno di scriverne è indice di come un giornalista che nell’ultimo trentennio è stato decisamente mediocre – per quanto possano affermare i coccodrilli elogiativi di queste ore sui principali quotidiani italiani – abbia inciso profondamente non solo nel senso comune, ma persino nel nostro. Inciso negativamente, ovviamente, ma in modo irreversibile.

Non è forse indispensabile, nel 2020, ripercorrere ancora una volta le inesattezze, le bugie, le mistificazioni sulla Resistenza contenute nei suoi romanzi spacciati per libri storici e basati, invece, quasi esclusivamente su fonti di parte fascista, tanto più che chi scrive ha dedicato buona parte della sua militanza politica e della sua sporadica attività di ricerca (qui e qui) a contestargliele e il rischio di risultare ripetitiva è dietro l’angolo. L’elenco descrittivo degli errori, delle invenzioni, del ricorso alla fiction e delle omissioni di Pansa era sufficiente un quindicennio fa ma oggi, a quasi 20 anni dalla pubblicazione, nel 2003, del Sangue dei vinti, mi sembra forse più utile cercare di abbozzare un’analisi delle conseguenze di quel libro e di quelli che l’hanno seguito e tirare le fila di una stagione politica e culturale che ha profondamente inciso sul senso comune italiano. Diciassette anni sono tanti – più di quelli trascorsi tra la Liberazione e il luglio ’60, quanto quelli passati tra la Liberazione e piazza Statuto – e forse bastano per vedere come nel volgere di pochi anni si siano affermate alcune convinzioni mistificatorie sulla storia d’Italia e, in particolare, su quella dei (pochi) momenti di ribellione e dei tentativi rivoluzionari che l’hanno contrassegnata. Mi sembra, anzi, una necessità non più eludibile se teniamo conto che, anagraficamente, una/o studente universitaria/o di oggi è praticamente sempre vissuta/o nella temperie storico-culturale del revisionismo, quella in cui tutte le vacche sono nere.

Si è più volte detto che Pansa era uno storico di formazione – allievo di Guido Quazza, persino – e che padroneggiasse il metodo storiografico. Insieme alle sue stesse dichiarazioni di intenti («Mi sono preoccupato di controllare i dati anagrafici di tutte le persone citate. […] . Con lo stesso scrupolo ho verificato i nomi di tutte le località, le date e le circostanze di decine di eccidi e di centinaia di omicidi per vendetta e per odio politico o di classe», scrisse con sprezzo del ridicolo nella prima pagina del Sangue dei vinti), ciò ha contribuito a dare un’aurea di “oggettività” alle sue pagine, a farle sembrare parti di una ricostruzione storiografica. E ha contribuito, parallelamente, a gettare discredito non solo sulla storiografia antifascista – quella che secondo lui «ha quasi sempre ignorato di proposito, per opportunismo partitico o per faziosità ideologica» la “resa dei conti” successiva alla guerra civile, nonostante nei fatti sia stata proprio la storiografia antifascista, ben prima di Pansa e molto più seriamente, a parlare della (peraltro, a mio parere, legittima) punizione dei fascisti – ma più in generale sulla storiografia e sulla ricerca militanti. Si è cioè rafforzato il convincimento che chi ha delle idee non possa essere una brava ricercatore o un bravo ricercatore e che la storiografia possa essere valida solo se “asettica”, fatta quasi da “tecnici” che collazionano documenti, che tengono conto in una sorta di par condicio di tutte le posizioni, dosandole col bilancino. Un approccio culturale ormai diffuso a tutti i livelli della vita sociale e politica: in un decennio si è passati così dalla celebrazione di una pietra miliare della storiografia come Una guerra civile (1991) di Claudio Pavone, partigiano lui stesso, alla celebrazione della storiografia a-antifascista, se non anti-antifascista o pienamente fascista. “Faziosi” sono così diventati lo storico e la storica antifascisti, il ricercatore e la ricercatrice militanti, come se l’adozione del metodo storiografico dipendesse dalle idee chi lo fa suo e non da quella critica delle fonti che Pansa, tra l’altro, non ha mai fatto.

Che poi Pansa non sia stato l’avanguardia del revisionismo ma un mero esecutore mi sembra evidente, ma si è trattato – almeno in Italia, perché il revisionismo è un fenomeno transnazionale – di un esecutore talmente rumoroso che non è possibile ignorarlo, anche perché con lui il fenomeno ha registrato una vera e propria accelerazione. Sia sufficiente pensare che, almeno da quanto emerge dai lanci stampa, Il sangue dei vinti ha venduto oltre 400mila copie, quando un libro di uno storico – se va molto bene – ne vende qualche centinaia.

Non credo però che il passaggio – esemplificato nelle parole in epigrafe – dal Pansa che si commuove per i partigiani a quello che si commuove per i loro carnefici sia stato una scelta politica di consapevole adesione alla rivalutazione del fascismo, ma che si sia trattato piuttosto dell’emergere dei limiti umani di un uomo che, in tarda età, ha capito il cambio di paradigma culturale e ci si è accodato, inseguendo l’orizzonte della remunerazione economica o quello del successo. Con la pubblicazione del suo saggio autobiografico Il revisionista (2009), Pansa stesso ha reso esplicito che stesse salendo più che altro sul carro del vincitore, trasformando il revisionismo da mezzo a fine. L’umanizzazione e la parallela depoliticizzazione del regime fascista e dei suoi esponenti, l’attenzione mediatica per i cosiddetti “vinti” (che fa il paio con quella per le “vittime”, a tratti sovrapponendocisi), la rivalutazione romantica dei “ragazzi di Salò” e la contemporanea criminalizzazione costante e ripetitiva del movimento partigiano hanno preceduto, infatti, di oltre un quindicennio la pubblicazione del Sangue dei vinti e l’avvio del ciclo antipartigiano di Pansa e datano più o meno la metà degli anni Ottanta. Tale approccio ha caratterizzato non solo l’Italia ma – se si allarga lo sguardo ad esempio alla critica della Rivoluzione francese di Furet o alla rappresentazione di Nolte del nazismo come reazione alla Rivoluzione bolscevica – tutta l’Europa, in una fase storica che vedeva l’esaurirsi, oltre e prima ancora dell’esperienza sovietica, dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Ovunque, nell’Europa degli anni Ottanta, si è cominciato a interpretare i movimenti rivoluzionari come forieri di violenza, sopraffazione e mali ben peggiori di quelli contro cui avrebbero combattuto.

Se si tiene conto di questo e si mettono da parte i complottismi – a volte un po’ ingenui e su questo posso fare anche mea culpa – si può secondo me affermare che la vittima ultima del revisionismo à la Pansa non sia, in fondo, neanche la Resistenza in sé e che il suo fine non sia neanche stato la legittimazione delle forze politiche postfasciste. Del resto, la Resistenza – anche a causa di una sua rappresentazione positiva ma talmente pacificata e mummificata che aveva ben poco a che vedere con una guerra civile fatta di sacrifici, paura, sangue e merda – non è mai stata autenticamente percepita come un’esperienza condivisa e ripetibile tra la massa degli italiani, nonostante il sistema politico l’avesse elevata a cartina al tornasole della legittimità politica: i libri di Indro Montanelli, ad esempio, hanno sempre venduto di più di quelli di Roberto Battaglia. Ben più grave è che da questa nuova temperie culturale è emersa, in generale, una sorta di ostilità verso qualsiasi forma di ribellione, di illegalità, di opposizione, rappresentate sempre e comunque come sul punto di “esagerare”, di “passare dalla parte del torto”, di non tenere conto che tutti sono “esseri umani come tutti”, persino quelli che combattevano per Hitler e quindi per l’Olocausto e per la riduzione in schiavitù dell’Europa orientale e della Russia.

L’eredità più dannosa di Pansa (e dei suoi emuli e ispiratori) – a mio avviso più colposa che colpevole – è dunque forse il giudizio negativamente definitivo su chi si oppone, su chi si ribella, su chi aspira a cambiare radicalmente la società in cui vive, accomunato in quanto presunto autore di atti parimenti violenti di quelli compiuti da chi lo sfrutta, da chi lo opprime, da chi lo massacra, da chi ne occupa il territorio. La vera vittima – non solo di Pansa, chiaramente, ma del contesto culturale in cui il revisionismo ha spadroneggiato – è dunque la legittimità del conflitto. Ed è forse su questo, più che sui singoli errori e sulle singole omissioni dell’opera pansiana, che ormai – con Pansa finalmente morto – si dovrebbe riflettere per invertire la rotta.

 

E adesso?

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