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Wendy Brown: lo svuotamento silenzioso della democrazia

Quando l’economicizzazione dell’esistente, fatta di rating e ansia da prestazione, sostituisce la politica, la democrazia entra in crisi. Questa la tesi del libro di Wendy Brown, “Il disfacimento del demos”, uscito da poco in italiano per Luiss University Press

In Il disfacimento del demos. La rivoluzione silenziosa del neoliberismo (traduzione di Chiara Veltri, prefazione di Dario Gentili, Luiss University Press) la filosofa statunitense Wendy Brown pone una serie di domande ineludibili per interpretare in direzione trasformativa la cosiddetta “rivoluzione libertaria” (libero mercato in libera vita): la riformulazione odierna di un progetto teso alla completa economicizzazione dell’esistenza di tutti e di ciascuno. «Quali ordini economici e politici alternativi potrebbero favorire la libertà, l’uguaglianza, la comunità e la sostenibilità sulla Terra e impedire il dominio di immensi apparati amministrativi, di mercati complessi e di popoli e parti del mondo storicamente potenti? Quali organizzazioni alternative della politica e del sistema economico globale potrebbero onorare le differenze storiche, culturali e religiose tra le regioni? All’interno di queste organizzazioni, cosa o chi prenderebbe e attuerebbe le decisioni sulla produzione, la distribuzione, il consumo e l’uso delle risorse, le soglie di popolazione, la convivenza tra le specie e la finitezza terrena? […] Dove stanno andando lo Stato-nazione o il diritto internazionale?» (p. 191) E ciò che sospinge l’incalzante riflessione di Brown è la denuncia senza sconti della pericolosa sostituzione del politico – il movimento in grado di materializzare l’aspirazione a una democrazia radicale – con l’economico – la stasi in grado di mettere a repentaglio anche il più flebile afflato democratico.

In dialogo con Foucault – e, in particolare, con i suoi tanto chiacchierati e poco compresi corsi al Collège de France del biennio 1978-1979 – Brown sottolinea innanzitutto i limiti della visione del filosofo francese, in primis la messa tra parentesi delle politiche economiche del liberalismo a favore di un interesse per le norme e le regole intese a stabilire le modalità con cui l’attuale ragione di Stato intende performare società e soggetti. «Per Foucault il neoliberalismo non era né una fase del capitalismo né era stato concepito in reazione alle crisi del capitalismo, bensì era una “programmazione nuova della governamentalità liberale” intellettuale e politica, che aveva preso piede inizialmente nella Germania del dopoguerra evidenziandosi sempre più in altre parti dell’Europa all’epoca delle sue lezioni» (p. 47). Questo, comunque, non esclude – come Brown sottolinea più volte – la necessità di riconoscere a Foucault la capacità di individuare il passaggio dal liberalismo al neoliberismo nel milieu di una razionalità politica che intende far coincidere i principi economici del libero mercato con quelli che determinano gli interessi e le politiche degli Stati. 

In questo passaggio epocale, l’economia diventa contemporaneamente oggetto e progetto. E questo – sempre con Foucault – grazie a un processo di veridizione che mette nella condizione di prevederestimare e, infine, modificarequanto nella popolazione rimane – e dovrebbe rimanere – imprevedibile e aleatorio, al fine di sviluppare norme e condotte che governano per, e non a causa del, mercato. Lo Stato, cioè, non essendo più in grado di occuparsi della società e dei suoi problemi – disoccupazione, disparità di reddito, degrado ambientale, distruzione del sistema sanitario pubblico ecc. – dal momento che le politiche economiche si oppongono frontalmente a quelle sociali, si trasforma in un supplemento dell’economia. Di pari passo e di conseguenza, nella fase della finanziarizzazione dell’economia neoliberista, ləlavoratorə si trasformano in capitale umano, si fanno capitale e non più produttorə di capitale. Si tratta di fare dell’impresa non più una mera attività economica finalizzata allo scambio di merci, ma un assunto che trova nella sua stessa etimologia – assumere sopra di sé – la propria potenza pervasiva capace di plasmare e permeare la società nella sua interezza e in ciascuna delle sue articolazioni.

È evidente che questa trasformazione del soggetto politico in soggetto economico non possa che produrre una valorizzazione dell’esistenza in base al merito. Il rating, che oggi pervade ogni sfera sociale ed esistenziale, obbliga l’individuo a investire in/su sé stesso per aumentare il proprio valore e garantirsi un «credito reale o immaginario, in tutte le sfere della sua esistenza» (p. 34), materializzando in ogni centro nevralgico della società civile – la scuola, l’ospedale, il comune ecc. – l’insistenza dell’imperativo a mettere in atto prestazioni sempre più consone ad aumentare il valore personale sul mercato dell’esistere e, quindi, capaci di attrarre sempre più investitori.

L’ansia da prestazione, però, produce il maggior obbligo della post-democrazia contemporanea: la paura. È infatti sulla sicurezza della persona che attualmente vertono le uniche preoccupazioni “filantropiche” della governamentalità neoliberista, che ha sviluppato una ben precisa concezione di cittadino. Cittadino che, come afferma Evelyne Pieiller (“Le monde diplomatique”, dicembre 2020), deve «impedire che il sentimentalismo, il senso di colpa o la generosità dell’altruismo offuschino le reali poste in gioco». Anche per Brown, le pratiche di responsabilizzazione che la governamentalità neoliberale naturalizza come parte integrante del neo-soggetto economico sono attive nello smantellamento del demos. In questo processo l’individuo è riconfigurato come homo oeconomicus, legato mani e piedi alla crescita macroeconomica e all’aumento del credito esistenziale oltre che monetario; per questo dobbiamo chiederci, scrive Brown, che cosa non siamo, cosa è stato reciso e cosa abbiamo perduto (forse la nostra animalità?) piuttosto che chiederci che cosa siamo diventati e perché (pp. 76 ss.).

Un’altra domanda fondamentale della filosofa americana riguarda la questione femminile. Brown, infatti, si domanda, con la giusta dose di umorismo corrosivo, se l’homo oeconomicus abbia o meno un genere. Esiste, cioè, una femina oeconomica? Gli economisti riconoscono esclusivamente una differenza formale di genere. Per il femminismo, però e come è ben noto, tale presunta neutralità universalizzante è tanto fittizia quanto oppressiva poiché l’unico interesse del neoliberismo è perseguire la naturalizzazione della sua ideologia reazionaria e conservatrice. Se sono la famiglia eterosessuale e una differenza sessuale che si esaurisce nelle quote rosa a costituire il centro del suo investimento economico, politico e culturale, «qual è – si domanda Brown – l’esito semiotico dell’oscillazione tra individuo e famiglia quando l’homo oeconomicus è rappresentato come capitale umano che ha la meglio su tutte le altre immagini dell’essere umano?» (p. 91). E, tuttavia, quale ordine di dominio viene prodotto e riprodotto nel momento in cui a essere prodotto e riprodotto è il realismo capitalista? La risposta a queste domande è una sola: l’individuo prodotto dal neoliberismo è «maschio e maschilista, all’interno di un’ontologia economica e di una divisione del lavoro che presenta persistenti classificazioni di genere» (p. 95).

Lo snodo centrale della riflessione di Brown è il riconoscimento che se la governance non è una caratteristica esclusiva del neoliberismo, non esiste neoliberismo senza governance. Governance che può darsi solo nell’istituzionalizzazione dei meccanismi di esclusione di chi dissente dalla narrazione dominante e dalla retorica magnifica e progressiva del mercato. Tale discriminazione è perseguita proprio attraverso quelle verifiche atte a valutare ogni aspetto dell’esistenza degli individui in base alle loro prestazioni, alle loro performance e alla trasparenza dei dati che ne stabiliscono la rendita come capitale umano. Per Brown è questo deragliamento istituzionale nella gestione della cosa pubblica a segnare il disfarsi del demos. Se perfino l’ONU definisce la governance, anzi la «good governance», come «il processo decisionale attraverso cui le decisioni vengono messe o meno in pratica» (p. 111), diventa comprensibile come le nuove dinamiche del potere non abbiano più le caratteristiche su cui in passato convergevano critica e conflitto, ma siano invece il prodotto di un totalitarismo che coinvolge, interpella, sollecita e soggettivizza (assoggettado) tutti gli attori in campo. 

Restituendo a Foucault quello che è di Foucault – ultimamente reinterpretato neoliberisticamente come filosofo neoliberista – possiamo affermare, insieme a Brown, che «“governance” ha una valenza positiva e normativa: pur identificandosi con quella che spesso viene descritta come la dispersione del potere specifica della modernità, e funzionando in base a essa, ne afferma i vantaggi e l’importanza di sfruttarli efficacemente» (p. 111). La governance rimpiazza la disciplina del potere pastorale con la negoziazione e la persuasione occulta – il controllo – del bio-potere. La democrazia viene così riformulata in chiave apolitica, diventa vuoto contenitore formale separato dal governo della cosa pubblica, puro schema procedurale, algoritmo di calcolo. In tale scenario l’obbedienza è sostituita dalla responsabilità individuale come forma di resilienza, come capacità di adattarsi alla riformulazione del demos al fine di poter almeno sopravvivere.

A tal proposito, l’ordinanza 81 di Bremer è paradigmatica. Questa ordinanza è «la legge sui brevetti, il design industriale, le informazioni segrete, i circuiti integrati e le varietà di piante», con cui nel 2003 gli Stati Uniti intendevano ricostruire “democraticamente” l’Iraq devastato dalle incursioni occidentali e include il divieto di «riutilizzare le sementi di varietà protette» (p. 126). Il che dimostra – ammesso che ce ne sia ancora bisogno – che anche le “guerre umanitarie” altro non sono che il mezzo per esportare la governance neoliberista (non la democrazia!), suggellando nel caso in esame la dipendenza degli agricoltori iracheni dall’agribusiness occidentale facendo ricorso, dopo i droni e le bombe, all’arma del ricatto (da) multinazionale: «La fornitura americana di sementi geneticamente modificate nel 2004 può essere paragonata a un’offerta di eroina a una madre single senza lavoro che sta per essere sfrattata e guarda al futuro con disperazione» (p. 127).

Oggi è proprio la disperazione a paralizzare qualsiasi tentativo da parte della sinistra radicale di avanzare una reale alternativa alla razionalità neoliberista. Un altro mondo è possibile, ci chiediamo allora con Wendy Brown? Se la soluzione neoliberista alle crisi ambientale, politica, sociale ed economica continua a essere l’apologia del mercato, il fronte democratico dovrebbe sentirsi chiamato a ripoliticizzare la democrazia grazie al potere di sapere. Per contrastare la disperazione della civiltà occorrerebbe, infatti, decostruire prima di tutto l’insostenibile leggerezza teorica che sostiene la razionalità neoliberista. Il potere di sapere con cui Brown designa un possibile cambiamento dei paradigmi che economicizzano l’esistenza può in tal modo rispecchiarsi nelle pagine profetiche di Marcuse, pagine in cui il filosofo francofortese auspica la dimensione estetica come riserva di libertà e di radicalità sovversive.

Toni Negri chiama questa dimensione comunismo. Un percorso di conoscenza nel quale la posta in gioco non è il potere in sé, quanto «il potere di essere liberi, di lavorare meno, di volerci bene. […] Comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale» (“Alias”, 5 agosto 2023).

L’immagine è presa da Wikimedia Commons