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La realtà del possibile

In “Ragione e rivoluzione” (1941), Herbert Marcuse libera Hegel dal fascismo, facendone autore imprescindibile per il pensiero critico e la lotta di classe, e indica, nella negazione determinata, la forza che distrugge l’irrazionale mondo del capitalismo maturo

«Ora quello che voglio sono Fatti. A queste ragazze e ragazzi insegnate soltanto Fatti. Solo i Fatti servono nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto. Solo con i Fatti si plasma la mente di un animale dotato di ragione; nient’altro gli tornerà mai utile».

Così prende avvio Hard Times – For These Times, il capolavoro di Charles Dickens del 1854. Hegel e la sua Scienza della logica, per Marcuse ormai americano, sono il martello con cui fare in pezzi il “muro” utilitarista di Thomas Gradgrind, di quelli della sua specie e di quelli di lui peggiori. La Ragione contro i fatti. Rispetto a Dickens, la scena è cambiata, e non poco: la borghesia non è più classe sociale in ascesa, non va più a braccetto col progresso, ma è divenuta terrore e fascismo. È il 1941, infatti, quando Marcuse pubblica Ragione e rivoluzione. Hegel e il sorgere della «teoria sociale»; il mondo è in guerra, nell’Italia di Mussolini, tramite Giovanni Gentile, Hegel è riferimento di regime. Anche nel 1960, quando il testo viene pubblicato per la seconda volta, la borghesia non è davvero più quella vittoriana: da Keynes e da Roosevelt, più precisamente dal 1917 bolscevico, è stata educata alla programmazione e alla spesa pubblica, al salario indiretto (il Welfare State) e al contenimento della rottura proletaria. Eppure, nella iniziale Nota sulla dialettica, Marcuse scrive: «questo potere dei fatti è un potere di opprimere».

La dialettica in questione non cerca l’armonia, né prevede scorciatoie, piuttosto distrugge e crea. La durezza del dato di fatto, la sua supposta permanenza, fanno del mondo una pietra eterna, del capitalismo e del suo «principio di prestazione» le più alte espressioni della natura umana. D’altronde, se la realtà è solo ciò che appare, la tecnica è un destino, con essa i lager nazisti e tutto il resto. Se il pensiero poi descrive, la conoscenza si adegua, semmai violenta e sconfigge (la natura non umana, i più deboli, i poveri, ecc.), ma pur sempre di fatti si tratta. Hegel è invece maestro di libertà, secondo Marcuse, perché in primo luogo insegna che la realtà non è una, ma è sempre doppia; insegna soprattutto che essa è il risultato, temporaneo e in continuo movimento, di un processo denso di contraddizioni. Quando Marx, diversi anni dopo, scopre il «doppio carattere» (Doppelcharakter) del lavoro rappresentato nelle merci, non ha dimenticato l’insegnamento hegeliano, di quella Scienza della logica che lo accompagna – al pari dell’Etica nicomachea di Aristotele – nella scrittura del Capitale.

Ma cosa vuol dire che la realtà è doppia? In primo luogo significa pensare secondo il ritmo del divenire, con Eraclito e non con Parmenide. E non basta assumere che il dato è risultato, emergenza singolare all’interno di una totalità (organica) in via di sviluppo. È necessario ammettere la realtà del possibile, ovvero la «possibilità reale». In questo senso, allora, la logica di Hegel è per Marcuse un’ontologia (L’ontologia di Hegel è il titolo del volume edito nel 1932 e da Marcuse scritto in aperta interlocuzione con Heidegger, in quel momento suo maestro a Freiburg). Se l’essere è compreso a partire dall’essenza, è perché quest’ultima non è un puro ente di ragione. Già qualche anno prima di Ragione e rivoluzione, in un breve saggio pubblicato nel quinto volume della “Zeitschrift für Sozialforschung” (1936), Marcuse aveva insistito con grande radicalità sul tema: grazie alla Dottrina dell’essenza, la trama delle circostanze che fanno di un ente un ente, da questo inviluppate e contratte, conquista la scena. Di lì, a Marx ancora giovane che, nelle Tesi su Feuerbach, definisce l’umana essenza come «l’insieme – ensemble, in francese, ci ricorda Balibar – dei rapporti sociali».

Chiaro, in Hegel è il pensiero, a lavorare corrosivo: la sostanza che si è fatta soggetto, movimento del togliere l’opposizione, del tornare a sé a partire dall’alterità – che è tanto esterna quanto interna –, dalla sua assimilazione (studiava Spallanzani, il ragazzo dello Stift di Tübingen). Eppure Marcuse non ha dimenticato un decisivo passaggio della Fenomenologia dello spirito, che ai più è parso di poco conto per lunghi anni, tanta l’importanza del signore e del servo e della loro lotta, e che invece lo aveva impegnato negli anni di Freiburg: la vita. È un circolo, il movimento di rotazione attorno all’asse, ma è l’essenza – creativa, produttiva, infinita – come processo immanente alla molteplicità degli enti finiti. Senza la vita, che è «in sé» riflessione ma che «rimanda a qualcosa d’altro rispetto a ciò che essa è», non vi è coscienza che diviene oggetto di sé, autocoscienza. L’essere umano, in primo luogo Begierde (desiderio), è dunque la vita, intesa come fonte o matrice, che si pensa. Ma, lo sappiamo continuando la lettura delle paginette note, è un pensare che è un fare, elaborare, trasformare: l’essenza, con il vivente che parla e che lavora producendo i mezzi della propria sussistenza, diviene storia. Dalle pagine della Fenomenologia dello spirito, dritti a quei Manoscritti parigini che Marx destina ai topi e che Marcuse, entusiasta, recensisce nel 1932, quando questi conquistano per la prima volta carattere pubblico in Germania.

La dynamis, insiste Zum Begriff des Wesens, non è una semplice possibilità logica, formale o trascendentale, è piuttosto «forza, sforzo, tendenza». Per un verso le circostanze che legano e fanno la cosa ciò che è, per l’altro la potenza che dall’interno spinge e si manifesta: in entrambi i casi, la realtà si è sdoppiata, è effettiva ma anche possibile. In questo sdoppiamento, la dialettica di Hegel consente a Marx di conquistare un materialismo della prassi, andando oltre quello della contemplazione caro a Feuerbach. L’essenza, chiarisce Marcuse, è «sovrabbondante», «eccedente», per questo c’è lotta di classe e non solo lavoro alienato, rivoluzione e non solo obbedienza. E se la prassi nega la realtà dello sfruttamento è perché, negando, produce: il modo con cui Marcuse intende la hegeliana «negazione determinata». Di più: la negazione istituisce perché si radica nella possibilità, già reale, di una maniera altra di riprodurre la vita comune. Così come non si nasce liberi, lo si diventa, pure la razionalità è un processo, e una lotta.

Marcuse non ha dubbi: solo con Marx, Hegel, è maestro di emancipazione. La lettura che ne propone è così di parte che, a volte, sembra di incrociare Spinoza – nelle pagine di Marcuse come in quelle di Hegel. Eppure, è solo dopo il Sessantotto che anche per Marcuse la dialettica comincia a cambiare natura. Nei soviet berlinesi durante la rivoluzione poi fallita che segue la Grande Guerra, l’autore de L’uomo a una dimensione torna a respirare l’alternativa comunista nel Maggio parigino e mondiale. Non è l’inabissamento della classe operaia – tra l’altro assai vivace in buona parte dell’Occidente europeo, prima e dopo il Sessantotto – a togliere determinatezza alla negazione, ma l’emergere di un proletariato nuovo, ricco di formazione e relazioni sociali, a fare di Eros forza costituente, dell’immaginazione produttiva fonte della ragione. La rivoluzione è ora e più che mai processo, contropotere, ma investe le forme di vita e le condotte, il rapporto tra i sessi e il linguaggio, l’arte e gli affetti. Con arnesi moderni, Marcuse è già contemporaneo.

 

Immagine di copertina: Roy Lichtenstein, Wall Explosion II, 1965