MONDO

I leader della protesta di Gaza credono ancora nella lotta non violenta

Nonostante il massacro a Gaza degli scorsi mesi, i leader della Grande Marcia del Ritorno credono che la
resistenza sia ancora il modo migliore di porre fine all’assedio. Rami Younis ha parlato con Hasan al-Kurd,
uno dei leader della marcia, sui successi, gli errori e il futuro del movimento

La scorsa settimana, mentre tutta l’attenzione era concentrata sull’ufficiale di polizia israeliano che ha rotto una gamba a Jafar Farah, un noto attivista politico palestinese di Haifa, io non riuscivo a non pensare alla gamba di qualcun altro, quella del cognato di Hasan al-Kurd, a Gaza.

Due mesi fa, durante il primo venerdì di protesta della Grande Marcia del Ritorno, ho chiacchierato a
lungo con al-Kurd, uno degli organizzatori della marcia. Ci siamo tenuti in contatto dopo che l’ho
intervistato nel periodo precedente la Marcia, che è iniziata il 30 marzo. Quel venerdì, ho chiamato al-Kurd diverse volte per avere degli aggiornamenti. Una chiamata si è interrotta bruscamente. Ho provato a ricontattarlo, ma invano. Non c’è stata risposta fino alla sera.

Quando finalmente sono riuscito a rintracciarlo, ha cominciato a profondersi in scuse. Sembrava affranto, chiedendo che io evitassi di far trapelare la cosa. Ha anche rivelato perché la nostra chiamata era stata interrotta: un cecchino israeliano ha sparato a suo cognato, che era in piedi accanto a lui. Quando gli ho chiesto perché preferisse che la cosa non venisse menzionata, ha risposto dicendo «né io né la mia famiglia siamo il tema, qui».

Oggi, sette settimane dopo, al-Kurd si sente più a suo agio nel parlare di suo cognato e di altri feriti, che lui conosce personalmente. «Mio cognato sta bene, è un uomo forte», ha detto con il suo tipico tono
ottimistico, «non può camminare su quel piede né può lavorare, ma starà bene».
Al-Kurd, 43 anni, è un insegnante che vive con sua moglie e i loro sei figli vicino al centro di Gaza, in un’area che definisce “mista”. «Ci sono diversi rifugiati così come residenti regolari, ma questo non è un campo profughi», ha detto. Durante la nostra conversazione ho appreso che il figlio dei vicini di al-Kurd, un bambino di dieci anni che gioca con i suoi figli, è stato ferito da un proiettile nella gamba lo scorso martedì, ed è stato ricoverato in condizioni molto serie a causa della copiosa perdita ematica.
«Gli hanno sparato nel ginocchio, e il proiettile gliel’ha distrutto dall’interno. È quasi morto lungo la strada verso l’ospedale», dice al-Kurd, «i medici non sono riusciti a riconoscere che tipo di proiettile fosse. Il numero di feriti è più alto rispetto al massacro del 2014 e gli ospedali non riescono ad affrontare l’alto numero di feriti che arrivano. I sanitari stanno avendo grosse difficoltà nel curare le tipologie di ferite e danni interni che riscontrano». 

Al-Kurd ha chiesto di parlare un’ora dopo il pasto tradizionale per rompere il digiuno del Ramadan. Il digiuno, accoppiato al caldo, rende difficile rilasciare interviste durante il giorno. «Ma non preoccuparti pernoi, siamo abituati a stare a Gaza senz’acqua», scherza.

Tu hai 43 anni, ricordi Gaza prima dell’assedio.

«Naturalmente. Non dimenticare che ho vissuto la gran parte della mia vita senza assedio.
Sfortunatamente, tranne la più grande dei miei figli che ha quasi vent’anni, gli altri non conoscono una
realtà diversa. Gaza ha un enorme potenziale. Penso fosse più sviluppata di Ramallah prima dell’assedio e continuerà a esserlo quando questo finirà. Detto fra noi, perfino Israele ne guadagnerà dall’avere reali
accordi commerciali con noi».

In passato sei stato in Israele?

«Prima facevo parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [un partito della sinistra
palestinese che supporta la resistenza armata, n.d.r.], quindi ovviamente non mi era concesso accedervi.
Non ho mai incontrato un israeliano nella mia vita».

La fede di Al-Kurd e degli altri organizzatori della Marcia del Gran Ritorno («siamo un gruppo di venti
persone, comprese quattro donne, e abbiamo membri di tutte le fazioni politiche») nella resistenza non
violenta ha influenzato larga parte del pubblico a Gaza, inclusi i leader delle fazioni locali.
Quali sono i sentimenti della leadership una settimana dopo aver tentato di superare la recinzione? Dopo
il massacro della scorsa settimana, ho visto che Ahmad Abu-Ratima, che ha aiutato ad organizzare la
marcia, ha scritto su Facebook che la protesta non cesserà e che i tentativi di rompere il confine
continueranno finché l’assedio non sarà alleggerito. «Molti di noi si trovano ancora in stato di shock. Non ci aspettavamo un così grande numero di morti e feriti. Ma sai che c’è? Anche se abbiamo un numero maggiore di feriti che nel massacro del 2014, ho sentito che molti di loro vogliono guarire e tornare al confine per provare ad attraversarlo nuovamente».

Perché?

«Perché non hanno niente da fare. Sentono di non avere
nessuna altra ragione per vivere. Uno dei risultati positivi della nostra protesta, nonostante tutto il dolore che consegue da una così grande perdita di vite umane, è che ha dato ai nostri giovani uno scopo ed un obiettivo nella vita. Ecco perché sentiamo di aver dato vita a qualcosa di nuovo, che non si fermerà. Proveremo nuovamente ad attraversare il confine il 5 giugno (nel Giorno della Naksa, l’occupazione di Gaza e West Bank nel 1967, n.d.r.]

A quali conclusioni siete arrivati? Non tutto è andato come pianificato.

«Hai ragione», singhiozza, il dolore ancora evidente nella sua voce. «Abbiamo compiuto molti errori. Non abbiamo controllato la protesta come speravamo di fare. Il coinvolgimento di altre fazioni e il
coordinamento fra di loro ha reso le cose estremamente complicate. È cominciato quando abbiamo
scoperto quando difficile fosse controllare le azioni individuali di persone giovani e disperate. Nonostante li supplicassimo di non avvicinarsi ai soldati o usare violenza, in modo tale da non dare ai soldati pretesti per spararli, alcuni giovani non ci hanno sentito e hanno lanciato delle pietre. Lo sappiamo che un soldato israeliano, che non ci pensa due volte prima di sparare a donne e bambini, non aspetta altro che la più flebile scusa per uccidere. Non potevamo tenere le persone alla distanza dal confine che avremmo voluto mantenere. Un altro errore che abbiamo fatto è stato tenere la marcia il 14 maggio. Le fazioni politiche, inclusa Fatah, sono intervenute e hanno insistito affinché mantenessimo la protesta il giorno prima dellaNakba, per protestare contro lo spostamento dell’ambasciata americana».

Palestines protesters during clashes with Israeli forces near the Gaza-Israel border in Rafah, Gaza on May 14, 2018. Photo by Abed Rahim Khatib/Flash90

Ma voi siete gli organizzatori. Per quale motivo avete lasciato che prendessero decisioni al posto vostro?

«Devi capire che noi siamo un gruppo di attivisti indipendenti. Non abbiamo supporto economico,
dipendiamo da partiti come Fatah e Hamas per il supporto logistico, così possiamo portare persone alle
nostre proteste. Non possiamo portare tante persone per conto nostro, ma loro possono».

Un errore che è stato compiuto, concorderai con me, è stato quando il leader di Hamas Bardawil è andato in TV e si è vantato di come cinquanta fra quelli che sono stati assassinati lo scorso lunedì fossero membri di Hamas.

«È stato un errore enorme. E non è vero. Alcuni fra quelli che sono stati uccisi erano di Hamas, ma dire che lo erano la maggior parte? Semplicemente non è vero. Abbiamo provato a parlare con Hamas e altri partiti più che potevamo, chiedendo loro di fare un passo indietro. Loro sono costantemente sotto le luci dei riflettori, questo era il nostro turno. Io penso che Bardawil volesse dire che i membri del suo movimento sono disponibili a sacrificare loro stessi e non che stesse dicendo che c’erano più membri di Hamas alla protesta, perché questo non è vero e nessuno può dirlo. Il suo comunicato era indirizzato più al pubblico di Gaza per promuovere l’immagine del suo partito e io non penso che lui abbia riflettuto sulle conseguenze di quel comunicato e su cosa Israele ne avrebbe fatto.

Per di più, anche Hamas comprende il nostro risultato e io credo che loro capiscano la potenza di una
resistenza disarmata e popolare. Il fatto è che loro non sono stati trascinati nel combattimento da Israele. Ora il mondo intero sta parlando di Gaza e dell’assedio. Persino l’Egitto ha riaperto il Valico di Rafah. All’improvviso tutti i giovani che erano cresciuti disperati hanno trovato una ragione per vivere. Io dicoqueste cose mentre ammetto anche che il nostro messaggio di resistenza nonviolenta ad ogni costo non è stato completamente trasmesso. Molti degli incidenti che si sono verificati nei mesi passati, e specialmente il 14 maggio, erano completamente arbitrari e spontanei».

Cosa vorresti dire al pubblico Israeliano?

«Noi, gli organizzatori della protesta, crediamo ancora nella resistenza non violenza all’assedio e
all’occupazione. Anche se ci sono state delle violenze, gli israeliani devono comprendere da dove
provengono. Gaza è come una pentola a pressione, ed è difficile evitare che esploda violentemente. Siamo già riusciti a convincere una larga parte di noi a protestare senza violenza».

Avete dei piani per il futuro del movimento di protesta?
«Continueremo le nostre attività ogni venerdì. Protesteremo all’accampamento di tende che abbiamo
costruito lungo il confine, ma non proveremo ad attraversarlo fino al 5 giugno, quando commemoriamo
l’occupazione del 1967. La nostra protesta è qui e non scompariremo».

Avvicinandoci alla fine della nostra conversazione, ho provato a concludere con un tono ottimistico chiedendo ad al-Kurd cosa farà quando l’assedio di Gaza avrà fine.

«Penso che mi preoccuperò di offrire una istruzione normale ai miei figli. La più grande ha vent’anni e vuole studiare economia. Una volta che l’assedio verrà tolto, tutto andrà meglio. Io voglio soltanto che i miei figli icevano un’istruzione normale, non mi interessa dove».

Davvero? Io ti sto chiedendo cosa farai il giorno in cui l’assedio sarà tolto e tu mi parli dell’istruzione dei tuoi figli? Immagina che questo accada domani. Qual è la prima cosa che faresti, Hasan?

Al-Kurd ride, si ferma e risponde: «io ho una vita normale».

 

Rami Younis è uno scrittore ed attivista palestinese, fondatore del gruppo “Khotweh”

Articolo pubblicato su 972mag.com

Traduzione a cura di DINAMOpress