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Leggere la Cina

La Cina è entrata in uno stadio di sviluppo imperialistico, non per espansionismo aggressivo quanto come capitalismo monopolistico in fase avanzata, interessato alla conquista di risorse e sfere d’influenza, in inevitabile competizione con le potenze sin qui dominanti

Forse non c’è libro più puntuale, per chi si interessa del tema, del volume antologico Leggere la Cina, capire il mondo, appena uscito per i tipi di Mimesis (a cura di Marco Fumian, 2025). La presenza sempre più immediata e massiccia della realtà cinese nelle nostre vite, attraverso mille canali (economici, culturali, tecnologici, geopolitici…), è infatti controbilanciata da una ipersemplificazione mediatica che non aiuta affatto a capire questa realtà e le sue dinamiche. Anzi, per riflesso della polarizzazione che da quasi una decina d’anni accompagna il processo di de-globalizzazione in corso, spesso troviamo contrapposte una visione demonizzante e pregiudizievole della Cina (la vulgata dominante, nettamente atlantista e liberale, di destra come di sinistra) a un’altra, altrettanto errata, che la edulcora e presenta come un’alternativa all’unipolarismo di matrice statunitense, se non addirittura all’economia di mercato (perlopiù da ambienti di rossobrunismo, campismo e neostalinismo, con una serie di sorprendenti alleati). È difficile quindi muoversi senza essere accusati di essere, all’occasione, “filo” o “anticinesi”, e mantenere un equilibrio critico anche per chi, come noi, lavora nelle aule universitarie (cosa che, peraltro, riguarda anche chi si occupa del conflitto ucraino, a cui è giusto esprimere solidarietà).

Per questo, appunto, il libro è molto puntuale e ha il merito di dare un ulteriore impulso vitale a una discussione necessaria. Il curatore, Marco Fumian, negli ultimi anni, soprattutto dalle colonne virtuali della rivista Sinosfere, ha in più occasioni stimolato il dibattito sul ruolo che la sinologia (cioè il campo di studi sulla Cina) può o dovrebbe svolgere oggi (vedi Sinologi della nuova era). Gli undici contributi del libro, scritti da altrettanti studiosi e studiose di diverse discipline (studi culturali, letteratura, politologia, sociologia, storia, traduttologia), affrontano da più angolature le narrazioni della e sulla Cina. Esaminano cioè sia come la Repubblica popolare parla di sé, sia come se ne parla in “Occidente”, ricostruendone le origini e interrogandosi su come rispondano alle mutevoli esigenze tanto della Cina stessa, quanto dei suoi “competitor” strategici, in primis USA e UE. Chiude il libro una tavola rotonda con tre giornalisti, esperti di Cina, particolarmente interessante per i retroscena sulla pigrizia del giornalismo nostrano e lo scarso accesso alle fonti di prima mano in cinese, evidenti nella scarsa qualità di tanta informazione sull’argomento.

Il focus sui discorsi dominanti è rivolto a «mettere meglio a fuoco le numerose questioni che riguarda­no la Cina su cui l’ideologia oggi concentra le proprie battaglie» (dalla prefazione di Fumian, p. 30), fotografandole non solo nella loro dimensione locale, ma anche riflettendo su come «esemplificano in modo paradigmatico le tensioni più ampie che investono i rapporti in trasformazione del mondo globale» (p. 16).

Anche in questo caso è chiara l’urgenza di un approccio che non legga tutte queste questioni ideologiche come casi isolati ma le collochi nelle più vaste riconfigurazioni strutturali (e globali) di cui sono espressione. Si tratta, in altre parole, di vedere oltre queste narrazioni (e le rispettive propagande), cogliere quali sono le esigenze materiali profonde che le hanno generate e, soprattutto, sottolineare che la Cina non è al di fuori delle dinamiche globali, ma agisce al loro interno.

Il caso forse più emblematico, non a caso affrontato da numerosi contributi, è proprio il cambio di passo del Partito-Stato con l’entrata in scena di Xi Jinping nel 2012: le letture impressionistiche e superficiali che vanno per la maggiore (“nuovo Mao”, “nuovo imperatore”, ecc.), oltre a essere inaccurate, ne presentano l’ascesa come una specie di fatto storico accidentale. Così facendo non possono spiegare l’involuzione autoritaria di Pechino negli ultimi dieci anni se non come la volontà dispotica di un individuo, anziché, in modo ben più efficace e rigoroso, come «reazione alla crisi del sistema capitalista» post-2008 che minacciava anche la stabilità del regime cinese (Lanza, p. 112).

En passant, quello di isolare i fenomeni è un errore in cui tendono a cadere anche gli approcci culturalisti secondo i quali determinate parole chiave che a “noi” (noi occidentali, in una specie di essenzialismo al contrario) paiono oscure e contraddittorie sarebbero invece chiare e coerenti nel contesto cinese. Prendiamo il “socialismo di mercato”, l’ircocervo per eccellenza (dal nome dell’animale mitologico metà capra e metà cervo): come interpretarlo? Come un concetto sì contraddittorio ma accettabile in una cultura che si vorrebbe “orientale”, educata all’unità degli opposti e al sincretismo di pensiero? O, piuttosto, come una giustificazione ideologica per la restaurazione “regolata” del capitalismo in un Paese pienamente calato nel mondo del XX e XXI secolo?

Foto di Antonio Sanguinetti

Qui vorrei aggiungere uno spunto di riflessione, appunto per inserirmi nel dibattito stimolato dal libro: condivido appieno la necessità di identificare le complessità dietro le narrazioni ed evitare contrapposizioni manichee, ma il punto è che questo equilibrio critico (che non è distanza né disimpegno) fatica a sostanziarsi se non si dota di strumenti che sappiano leggere anche il paradigma della fase storica a livello globale. E qui serve più che mai esaminare l’attuale stadio dello sviluppo cinese come imperialistico – dove “imperialismo” non è da intendersi come aggressività militare ed espansionismo (che appunto non caratterizzano la Cina attuale), quanto nell’accezione che ne diede Lenin, cioè di capitalismo monopolistico in fase avanzata il cui tratto principale sta nell’esportazione dei capitali (un fatto sostanziato molto bene dal capitolo di Ceccagno). Questo interesse alla conquista di risorse, sfere d’influenza e legittimità la portano inevitabilmente in competizione con le potenze imperialiste sin qui dominanti, a partire dagli USA, proprio per via delle logiche di funzionamento del sistema capitalista globale in cui sono tutte inserite.

L’ingresso della Cina nella sua fase imperialistica, in concomitanza con la lunga crisi iniziata nel 2008, aiuta anche a spiegare perché certi suoi aspetti siano improvvisamente divenuti minacciosi ad occhi occidentali (Lanza, p. 117), perché i presunti universalismi delle democrazie liberali possano essere messi in discussione in modo convincente dagli ideologi del PCC (v. il capitolo di Brusadelli), o perché ci sia una spinta molto più attiva alla creazione di un soft power (oggetto dell’analisi di Sapio). Soft power, peraltro, che dopo anni di finanziamenti di progetti culturali dai risultati non proprio soddisfacenti a livello di massa, ha visto un’impennata quando la Cina è stata associata a tecnologie avanzate grazie ai vari Huawei, Xiaomi e, in parte, Deepseek. Ma la lista potrebbe continuare.

Il punto è che ciò che contrappone veramente il “modello cinese” e il “modello occidentale”, al di là della retorica e delle effettive differenze socioculturali, sono gli attriti imperialistici e le diverse modalità di gestione del capitale. La Cina ha a disposizione un apparato regolatorio statale sicuramente più forte di quelli occidentali, ma non sfugge ai meccanismi tipici del capitalismo, né ai suoi rapporti di forza.

L’impegno a favore del mercato e il caso Jack Ma dimostrano quanto certe interpretazioni – apologetiche o detrattrici – sull’offensiva dello Stato cinese contro i privati fossero frettolose e parziali.

Se questa analisi delle narrazioni della e sulla Cina ci aiuta a rivelare quanto di ideologico e poco sostanziale ci sia nella costruzione dello scontro tra “democrazie” e “autoritarismi”, l’altro tema caldo è come si posiziona la sinologia che opera nel “campo democratico” (cioè euro-atlantico) all’interno di questa posizione. Certo, questa domanda oggi si pone in modo diversissimo rispetto anche solo a quando il libro era in gestazione, visto che in appena due mesi Trump ha scompaginato completamente questo campo. Ciò però rende la domanda ancora più urgente, visto che le democrazie liberali si disfanno davanti ai nostri occhi sotto il peso delle contraddizioni del sistema economico da cui dipendono e a loro volta dimostrano marcate tendenze autoritarie. Basti pensare soltanto agli ultimi dodici-diciotto mesi, con le dure repressioni dei movimenti per la Palestina, che hanno colpito direttamente studentesse e studenti e lavoratrici e lavoratori dell’università, e la violazione della volontà elettorale in Francia e Romania. Di certo, una sinologia che vuole farsi critica non può che tenersi dichiaratamente fuori dalla logica dei blocchi geopolitici e militari. Utile, peraltro, anche a uscire dal circolo vizioso delle accuse di benaltrismo.

Immagine di copertina: Shanghai, fonte wikimedia

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