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L’aroma dell’autunno oltre il capitale

Esce finalmente in italiano il libro di Anna Tsing “Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo” (recentemente tradotto da Gabriella Tonoli per i tipi di Keller), in cui l’autrice segue la vita di un fungo per scoprire come tramite i suoi molteplici con-divenire ed assemblaggi esso diventi una “terza natura” che riesce a vivere “malgrado il capitalismo”. Una potente metafora politica delle alleanze tra natura e cultura.

Il trickster è, in ogni fiaba, favola e mito, figura irresolubilmente ambigua. Figura che gioca brutti scherzi e tiri mancini, per poi apparire come magico e soprannaturale aiutante, collaboratore goffo e, appunto, un po’ briccone. Il trickster spesso agisce in un tempo lontano che è il tempo dell’inizio del mondo, l’ora sorgiva delle cosmogonie. O, all’opposto, veste i panni di divino imbroglione e quasi per scherzo sprona e pungola le schiere dell’Apocalisse, mettendo fine alle cose della natura. Il trickster si fa gioco, possiamo dircelo, del tempo dell’inizio e del tempo dell’epilogo. Tempi che abita volentieri e che volentieri confonde e congiunge – mutaforme, baro dabbene – col suo incedere scaleno qui e ora. «Si racconta», così inizia la favola naturalculturale di Anna Lowenhaupt Tsing, «che quando nel 1945 Hiroshima fu distrutta dalla bomba atomica, la prima forma di vita a spuntare in quel paesaggio raso al suolo fu un fungo matsutake» (p. 25). 

Il fungo atomico che si erge e si spande verso il cielo e il fungo umido che leva il capo dalle macerie: il fungo alla fine/inizio del mondo, che ne ha – fra l’altro – intessuto l’intermezzo. Ricerche recenti suggeriscono che siano stati proprio loro, assemblaggio ctonio abitante il pianeta da un miliardo di anni, a traghettare le piante sulla terraferma. E, senza dubbio, sono i funghi gli psicopompi responsabili della quasi totalità dei processi di putrefazione: redistribuiscono elementi, nutrienti, materia, aliti, miasmi e soffi per tutto il globo. Decompositori, o meglio, ri/compositori, i funghi tramano reti di comunicazione e di scambio entro il suolo, e nel loro ordito coordinano albero e albero, albero e animale, animale e animale, albero e fungo, fungo e animale (e albero: e daccapo, senza fine e senza inizio). Progettano, insomma, alleanze con leggerezza, modesti e distratti intessono ecosistemi; guidano, armonizzano composizione e rapporti degli altri abitanti della terra, senza destare grandi attenzioni o sospetti o clamore. «Mushrooms are very clandestine, and very much the trickster», sorride sornione Paul Stamets, entusiasta e ispirato mitologo/micologo d’oltreoceano.

Il fungo di cui racconta Tsing in Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo (recentemente tradotto da Gabriella Tonoli per i tipi di Keller) è, per essere precisə, il Tricholoma matsutake o Tricholoma nauseosum, forse ancora Tricholoma magnivelare, a seconda di chi s’interpelli – da clandestino viaggia il mondo sotto più identità e non disdegna di assumere nuove spoglie e disparati nomi. Più che un fungo, una micorriza, ossia fungo+pianta: associazione (a delinquere? lasciamo il giudizio a chi legge) che si realizza a livello dell’apparato radicale del vegetale. Una simbiosi che dà alle due parti beneficio reciproco: sali, acidi e idrossidi al fungo; azoto, informazioni e una maggiore capacità d’assorbimento e assimilazione alla pianta. Nel caso del matsutake, la specie compagna è spesso il pino rosso giapponese, Pinus densiflora. Altrove la betulla, la quercia, o gruppi misti di latifoglie, abeti e cedri. Accade, infatti, che nei terreni spogli, esiti ora di frane, ora di incendi, o disboscamenti o nucleari disastri, s’innestino specie pioniere, come appunto il pino: soggetti curiosi, resistenti e dalla dura scorza, poco esigenti in tema di qualità del suolo – anime minime e intrepide che si fanno largo nella wasteland proprio grazie alla mediazione del micelio fungino e delle sue ife. Altre volte il fungo si aggiunge, invece, a cose fatte (quando le pioniere hanno lasciato il passo, con terreno ormai arricchito e rimpolpato, ad altre specie decidue). Se non c’è, quindi, niente più che indizi e tracce a indicare dove il matsutake possa trovar casa – ma solo una sua preferenza nel generare consorterie per contagio – rimane comunque una salda certezza: cerca e ricerca, non lo si vedrà mai insediarsi in intenzionale coltura. «I matsutake sono risultato di una coltivazione non intenzionale, perché l’attività umana rende la presenza dei matsutake più probabile – malgrado il fatto che gli uomini siano del tutto incapaci di coltivare i funghi» (p. 224).

La micorriza rifugge la destinazione altrove decisa e l’assegnazione di un ruolo definitivo. Non la si può allevare, non ne si può progettare l’insorgere e la crescita. L’unica costante a cui si accosta, per dir così, è una qualche inconsistenza o incostanza del paesaggio. Vediamo bene, allora, perché i luoghi che ospitano il matsutake – Giappone centrale, Oregon, Lapponia e Yunnan – sono accomunati non da una stessa storia, né da uno stesso processo, ma da un caso comune. Se nel satoyama giapponese è necessaria la pianificazione umana al fine di agevolare la ricomposizione ecosistemica di piante-animali-umani, andrà invece diversamente negli Stati Uniti o in Cina, dove la preoccupazione dei forestali è di diradare e il più possibile sfoltire l’umano intervento, così che la foresta, dal manto disboscato, si ricrei in autonomia. Diverse sono anche le specie di partenza, la composizione del suolo, la quantità di luce filtrata dalle foglie. Quel che sappiamo, narra Tsing, è che a un certo punto di questo percorso si farà avanti il fungo: a diverse altezze, longitudini – in diversi momenti! – si realizzerà una felice congiunzione, un fortunato assemblaggio. Coincidenza che assesta un colpo micidiale all’idea di Natura incontaminata che, ora titubante, ora con orgoglio, si riprende ciò che le è stato sottratto in maniera artificiosa dal cosiddetto artificiale: l’humorale matsutake s’infiltra invece, senza pretese di possesso, in un brulicante sottosuolo formatosi per vie composite e sempre meticce, terreno comune che è già sempre coesistenza e coabitazione, in cui è benvisto il transito e l’invito, più che alla proprietà, al gioco.

Ecco che all’inizio come alla fine del fungo (del fungo alla fine/inizio del mondo) s’aggiunge, alla già fruttifera alleanza micelio-radice, un nuovo peculiare attore, attirato nel cuore della foresta dal pungente e tanto raro aroma di quel corpo fruttuoso. Tsing lo racconta a partire dal caso dell’Oregon: «Che cosa emerge nei paesaggi saccheggiati, oltre al richiamo della promessa industriale e della rovina? Dal 1989 succedeva qualcosa di nuovo nelle foreste disboscate […]: il commercio di funghi selvatici» (pp. 44-45). Perché il matsutake è una rarità (venduto in tutto il mondo a prezzi stellari, in Giappone diviene addirittura fulcro di un cerimoniale scambio di doni), e così attrae e incanta una variegata comunità di raccoglitori – a metà strada, perché sempre d’ibridi e d’incontri si tratta, tra cercatori autorizzati e irregolari banditi; la nutrita comunità dei cosiddetti picker, che di questa opportunità si nutre. O quantomeno cerca di nutrirsene, di metter qualcosa sotto i denti. Nuovə trickster, nuovə onestə truffaldinə, che nell’occasione e nella congiunzione – a cui Tsing dà il nome di Open Ticket: asta altalenante, luogo di scambi, trama densa di transiti e compravendite – mettono radici. Proprio come i funghi tanto ambiti, anche i loro «cercatori – veterani disabili, rifugiati asiatici, nativi americani e sudamericani clandestini – erano intrusi e invisibili» (p. 45).

Intrusi e invisibili dalle identità più variegate: nuova, imprevedibile e casuale, creazione di in-comuni assemblaggi. Perché se sino alla fine del XX secolo una forte politica welfarista modellava a proprio piacimento, e a propria foggia, ogni immigratə in nuovo americano – cancellando il loro passato, scrive Tsing, come scriveva anche Adorno in Minima moralia (§ 25): «La vita passata dell’emigrante è, come è noto, annullata» –, oggi è proprio «l’erosione di questo apparato del welfare statale che molto semplicemente ci aiuta a spiegare perché gli asiatici sudorientali americani di Open Ticket hanno sviluppato un rapporto così diverso con la cittadinanza americana» (p. 155). Assimilazione più debole, minor presa della narrazione capitalista d’inesausto progresso, minore fedeltà alla promessa americana di libertà del singolo e del self-made man. Nessuna volontà di riparare quel che è stato spezzato, di accettare riparazione e risarcimento per la propria vita d’esule e d’avanzo (pronto a de e ri/comporsi, coi matsutake): Open Ticket è infestato da molti fantasmi, primo fra tutti un insoluto debito che ci si rifiuta di vedere, per via di accettazione o riconoscimento, estinto. E, dunque, maggiore possibilità d’infilarsi tra le pieghe e le piaghe del capitale, di trapelare e di intromettersi, di allestire contro-alleanze e vie di fuga. «Open ticket è composta da troppe persone e storie perché si inseriscano direttamente in una descrizione coerente attraverso cui in genere immaginiamo la “cultura”. Più utile adottare il concetto di assemblaggio – un intreccio aperto di modi di essere. In un assemblaggio, traiettorie varie finiscono per influenzarsi reciprocamente, ma conta l’indeterminazione» (p. 132). Rifugiatə, immigratə di prima, seconda… generazione, ex veteranə, che come i funghi tanto ricercati si sottraggono a una organizzazione imposta dall’alto: creano, piuttosto, fermento nel terreno, e si muovono un po’ nascostə nel suolo. Identità disparate, ma tutte irrintracciabili – ancora Adorno sulla posizione dell’emigrante: «Ciò che non è reificato, che non si presta a essere contato e misurato, viene lasciato cadere» (Minima moralia, § 25). A chi abita i margini, la precarietà e una certa irriconoscibilità, è dato quantomeno muoversi, non sempre e non del tutto sorvegliatə, in quel sistema che l’ha rigettatə – mordi la mano che non ti nutre – e trarne un qualche vantaggio, per sé come i propri compagnə.

Alla fine del mondo, o perfino al di là di un mondo esaurito, è possibile viverne le rovine? Come abitare la terra bruciata del/dal capitalismo? Nelle pagine introduttive della sua fabula speculativa, Tsing prospetta letteralmente una terza natura per poter sopravvivere: «Immaginate che “prima natura” faccia riferimento alle relazioni ecologiche (compresi gli esseri umani), mentre “seconda natura” alle trasformazioni capitaliste dell’ambiente […]. Nel mio libro proporrò una “terza natura”, e cioè quel che riesce a vivere malgrado il capitalismo» (p. 12). Questa terza natura sono tutte le persone che da Open Ticket si mettono in cerca del profilo morbido e allettante del matsutake, i matsutake stessi, chi contratta sottobanco per una migliore partita, chi valica i confini senza lasciapassare e passaporti, gli alberi pionieri che cominciano sempre rinnovati cicli sui terreni riarsi, gli uccelli che ne spargono nuove sementi, il vento che sposta le spore fungine di continente in continente… La terza natura più che sopraffazione e sopravvento della prima sulla seconda (e daccapo: della Cultura sulla Natura, e della Natura sulla Cultura, così ogni volta daccapo), è una questione sotterranea, di clandestinità e meticciamento. Una questione da trickster fungino, rifugiatə hmong e pensiero dialettico: che è la stessa cosa se, come afferma Adorno con insistente ma gradita interferenza, «il compito della dialettica è di dare lo sgambetto alle sane opinioni circa l’immodificabilità del mondo» (Minima moralia, § 45).

La sopravvivenza è una questione, anche, di saper creare connessioni, divenire-con. Per creare un valore alieno e irreperibile al valore di scambio (matsutake+gioia di coləi che lo ha trovato, che quasi s’appunta sulla giacca, o s’appunta a mente, un qualche trofeo; matsutake+gioia di riceverlo in dono, e ancora fungo+gioia di darlo in dono: autunnale offerta d’amore e d’amicizia e d’intesa e di pace). Che è quel che avviene a Open Ticket, quel che avviene tra i funghi, le loro ife, i corpi fruttosi. E che avviene assieme agli animali umani e non, che ne ricercano l’aromatica scia nelle frange del bosco. Che avviene anche tra le pagine di Tsing: «Per scrivere una storia della rovina, dobbiamo seguire i brandelli di molte storie ed entrare ed uscire da molte patch. Nel gioco del potere globale, gli incontri indeterminati rimangono importanti» (p. 314). Pagine che per questo sono intreccio favolistico. L’autrice ricorda, infatti, che se i filosofi occidentali hanno sempre, o spesso, presentato una Natura maestosa, meccanica e muta, «il compito di ricordarci delle attività vitali di tutti gli esseri viventi, umani e no» e dei loro incontri e scontri, dei loro patti, disavventure, peripezie e associazioni, è sempre toccato in sorte «agli autori di favole, anche non occidentali e non civilizzati» (p. 11).

Un’ultima volta, infine, torniamo allora ad ascoltare Adorno: «I testi elaborati come si conviene sono come ragnatele: fitti, concentrici, trasparenti, solidi e ben connessi. Essi attirano a sé tutto ciò che si aggira nei dintorni. Metafore che li attraversano per caso, diventano una preda nutriente. Materiali affluiscono da ogni parte […]. Il pensiero che ha dischiuso una cellula della realtà, penetra, senza violenza del soggetto, nella cellula accanto. Dimostra di essere in rapporto con l’oggetto quando altri oggetti si cristallizzano intorno ad esso. Nella luce che dirige sul proprio oggetto, altri cominciano a scintillare» (Minima moraliaDietro lo specchio). I testi elaborati come si conviene sono cioè come i filamenti del micelio: si ramificano sotterraneamente, impegnandosi in un gioco di dono e controdono con chi incontrano. Come il micelio, anch’essi variano in forma e colore, si fondono assieme in frutto, si uniscono, simbionti, a stralci d’altra specie – mostrandone pertanto l’inanità? Come il micelio – in larga parte inesplorato l’ordine segreto dei funghi – possono avere uno, due, tre, quattro, n sessi e identità e nomi – mostrandone quindi l’inanità? Forse i testi elaborati come si deve, come èIl fungo alla fine del mondo, sono favole sul mutuo appoggio: ce ne mostrano la possibilità, dischiudono e fanno brillare alternative non ultramondane né celesti, ma carsiche, sotterranee, ipogee, sempre presenti e diffuse sotto i nostri piedi e i nostri occhi. Ci svelano un segreto, da mantenere in comune. Mostrano la possibilità dello sconfinamento, invitano alla relazione – a non reciderla, sotto l’imperativo dello sfruttamento. «Fortunatamente abbiamo ancora compagnia, umana e non umana. Possiamo ancora esplorare le estremità incolte dei nostri paesaggi deflagrati – i margini della disciplina capitalista, della scalabilità e delle piantagioni di risorse in stato di abbandono. Possiamo ancora cogliere l’aroma di terreni comuni latenti – e l’inafferrabile aroma dell’autunno» (p. 407). 

L’immagine di copertina è in creative commons, le altre sono tratte dal documentario Fantastic Fungi