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OPINIONI

Kate Aronoff: «Il capitalismo green non può risolvere la crisi climatica»

Nel suo libro “Overheated” la giornalista statunitense Kate Aronoff sostiene che per fermare l’emergenza ambientale va ripensato il sistema economico. Capitalismo e sopravvivenza della specie non possono convivere. In occasione del breve tour italiano di presentazioni, che toccherà anche Roma nella giornata di domenica 26 settembre presso Scalo Playground a San Lorenzo, pubblichiamo sul sito l’intervista già apparsa sul terzo numero di DinamoPrint

Kate Aronoff è un’importante giornalista statunitense esperta di questioni climatiche, che collabora con molte testate internazionali e che ha per anni attraversato i movimenti per la giustizia climatica e per il disinvestimento dalle fonti fossili. In occasione del tour italiano di presentazioni del suo libro A Planet to Win (in Italia edito da MoMo edizioni), Aronoff sarà a Roma nella giornata di domenica 26 settembre presso Scalo Playground a San Lorenzo.

Pubblichiamo l’intervista uscita sul numero 03 di DinamoPrint, che contiene una sezione sull’ecologia e le lotte per la giustiza climatica. Qui potete acquistare la copia cartacea

Leggendo il tuo libro, sembra che negli Stati Uniti sia praticamente impossibile affrontare la crisi climatica. Perché?

Gli Stati Uniti sono a tutti gli effetti un impero, sia per l’impatto ambientale che hanno sul resto del pianeta sia per il tipo di ordine mondiale che sono riusciti a imporre. Dal discorso pubblico sono totalmente assenti le uniche soluzioni reali che potrebbero contrastare il cambiamento climatico: penso alla nazionalizzazione dell’industria fossile e della fornitura di energia elettrica, così come un cambiamento nelle politiche del lavoro (ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni, per esempio).

Nel libro guardo anche al passato, in particolare al New Deal, cercando di capire cosa sarebbe possibile mettere in campo oggi se decidessimo di ridisegnare la nostra economia a partire dal clima. È uno scenario che io chiamo post carbon abolition democracy, un assetto sociale intrinsecamente internazionalista.

Il problema quindi è cambiare approccio verso il Sud del mondo?

Le misure adottata internamente hanno senso solo a patto che si cominci a parlare della responsabilità che gli Stati Uniti hanno a livello globale. Qui c’è la tendenza a lanciare grandi progetti nazionali, mentre in politica estera vige il paradigma della “costruzione del nemico”. Oggi, la guerra dei dazi con la Cina rappresenta un esempio di questa logica, ma vale lo stesso per le conquiste nel campo del welfare degli anni ’60, proprio gli stessi anni in cui si combatteva la guerra in Vietnam.

Insomma, gli Stati Uniti sembrano incapaci di compiere grandi avanzamenti interni senza allo stesso tempo dover adottare politiche aggressive verso l’esterno. In questo senso il piano per la ripresa sarà pure ambizioso, ma le promesse fatte dall’amministrazione Biden in politica estera non riflettono nulla di questa ambizione – l’unica cosa che è stato fatta finora è promettere di rientrare negli accordi di Parigi.

L’amministrazione Biden non sta agendo a sufficienza in materia di emergenza climatica?

Siamo a circa sei mesi dall’insediamento di Biden. Allo stesso punto della presidenza Obama, attraverso l’American Recovery and Reinvestment Act, erano già state approvate le misure della Climate Policy. Con la nuova amministrazione non è ancora stato approvato nulla del genere. Certamente la retorica è più ambiziosa di dieci anni fa: durante le primarie Biden ha fatto promesse radicali, e ha dimostrato di essere il candidato più a sinistra in materia di clima.

Quindi ci sono motivi per sperare: in generale la sua amministrazione sembra diversa, il dogma del neoliberismo si è attenuato e traspare una visione diversa di quello che dovrebbe essere il ruolo del governo. Ma poco è cambiato nel concreto, la Casa Bianca si è occupata perlopiù di smantellare alcune delle politiche regressive dell’amministrazione precedente. Biden è stato molto lodato per aver fatto molto poco.

Dinamo Print si può acquistare a questo link.

Eppure si sta provando a mettere a punto un Green New Deal, con misure che anche l’Europa pare voler adottare…

È positivo si stia parlando di questo, dieci anni fa non sarebbe successo. Così come è importante che le politiche di austerità siano state molto screditate, e a ragione. Allo stesso tempo, però, ci sono molti motivi per essere scettici del Green New Deal. In generale, è da tenere a mente che sebbene questi piani prevedano investimenti importanti in energie rinnovabili, agricoltura sostenibile, efficienza energetica, edilizia sostenibile e misure simili, l’obiettivo, negli Stati Uniti come in Europa, rimane quello di aumentare la produttività. L’aumento del Pil è un obiettivo connesso alla ripresa dei livelli occupazionali, ma nel medio e lungo periodo tutto ciò non farà che riproporre il problema del rapporto tra produttività economica ed emissioni.

Ciò che non cambia, in altre parole, è il nostro modo di consumare. Ciò che non viene ripensato, in questo caso, è l’attuale sistema dei trasporti: si potrà pure investire in automobili elettriche, ma fino a quando non ci sarà un tentativo serio di limitare le emissioni, di limitare l’industria dei combustibili fossili, sarà come combattere con le mani legate. Ecco che allora aggiungere altre fonti di energia, più o meno “green”, non risolve nulla. Tutti i Recovery Plan si prefiggono degli obiettivi “buoni”, ma nessuno sinora è andato nella direzione di limitare l’industria dei combustibili fossili. E fino a quando non cominceremo a formulare un diverso piano economico le emissioni rimarranno proporzionate al sistema che abbiamo.

Come dovrebbe cambiare allora il sistema economico per rendere possibile una transizione giusta?

Le risposte possibili sono molte, ma in generale io credo che il capitalismo non sia sostenibile. Non può più essere il sistema operativo della nostra società. Per far fronte alla crisi climatica l’obiettivo principale non può essere l’accumulazione di ricchezza e all’oggi non è mai esistito un capitalismo che non sia alimentato dall’industria dei combustibili fossili. Rimane da vedere se un altro capitalismo è possibile, ma io non credo che l’energia solare o eolica da sole potranno traghettarci verso un diverso tipo di economia.

Queste forme alternative di energia convivono con un sistema che è fondamentalmente estrattivo, sia dal punto di vista dell’uso della terra che delle politiche del lavoro. Nel breve termine andremo probabilmente verso un’economia mista, perché non è pensabile aspettare di smantellare il capitalismo. La crisi climatica richiede di essere affrontata ora, ma è precisamente per questo che le lotte sono importanti, io non credo che il sistema attuale sarà in grado di proporre soluzioni reali.

Foto di Ilaria Turini.

A proposito di questo, negli Stati Uniti e in Canada la lotta contro il cambiamento climatico è strettamente legata ai movimenti anticoloniali indigeni. Quali sono stati i principali risultati di questa alleanza?

Molte delle cose migliori che sono accadute negli Stati Uniti sono il frutto delle lotte indigene. In particolare le lotte contro i gasdotti hanno portato in primo piano la dimensione estrattiva dell’industria dei combustibili fossili, che era in parte trascurata dal movimento mainstream, prevalentemente bianco. Un altro aspetto importante di queste lotte è il modo che hanno di attaccare le grandi aziende in una maniera molto diretta, se vogliamo. C’è stato un lavoro di riorganizzazione interno del movimento che si batte per la giustizia climatica che ha integrato le richieste provenienti dalle popolazioni indigene, e alcuni principi oggi sono imprescindibili, come la sovranità indigena. Anche dal punto di vista delle pratiche, l’influenza è stata enorme. Penso al campo di protesta contro la Dakota Access pipeline, per esempio, che ha trasformato il modo in cui oggi il movimento protesta, che è più aggressivo, più conflittuale di prima.

Si può parlare di intersezionalità delle lotte per quanto riguarda le battaglie per il clima negli Stati Uniti e il movimento di protesta per i diritti della comunità nera Black Lives Matter?

Io credo che il rapporto tra i due sia stato molto produttivo. Una richiesta che è arrivata dalle aree vicine a Black Lives Matter, per esempio, è che il cinquanta per centro dei fondi stanziati per il clima sia destinato alle comunità colpite, tra cui le comunità di colore. Gli investimenti non possono continuare a essere fatti negli stessi settori di sempre, e in questo senso ci deve essere anche un tentativo di riparare alcune ingiustizie storiche, commesse dall’industria dei combustibili fossili e più in generale dal governo.

Anche il movimento per diminuire i fondi e smantellare la polizia ha avuto un impatto importante, perché a livello cittadino, ma anche nazionale, si è strutturato un dibattito importante sull’uso dei fondi pubblici – per quale motivo la polizia dovrebbe ricevere così tanti finanziamenti pubblici quando moltissime città sono completamente sprovviste del minimo necessario per fronteggiare un evento legato al cambiamento climatico? Sono molte le persone, anche fuori dai movimenti o al Congresso, che lavorano per costruire una democrazia multirazziale, capace di fronteggiare la crisi climatica. In questo senso le lotte che abbiamo visto esplodere nel 2020 sono state fondamentali, e lo saranno sempre di più.

KATE ARONOFF è una giornalista statunitense esperta di clima, scrive per “The New Republic”. Tra i suoi libri ricordiamo A Planet To Win (Verso, 2019, edito in Italia da Momo Edizioni) e il più recente Overheated (Bold Type Books, 2021).

Foto di copertina di Ilaria Turini.