La logica dell’occupazione

Palestina, “l’occupazione è questione di controllo”.

Il 9 luglio Nariman Tamimi ha dovuto affrontare un processo presso il carcere militare di Ofer con un’accusa rara: violare una zona militare chiusa.

Nariman era stata arrestata nel suo villaggio durante una protesta nonviolenta, in cui non si tirò neppure un sasso. Quando è stata portata davanti al Giudice Militare, è stato provato, attraverso un video, che non aveva neppure fatto resistenza all’arresto, al contrario di quanto l’esercito precedentemente l’aveva accusata.

Nonostante ciò, la procura militare ha insistito a procedere con il suo caso.

Si può leggere qui il report della vicenda di Mairav Zonszein. Malgrado le accuse leggere e persino assurde contro Nariman – violare una zona militare chiusa all’interno dei propri terreni – il Procuratore Militare Regionale in persona, Colonnello Maurice Hirsh, ha condotto l’accusa durante una delle udienze, sottolineando la gravità con cui l’IDF (l’esercito Israeliano, ndt) ha riportato la vicenda.

Quale è l’interesse specifico dell’esercito in questo caso? La definizione di una zona militare chiusa in West Bank è abbastanza arbitraria e la popolazione viola l’ordine ogni giorno. Ma Nariman è la moglie di un attivista Palestinese molto conosciuto, e una possibile spiegazione sta nella logica delle azioni dell’IDF contro specifiche persone tra la popolazione palestinese dei territori occupati.

L’occupazione è questione di controllo. Spesso questo si fatica a capirlo. Gli attacchi barbarici e violenti in West Bank, e ancor di più a Gaza, sono frequentissimi, ma nel complesso Israele non sta cercando di sterminare la popolazione palestinese, né cerca di portarla al di fuori dei territori sotto il proprio controllo. Azioni simili non sarebbero tollerate dalla comunità internazionale, e anche molti israeliani si opporrebbero.

Al contrario tutte le entità che hanno a che fare con la popolazione palestinese, – in primo luogo l’esercito e in secondo luogo i servizi di sicurezza – cercano le modalità più efficienti per controllare la popolazione e impedire qualunque forma di resistenza.

I metodi sono estremamente diversi e cambiano di luogo in luogo e da un periodo ad un altro. I checkpoint e gli strumenti di controllo della folla sono le modalità più ovvie. Una rete di informatori e collaboratori è un altro metodo. Offrire alcuni privilegi alla leadership locale e nazionale è un altro di questi metodi. Rappresentanti dello stato israeliano spesso si dicono orgogliosi dell’asilo che Israele ha offerto ad alcuni gay palestinesi, ma l’orientamento sessuale è pure utilizzato ai fini del controllo, ed è noto che operativi dei servizi di sicurezza hanno ricattato gay palestinesi, minacciandoli di rendere pubblica la loro identità se rifiutano di fornire informazioni, e così via.

Uno degli aspetti più importanti del controllo, che quasi mai si discute, è il complicato sistema di permessi che Israele utilizza. C’è bisogno di un permesso dell’esercito per viaggiare fuori della West Bank, per attraversare il confine con la Giordania, per esportare e importare certi beni, per costruire strade e piantare alberi, per scavare pozzi d’acqua in certe aree, per lavorare in una colonia, per lavorare in Israele, per studiare all’estero, per visitare parenti a Gaza e così via.

Recentemente sono andato con un mio amico israeliano a partecipare ad una manifestazione settimanale in un villaggio Palestinese. Non erano molti gli abitanti che vi partecipavano. Nella piazza del villaggio il mio amico ha incontrato il falegname locale che conosce. Il falegname sta molto attento a non farsi vedere durante le manifestazioni. Ha un permesso di lavoro in una colonia- la stessa che ha preso la terra del villaggio e che è motivo delle proteste settimanali.

Il sistema di controllo recentemente è diventato la giustificazione ultima per qualunque azione violenta che Israele intraprende contro i palestinesi, perché Israele riesce a “operare sempre come forza di pace e di ordine”, mentre i palestinesi diventano “istigatori di caos e violenza”. In questo modo il dibattito sull’occupazione è sempre costruito al fine di servire gli interessi Israeliani.

Qualunque azione violenta che Israele intraprende contro la popolazione palestinese è giustificata con qualcosa che loro “hanno fatto” – una protesta, un piano terroristico, il blocco di una strada e così via. Negli anni ‘70 e ‘80, quando gli scioperi generali erano un tratto ricorrente dell’opposizione palestinese all’occupazione, l’esercito imprigionava i leader locali per anni sotto detenzione amministrativa, espelleva attivisti e obbligava i commercianti ad aprire i priori negozi. Quando le scuole e università si mobilitavano, l’esercito le chiudeva. Successivamente l’esercito israeliano iniziò ad agire con lo stesso grado di determinazione contro le manifestazioni di massa, il lancio di pietre, gli attentati suicidi, il lancio di razzi, o qualunque altro atto i palestinesi utilizzassero nel tentativo di vincere l’occupazione. La linea di fondo è che ogni opposizione all’occupazione è proibita, in nome della pace e della stabilità.

La stessa logica, non a caso, è usata contro le mosse diplomatiche palestinesi – che Israele chiama ora “terrorismo diplomatico” – e le campagne di boicottaggio della società civile. La resistenza effettiva è sempre proibita. I politici e gli attivisti sono sempre visti come una “minaccia alla pace” o “istigatori” e sempre accusati di “colpire gli interessi della propria stessa gente” per le catastrofi che si dice loro stessi determinino, e che ovviamente poi prendono la forma di rappresaglie dell’IDF.

La comunità internazionale, bisogna notare, accoglie sempre di buon grado tali argomentazioni, visto che l’ordine è sempre preferibile al caos, specialmente in Medio Oriente, e specialmente in questi giorni.

Nel villaggio di Nariman Tamimi, Nabi Saleh, due palestinesi sono già stati uccisi durante le manifestazioni. L’esercito incolpa i manifestanti per queste morti.

Lo stesso arresto di Nariman era il suo quinto. Questa attivista, madre di quattro ragazzi, è stata bendata e ammanettata per nove ore – procedura standard – prima di passare quasi quattro giorni in prigione. Quando finalmente è stata portata davanti ad un giudice militare, il procuratore Militare Maggiore Gilad Peretz ha riconosciuto che una ragione della sua custodia preventiva era quella di mantenerla lontana dalle manifestazioni settimanali nel villaggio.

Nariman è stata fortunata. Il tribunale ha deciso di darle gli arresti domiciliari ogni venerdì, quindi rilasciandola dal carcere ma comunque impedendole di partecipare alle manifestazioni.

*Tratto da 972mag.com, traduzione di Riccardo Carraro. Vai all’articolo originale. Nella foto di copertina, l’arresto di Nariman Tamimi a Nabu Saleh il 28 giugno scorso.