EUROPA

La Serbia e i vaccini: tra eredità jugoslava e scelta di non allinearsi

Alla fine dello scorso febbraio la Serbia ha scalato la classifica delle nazioni con il maggior numero di vaccinati, lasciando una domanda in sospeso: come ci sono riusciti?

Per quanto intricate possano essere le politiche statali, le questioni riguardanti le relazioni tra gli stati sono di gran lunga più complesse. Lo sviluppo storico e la posizione geografica svolgono un ruolo importante nel determinare l’importanza di uno stato a livello internazionale, così come l’attuale potere politico ed economico. Tuttavia, i parametri che permettono di misurare questi fattori non sono sempre evidenti, né si prestano facilmente a calcoli e proporzioni. Un esempio è la Serbia, per molti versi un paese del “terzo mondo” (principalmente per come è stata trattata a livello politico ed economico) che, durante la pandemia da coronavirus, è riuscita a garantire l’accesso ai vaccini, al momento tra le risorse più ambite al mondo, e a ottenerne un volume molto maggiore rispetto alle previsioni, dettate dall’importanza del paese e dal suo peso globale. Perché è stato possibile e come è avvenuto?

Sono molti i fattori che hanno determinato questa situazione. Il primo riguarda lo spazio storico occupato dalla Serbia, che differisce dallo spazio geografico, da cui tuttavia dipende. Per quanto i confini di quest’ultimo siano ben definiti, considerando che la Serbia era parte integrante dell’ex Jugoslavia (ne era la repubblica più vasta, e Belgrado fungeva da capitale e sede delle istituzioni governative), è lo spazio storico a essere particolarmente esteso. Al suo interno, terminata la Seconda guerra mondiale, le parti interessate decisero come si sarebbe dovuta comportare la Jugoslavia e, di conseguenza, la Serbia. Nel processo di adeguamento – e a tratti di opposizione – a queste aspettative si venne a creare un’identità particolare, che ha dato alla Jugoslavia un ruolo unico nello scacchiere internazionale, riassunto dalla frase, trita e ritrita, del “ponte tra Est e Ovest”. E per quanto la narrazione postmoderna contemporanea provi a rinnegare i concetti che sono fondati su determinanti storico-geografiche, resta il fatto che questi sono ancora parte della nostra realtà – esistono come confini invisibili che attraversano il globo.

 

Dopo la fine della Guerra fredda, è proprio in una di queste ragnatele invisibili che si è trovata invischiata la Serbia. Questo si sarebbe dimostrato il secondo vantaggio fondamentale nella pandemia: il limbo in cui si trova costretta, da un lato l’Europa, dall’altro Pechino e Mosca.

 

Si danno a volte situazioni in cui la distanza volontaria o imposta dalle tendenze in atto diventa un vantaggio per alcuni, perché offre maggiore libertà e margine di manovra entro cui operare. Negli ultimi trent’anni, la Serbia è stata un outsider politico ed economico, l’opposto dell’ex Jugoslavia, destinata, così sembrava, a perdite costanti. Tuttavia, come ben sappiamo, i grandi sconvolgimenti storici – e la pandemia ne è un esempio – portano opportunità anche agli outsider.

 

 

E così la Serbia, non allineata, indipendente dalla burocrazia europea, pur essendo questa sempre alla sua portata, capace di mantenere buoni rapporti con Pechino e Mosca – senza diventarne dipendente –, è riuscita a sfruttare questo limbo a suo vantaggio, a ottenere risorse occidentali e orientali, assicurandosi un posto tra quei privilegiati, l’1% della popolazione mondiale, che hanno accesso a dosi sufficienti di vaccino, almeno per ora. In altre parole, il ruolo designato dal clima politico attuale non sempre rispecchia la realtà ed è spesso solo un miraggio. Uno stato che occupa una posizione marginale nello scacchiere politico internazionale può modificare il proprio ruolo e diventare trainante, almeno in un settore.

Il che ci porta alla terza fondamentale ragione per cui la Serbia ha tratto vantaggio da questa situazione: la distribuzione politica dei vaccini. Per quanto la pandemia sia una catastrofe naturale, la risposta, in termini di misure adottate (coprifuoco, lockdown, il modello svedese), e il modello attuale di fornitura e distribuzione dei vaccini sono stati tutt’altro che naturali (o umani): sono stati marcatamente politici.

 

Lo spazio storico sopra menzionato e il limbo in cui si trova la Serbia non avrebbero aiutato se la distribuzione dei vaccini non fosse tanto politicizzata. In tal senso, c’è un’acuta polarizzazione tra i vaccini occidentali e quelli orientali, e questa volta a dividere il mondo è stata una Cortina Immunologica.

 

In un momento storico in cui l’Europa stenta a soddisfare i proprie bisogni, figurarsi aiutare i paesi al di fuori dell’Unione europea con il piano COVAX (la Serbia non ha ancora ricevuto un singolo vaccino dall’Europa), la Serbia si è dimostrata il banco di prova ideale per i soft power di Mosca e Pechino. [Anche in assenza di dati ufficiali, sulla base delle dichiarazioni della stampa è possibile stabilire che la Serbia ha ricevuto 2,6 milioni di vaccini dall’inizio di marzo, dei quali due milioni da Sinopharm, 150.000 da AstraZeneca, circa 300.000 da Sputnik e circa 150.000 da Pfizer. Tutti i vaccini sono stati ottenuti tramite accordi bilaterali.]

In breve, il fatto che la Serbia al momento abbia il tasso di copertura vaccinale completa (per milione di persone) più alto d’Europa e il secondo tasso di vaccinati – per prima e/o seconda dose – più alto è il risultato di un sistema complesso in cui processi storici e interessi politici sono interconnessi e in cui la Serbia ha accettato il proprio ruolo con un unico interesse: salvare i propri cittadini. [Questa era la situazione al momento della stesura dell’articolo; adesso (fine marzo 2021), il tasso di vaccinazione della Serbia è il terzo più alto in Europa, con 32,94 dosi ogni 100 abitanti, dietro a Regno Unito (46,79) e Malta (36,3) secondo quanto affermano i dati di statista.com.]

Tutto questo serve a spiegare perché la Serbia ha potuto trarre vantaggio dalle circostanze attuali. Non significa, tuttavia, che il governo serbo – che ha nondimeno mostrato la capacità di gestire e riconoscere il potenziale della propria posizione – abbia una prospettiva per gli sviluppi futuri, o che, all’interno della situazione attuale, abbia qualche possibilità di perseguire una politica internazionale completamente indipendente (o non allineata). [La Serbia ha avviato la procedura per accedere all’Unione europea ed è in lista di attesa per diventarne membro. Dal punto di vista politico ed economico è già molto orientata verso il modello europeo, motivo per cui agli occhi dell’élite politica serba le politiche adottate dall’Europa per fronteggiare l’attuale crisi di fatto lasciano indietro la Serbia e gli altri stati balcanici occidentali (per ora non un solo vaccino è arrivato dall’Europa ai paesi balcanici occidentali).]

 

Per quanto riguarda la capacità della Serbia di tenere questo ritmo, le prospettive sono ottime. Tra le ultime notizie, Sinopharm ha annunciato che continuerà a consegnare grandi quantità di vaccini per tutto l’anno, aprendo inoltre uno stabilimento in Serbia prima della fine del 2021; la produzione dello Sputnik V, inoltre, è in fase di avvio.

 

 

Al momento, la Serbia ha abbastanza vaccini per coprire tutta la popolazione interessata, ovvero coloro che si sono registrati attraverso uno speciale sistema elettronico per farne richiesta (finora si contano all’incirca un milione e mezzo di cittadini registrati, un quarto della popolazione adulta). Negli ultimi giorni la Serbia ha raggiunto il picco di interesse nelle vaccinazioni e, visto l’arrivo nei prossimi giorni di un altro milione di vaccini Sinopharm, sarà presto in una posizione tale da avere un certo surplus di vaccini rispetto al numero di persone interessate a riceverli. Pertanto, si troverà ad affrontare un problema imprevisto, che nessun altro paese europeo – e forse nessun paese al mondo – ha dovuto sinora affrontare: cosa fare con i vaccini in più. Una delle soluzioni è apparsa piuttosto ovvia: rendere disponibili i vaccini a coloro che li vorrebbero, ma che non possono accedervi.

 

La sfiducia in AstraZeneca ha contagiato anche la Serbia, spingendo molti cittadini a rifiutare il vaccino. Per questo motivo il governo, piuttosto che lasciar scadere le dosi, ha garantito ai residenti dei paesi dell’ex blocco jugoslavo (Macedonia del Nord, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro) l’accesso a Belgrado per ricevere il vaccino gratuitamente.

 

Anche se i motivi politici di una tale mossa sono piuttosto evidenti, non si può negare l’eccezionalità dell’evento, in particolare data la guerra civile che trent’anni fa ha dilaniato la Jugoslavia, lasciando molte ferite tuttora aperte. La possibilità data ai cittadini bosniaci, che durante la guerra hanno subito terribili atrocità da parte dei serbi e che consideravano la Serbia come il nemico, di arrivare a Belgrado per ricevere un vaccino che proteggerà le loro vite, potrebbe essere un passo in più verso una riconciliazione balcanica.

Quali saranno i costi politici, per non parlare di quelli economici, del percorso intrapreso non è ancora chiaro. Tuttavia, questi sviluppi suggeriscono che la pandemia potrebbe portare notevoli cambiamenti nel posizionamento geopolitico della Serbia e nel ruolo che ricopre nei Balcani. Comunque vada, è ancora presto per giudicare.

 

L’articolo è stato pubblicato su lefteast. Traduzione in italiano di Riccardo Tarlini per DINAMOpress.

Sanja Radović è una storica di Belgrado, specializzata in storia diplomatica, politica estera jugoslava e nel Movimento dei paesi non allineati. Sta concludendo la tesi di dottorato sulle relazioni diplomatiche della Guerra fredda tra Jugoslavia e Cina presso la Facoltà di Filosofia a Belgrado.

Immagine di copertina: In fila per il vaccino: code all’esterno del Sajam di Belgrado. Fonte: Twitter.com

Immagine nell’articolo: “Benvenuti” recitano i cartelloni fuori dalla Belgrade Hall, dove i vaccini vengono somministrati ai visitatori dalle nazioni confinanti. Fonte: faktor.mk