MONDO

La Colombia si ribella e occupa le strade per la vita e la dignità

In Colombia è in corso una esplosione sociale e popolare. contro l’avanzata neoliberale e il genocidio dei popoli indigeni. Uno sciopero molteplice e indefinito contro un governo che vuole tornare alla guerra e alla violenza di Stato.

Le mobilitazioni popolari di massa che si stanno dando quotidianamente in gran parte del paese mettono in discussione la legittimità di questo discorso neoliberale attraverso azioni congiunte che sperimentano solidarietà, linguaggi, strategie e alleanze in difesa della preservazione del comune e invitano a rinnovare non solo le formule di analisi politica tradizionale, alla luce della singolarità della congiuntura, ma lo stesso modo di vivere la dimensione politica.

 

Da quando è stato firmato nel 2016 l’Accordo di pace tra il governo e le Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane-Esercito del Popolo (FARC-EP), la Colombia ha contato la dolorosa cifra di oltre 700 leader sociali assassinati. Un numero che aumenta se si conta anche l’assassinio di oltre 150 ex combattenti.

 

In questo contesto, segnato dalla violazione sistematica e generalizzata dei diritti umani e nel quale il letargo politico è servito alla normalizzazione di questa violenza, la cittadinanza ha dimostrato di essere disposta a sostenere uno sciopero generale e le successive mobilitazioni. L’annuncio del governo rispetto all’imminente implementazione di un pacchetto di misure proposte dall’attuale presidente, Iván Duque, seguendo il consiglio di organismi come il FMI e la OCSE, ha trasformato il malcontento sociale in insofferenza e l’insofferenza in un grido collettivo che, liberatosi finalmente dalla paura e dall’indifferenza, ha iniziato a echeggiare in ogni angolo del paese.

Tra le principali linee dettate dal Presidente, risaltano la riforma del lavoro, delle pensioni e del fisco, la riduzione del salario minimo al 75% di quello attuale per i giovani minori di 25 anni, un aumento del 35% del prezzo dell’energia elettrica, la creazione della holding finanziaria statale Gruppo Bicentenario (portata a termine il passato 25 novembre) che privatizza le imprese pubbliche obbligandole a mettere da parte qualsiasi obiettivo sociale e la stigmatizzazione e repressione delle proteste sociali.

In risposta a questo, la prima marcia nazionale di ripudio e resistenza convocata il 21 novembre ha dato rapidamente il via a una serie infinita di mobilitazioni, presidi, assemblee e cacerolazos, materializzando il ripudio generalizzato in un’ampia serie di rivendicazioni definite dalle mobilitazioni stesse, che contemplano e allo stesso tempo eccedono la questione economica, includendo il compimento degli Accordi di pace, la cessazione del genocidio dei leader sociali, dei difensori dei diritti umani e della natura e il rispetto del legittimo diritto alla protesta sociale.

 

 

Nascere nella guerra, crescere nella lotta per la pace

La Colombia, uno dei paesi con il maggior numero di comunità indigene in America Latina e dalla forte vocazione agricola, è sempre stata governata da una destra con una tradizione politica conservatrice. Le popolazioni che si trovano nelle zone rurali indigene, contadine e afro-discendenti – sono state storicamente attraversate dal conflitto armato interno, in una quotidianità segnata dalle ingiustizie sociali prodotte dall’espropriazione della terra e dal sistema latifondista, l’allineamento con gli interessi estrattivisti internazionali, le élites, il narcotraffico, la presenza delle multinazionali e dei gruppi armati legali e illegali.

 

Secondole statistiche dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, oltre 7,7 milioni di persone sono state vittime di spostamenti interni forzati dal 1985 come risultato di questa crisi politica e sociale.

 

In questo scenario, la violenza politica colpisce simbolicamente e materialmente i corpi delle donne: solo nel primo trimestre di quest’anno si contano 220 femminicidi. Ogni trenta minuti una donna è vittima di aggressione. Per quanto riguarda l’infanzia, almeno 314 tra bambini, bambine e adolescenti hanno perso la vita negli ultimi quindici anni nel corso di operazioni portate avanti dalle forze pubbliche, le cui morti sono state registrate come «caduti incombattimento», secondo quanto riporta un rapporto presentato recentemente dal senatore di Colombia Umana, Gustavo Petro. Di questi, quindici avevano meno di quattro anni.

 

La firma degli Accordi di Pace, portati a termine nella città di Cartagena sotto la sovraintendenza di Juan Manuel Santos dopo anni di negoziati a L’Avana, ha costituito il fatto politico più importante degli ultimi tempi.

 

 

Nonostante il colpo che ha determinatola successiva vittoria del “No” al referendum convocato per la sua conferma (processo che ha portato alla modifica di vari dei sui punti), la sua approvazione ha permesso al popolo colombiano di iniziare a parlare di altre cose, di iniziare un percorso di riparazione, dispogliare il governo dal suo discorso incentrato sulla minaccia di un nemico interno. A partire dall’elezione di Iván Duque, rappresentante del partito Centro Democratico il cui leader è il presidente e ora senatore dell’ultradestra Álvaro Uribe Vélez, questo processo di smobilitazione e incorporazione alla vita civile degli ex combattenti ha visto continue interruzioni.

Gli attacchi costanti alla Giurisdizione Speciale per la Pace (JEP), il sistema di giustizia internazionale che ha la funzione di giudicare gli ex guerriglieri, hanno evidenziato una volontà politica di fare a pezzi quanto conquistato dagli accordi.

 

Tuttavia, le ultime elezioni regionali in Colombia, che si sono tenute il 27 ottobre di quest’anno, hanno mostrato uno scacchiere in cui le pedine iniziano a cambiare posizione: l’uribismo è stato il grande sconfitto delle giornate elettorali.

 

I motivi sembrano essere legati al preoccupante indice di assassinii, minacce ed estorsioni ai difensori dei diritti umani, ai leader indigeni, ai contadini e agli afro-discendenti, ai docenti e agli ex combattenti; nonchéalla diretta responsabilità dell’esercito colombiano di un massacro in cui sono morti 18 bambini a causa di un bombardamento. Questo avvenimento ha comportato le dimissioni di chi era stato fino a quel momento ministro della Difesa, Guillermo Botero, che ha giustificato preventivamente l’attacco, argomentando che era mirato contro i dissidenti delle FARC.

Il fatto si somma agli oltre 8.000 casi di esecuzione extra-giudiziaria di civili, impropriamente chiamati «falsi positivi», che il governo faceva passare come guerriglieri per gonfiare le statistiche e ostentare l’efficacia della sua lotta contro gli insorti.

 

Spazi comuni: pensare la Colombia nella marea regionale.

Fino a poche settimane fa, nessun analista politico avrebbe potuto anticipare e scommettere su questo risveglio di massa di uno spirito di ribellione nelcorpo collettivo che oggi, dopo oltre un mese di resistenza, continua a dimostrare il suo ostinato desiderio emancipatorio in vari territori della regione latinoamericana, generando strategie di contropotere popolare di fronte alle aggressioni espansive del neoliberalismo. Il risveglio sociale colombiano non può essere letto al di fuori del convulso contesto regionale: le rivolte popolari del popolo cileno e di quello haitiano, le notevoli resistenze indigene in Ecuador, i processi di organizzazione messi in piedi per resistere al colpo di stato in Bolivia, la scommessa collettiva dell’Argentina per un altro modello di paese che implichi progetti di vita più sostenibili, sono tutte esperienze che formano trame e che dialogano le une con le altre in ogni parte del continente.

Il malessere sociale, trasversale ai processi menzionati in precedenza, nasce da un contesto più profondo del mero rigetto dell’aumento dei prezzi o di un progetto regressivo in termini di diritti. Esprime e mette in evidenza l’insostenibilità di un modello economico di saccheggio e di morte, con velleità espansive infinite in un pianeta dalle risorse naturali finite. Un’idea di produttività senza interruzioni che si riproduce costruendo ideali di felicità, consumo e di emozionalità. La disillusione sociale si generalizza, affrontando i miraggi. La promessa disattesa di crescita svanisce di fronte alla mancanza di garanzia di accesso ai diritti fondamentali, il degrado ambientale e il rischio crescente di estinzione della vita.

Invece, i governi di destra e i loro apparati mediatici mostrano il proprio disinteresse politico verso il malcontento sociale. L’ oasi del presidente Piñera, che ostentava una presunta stabilità economica e sociale in Cile a pochi giorni dall’insurrezione popolare, il “PIL in aumento” che riempie di orgoglio il presidente della Colombia Ivan Duque, agiscono da cartina tornasole e da indicatori macroeconomici completamente scollegati dalla realtà quotidiana della gente. L’indice di disoccupazione in Colombia continua a mantenersi al 10%.

 

La sensazione ben esplicitata dallo slogan «non abbiamo nulla da perdere, perché dovremmo avere paura?» – scritto in alcuni cartelli che circolavano nelle proteste – è il grido e la conseguenza del livello del danno e del saccheggio provocati dall’estrema disuguaglianza sociale, dalla proprietà privata sempre più centralizzata e dall’intensificazione della finanziarizzazione della vita.

 

Logiche riproduttive della dinamica della globalizzazione neoliberale che si traducono nell’aumento della disoccupazione, nella mancanza di opportunità, nella disperazione e nelle frustrazioni e nelle sofferenze psicologici derivanti. «Non era depressione, era capitalismo»: affermazione incorporata socialmente che denuncia gli aspetti più letali di questo sistema. In Cile, gli studenti si suicidano perché non riescono a pagare i debiti contratti per studiare.

Da parte loro, gli Stati – appoggiati dalle élites economiche che rappresentano – hanno assunto posture fortemente denigratorie nei confronti delle proteste. Tanto in Cile quanto in Colombia, si è rispostocon la gestione militare al diritto di manifestare e delle mobilitazioni sociali. Hanno risposto militarizzando le strade mettendo in campo un’azione progressiva di intervento della forza pubblica, istituendo coprifuochi – in Colombia sono state anche chiuse le frontiere – portando avanti una guerra informatica attraverso il blocco delle piattaforme digitali, violando di fatto il diritto di comunicare con la scusa di voler impedire la divulgazione degli abusi delle forze dell’ordine.

Hanno puntato sulla stigmatizzazione dei manifestanti e delle manifestanti, cercando di creare nemici interni che giustifichino l’inasprimento della repressione. In Cile e Colombia, questa strategia si è manifestata sotto forma di presunti atti vandalici, con l’intenzione di diffondere il panico tra la popolazione e spingerla ad agire contro i manifestanti. Tale operazione è stata smentita dai video circolati in rete che hanno svelato la responsabilità della polizia per tali azioni, radicalizzando ancora di più le proteste contro la repressione e la corruzione statale. L’immagine del volto di Dylan Cruz, il giovane di 18 anni ucciso da un ufficiale della Squadra Mobile Antisommossa (ESMAD) nel tentativo di disperdere una manifestazione studentesca pacifica, si è trasformata in uno dei simboli di questa lotta.

 

 

Sta accadendo qualcosa di nuovo: scioperare per avanzare.

Risulta difficile fare previsioni sul futuro di questo movimento, tenendo conto del messaggio provocatorio lanciato dal governo con la prima approvazione al Congresso della riforma fiscale e del progetto conosciuto come “Legge Andrés Felipe Arias” (presentata dall’uribismo con l’intenzione di rendere retroattiva la condanna emessa dalla Corte Suprema di Giustizia verso quei funzionari per i quali siano stati comprovati legami con il paramilitarismo, il narcotraffico e la corruzione) che si aggiunge all’abilità della destra di rinnovare la propria squadra di rappresentanza politica, di modernizzare i propri discorsi e allo stesso tempo inasprire la repressione.

 

Eppure, nasce un processo nuovo in contrapposizione, configurando nuove forme di lotta, reinventando e invocando nuovi istituzionalismi, collaudando nuove leadership collettive, proponendo e applicando una risensibilizzazione dei corpi.

 

È in questo modo, ad esempio, che Bogotà ha ricevuto la visita della Guardia Indigena (costituita per la protezione dei territori e delle comunità) in seguito all’annuncio della sua adesione allo Sciopero Nazionale, accogliendola all’interno dell’Università Nazionale ed esprimendo il proprio appoggio alle massicce manifestazioni realizzate in diverse piazze in varie parti della capitale.

Questi fatti dimostrano la capacità di questo processo di generare nuove alleanze territoriali e soggettive attraverso le mobilitazioni, le assemblee di quartiere, regionali e nazionali che possano agire per superare le contingenze e consolidare fondamenta durature. Questo obiettivo avrà bisogno di concentrare le energie per organizzare il malcontento, discutere i problemi di fondo e lavorare nella “costruzione di strategie di contenimento e costruzione di reti di solidarietà”, come dichiarano Denize Brazao e Vanessa Dourado, visto che lo sciopero non dà segni di cedimento.

 

Come dice la canzone Somos los prietos  del gruppo Choc Quib Town: «Non si arrende mai chi è nato nel posto dove per ogni cosa bisogna lottare».

 

Pubblicato su Rivista Amazonas.

Foto di copertina di Juliana Ladron de Guevara. Foto 2-3 Alejandra Ramírez Rivera . Foto 4-5 Juliana Ladron de Guevara