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OPINIONI

Le ragioni di una rottura. A cent’anni dalla nascita del Pci

Ripubblichiamo un articolo di Antonio Gramsci del 13 gennaio 1921, intitolato Il congresso di Livorno, pubblicato sul neonato quotidiano torinese “L’Ordine Nuovo”. Il testo sintetizza le ragioni strategiche che portarono alla rottura della frazione comunista del partito e la necessità della costruzione di una nuova organizzazione

Nel centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia, ridenominato nel 1943 Partito Comunista Italiano, abbiamo deciso, a modo nostro, di inaugurare una riflessione.
L’introduzione di Rossana Rossanda all’opera di John Reed Dieci giorni che sconvolsero il mondo si conclude con un’immagine che fissa lo speciale momento che caratterizza l’inizio di ogni tentativo rivoluzionario, di ogni straordinaria impresa organizzativa: «Quello è il momento nativo, l’arco breve in cui gli uomini tentano di prendere in mano il loro destino. Allora le vite si unificano, i volti si somigliano, si parla lo stesso linguaggio, la speranza ritrova il suo suono raro e inconfondibile. […] Ma quell’accento alto dell’esperienza resta lo stesso e così sarà finché esisterà il capitalismo e le masse si leveranno, in qualche parte del mondo e in qualche frammento del tempo, contro di esso».

Questa è anche la storia, straordinaria e irripetibile, dei comunisti del 1921. La prima rottura con la tradizione socialista, poi ciclicamente ripetuta dalle generazioni di comunisti successivi, fuori e oltre il Pci. Il tentativo di costruzione di un partito autonomo della classe operaia. La critica a quella specifica forma-Stato che in Italia stava maturando.
Ciò che dopo è arrivato, dalla ostilità al “lungo Sessantotto italiano” fino alla corruzione definitiva di quel progetto, non offusca minimante la straordinaria potenza della sua origine; «I gigli che marciscono puzzano assai peggio delle erbacce», ricorda un sonetto di Shakespeare.

Ripubblichiamo un articolo di Antonio Gramsci del 13 gennaio 1921, intitolato Il congresso di Livorno, pubblicato sul neonato quotidiano torinese “L’Ordine Nuovo”. Il testo sintetizza le ragioni strategiche che portarono alla rottura della frazione comunista del partito e la necessità della costruzione di una nuova organizzazione. Il XVII congresso del Partito Socialista Italiano si tenne, tra il 15 e il 21 gennaio, al Teatro Goldoni di Livorno. La congiuntura, per i subalterni, è sempre difficile. Gramsci analizzava già da tempo l’apparire dei primi germi del fascismo, maturati all’ombra della Grande Guerra. Aveva alle spalle il suo diretto coinvolgimento nel movimento rivoluzionario dei Consigli di fabbrica di Torino. È in questa temperie che matura questo nuovo inizio.

I comunisti decidono di abbandonare i lavori ancora in corso del Congresso socialista e si riunirono nel vicino Teatro San Marco, illuminato con poche lampade montate in fretta, senza posti a sedere. Sul palco completamente scarno, c’era solo il tavolo coperto dalla bandiera della sezione socialista di Livorno. Tra diversi brevi interventi si proclamò la costituzione del Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale comunista.

 

 

 

da “L’Ordine Nuovo”, 13 gennaio 1921

Il congresso di Livorno

di Antonio Gramsci

 

Il Congresso di Livorno è destinato a diventare uno degli avvenimenti storici più importanti della vita italiana contemporanea. A Livorno sarà finalmente accertato se la classe operaia italiana ha la capacità di esprimere dalle sue file un partito autonomo di classe, sarà finalmente accertato se le esperienze di quattro anni di guerra imperialista e di due anni di agonia delle forze produttive mondiali hanno valso a rendere consapevole la classe operaia italiana della sua missione storica.

La classe operaia è classe nazionale e internazionale. Essa deve porsi a capo del popolo lavoratore che lotta per emanciparsi dal giogo del capitalismo industriale e finanziario nazionalmente e internazionalmente. Il compito nazionale della classe operaia è fissato dal processo di sviluppo del capitalismo italiano e dello Stato borghese che ne è l’espressione ufficiale. Il capitalismo italiano ha conquistato il potere seguendo questa linea di sviluppo: ha soggiogato le campagne alle città industriali e ha soggiogato l’Italia centrale e meridionale al Settentrione.

 

La questione dei rapporti tra città e campagna si presenta nello Stato borghese italiano non solo come questione dei rapporti tra le grandi città industriali e le campagne immediatamente vincolate ad esse nella stessa regione, ma come questione dei rapporti tra una parte del territorio nazionale e un’altra parte assolutamente distinta e caratterizzata da note sue particolari.

 

Il capitalismo esercita così il suo sfruttamento e il suo predominio: nella fabbrica direttamente sulla classe operaia; nello Stato sui più larghi strati del popolo lavoratore italiano formato di contadini poveri e semiproletari.

È certo che solo la classe operaia, strappando dalle mani dei capitalisti e dei banchieri il potere politico ed economico, è in grado di risolvere il problema centrale della vita nazionale italiana, la questione meridionale; è certo che solo la classe operaia può condurre a termine il laborioso sforzo di unificazione iniziatosi col Risorgimento. La borghesia ha unificato territorialmente il popolo italiano; la classe operaia ha il compito di portare a termine l’opera della borghesia, ha il compito di unificare economicamente e spiritualmente il popolo italiano.

Ciò può avvenire solo spezzando la macchina attuale dello Stato borghese, che è costruita su una sovrapposizione gerarchica del capitalismo industriale e finanziario sulle altre forze produttive della nazione; questo rivolgimento non può avvenire che per lo sforzo rivoluzionario della classe operaia direttamente soggiogata al capitalismo, non può avvenire che a Milano, a Torino, a Bologna, nelle grandi città da cui partono i milioni di fili che costituiscono il sistema di dominio del capitalismo industriale e bancario su tutte le forze produttive del paese.

 

In Italia, per la configurazione particolare della sua struttura economica e politica, non solo è vero che la classe operaia, emancipandosi, emanciperà tutte le altre classi oppresse e sfruttate, ma è anche vero che queste altre classi non riusciranno mai a emanciparsi se non alleandosi strettamente alla classe operaia e mantenendo permanente questa alleanza, anche attraverso le più dure sofferenze e le più crudeli prove.

 

Il distacco che avverrà a Livorno tra comunisti e riformisti avrà specialmente questo significato: la classe operaia rivoluzionaria si stacca da quelle correnti degenerate del socialismo che sono imputridite nel parassitismo statale, si stacca da quelle correnti che cercavano di sfruttare la posizione di superiorità del Settentrione sul Mezzogiorno per creare aristocrazie proletarie, che accanto al protezionismo doganale borghese (forma legale del predominio del capitalismo industriale e finanziario sulle altre forze produttive nazionali) avevano creato un protezionismo cooperativo e credevano emancipare la classe operaia alle spalle della maggioranza del popolo lavoratore.

I riformisti portano come «esemplare» il socialismo reggiano, vorrebbero far credere che tutta l’Italia e tutto il mondo può diventare una sola grande Reggio Emilia. La classe operaia rivoluzionaria afferma di ripudiare tali forme spurie di socialismo: l’emancipazione dei lavoratori non può avvenire attraverso il privilegio strappato, per una aristocrazia operaia, col compromesso parlamentare e col ricatto ministeriale; l’emancipazione dei lavoratori può avvenire solo attraverso l’alleanza degli operai industriali del Nord e dei contadini poveri del Sud per abbattere lo Stato borghese, per fondare lo Stato degli operai e contadini, per costruire un nuovo apparecchio di produzione industriale che serva ai bisogni dell’agricoltura, che serva a industrializzare l’arretrata agricoltura italiana e a elevare quindi il livello del benessere nazionale a profitto delle classi lavoratrici.

 

La rivoluzione operaia italiana e la partecipazione del popolo lavoratore italiano alla vita del mondo non può verificarsi altro che nei quadri della rivoluzione mondiale. Esiste già un germe di governo mondiale operaio: è il Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista uscito dal II Congresso.

 

L’avanguardia della classe operaia italiana, la frazione comunista del Partito socialista, affermerà a Livorno necessaria e imprescindibile la disciplina e la fedeltà al primo governo mondiale della classe operaia: anzi di questo punto farà il punto centrale della discussione al congresso. La classe operaia italiana accetta il massimo di disciplina, perché vuole che tutte le altre classi operaie nazionali accettino e osservino il massimo di disciplina.

La classe operaia italiana sa di non potersi emancipare e di non poter emancipare tutte le altre classi oppresse e sfruttate dal capitalismo nazionale, se non esiste un sistema di forze rivoluzionarie mondiali cospiranti allo stesso fine. La classe operaia italiana è disposta ad aiutare le altre classi operaie nei loro sforzi di liberazione, ma vuole avere anche una certa garanzia che le altre classi l’aiuteranno nei suoi sforzi. Questa garanzia può essere data solo dalla esistenza di un potere internazionale fortemente centralizzato, che goda la fiducia piena e sincera di tutti gli associati, che sia in grado di mettere in movimento i suoi effettivi con la stessa rapidità e con la stessa precisione con cui riesce, per suo conto e nell’interesse della borghesia, il potere mondiale del capitalismo.

Appare evidente così che le questioni che tormentano oggi il Partito socialista e che saranno definite al Congresso di Livorno non sono mere questioni interne di partito, non sono conflitti personali tra singoli individui. A Livorno si discuterà il destino del popolo lavoratore italiano, a Livorno si inizierà un nuovo periodo nella storia della nazione italiana.

 

Immagine di copertina da commons.wikimedia.org