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Le accuse di molestie sessuali nel mondo della danza

Storie di ordinario sessismo (e di abusi) nel mondo della danza contemporanea. Ilse Ghekiere, danzatrice e attivista belga, racconta in un’intervista la campagna #metoo che sta scuotendo a livello internazionale la scena delle arti performative, a partire dalla lettera aperta che ha denunciato gli abusi quotidiani nella compagnia Troubleyn del coreografo fiammingo Jan Fabre

Sessismo, molestie sessuali, abuso di potere. Negli ultimi anni, il movimento #metoo è esploso gettando luce su una situazione ampiamente nota, ma ancora non completamente espressa. Ora che i riflettori e l’attenzione dei media potrebbero cominciare di nuovo ad affievolirsi, ci siamo domandati: e adesso? Quando il dibattito su #metoo era in pieno corso, abbiamo tutti osservato la situazione chiedendoci dove mai tutto questo avrebbe portato. Eravamo al corrente della situazione e del potenziale “punto di non ritorno” che ci saremmo trovate e trovati ad affrontare.

Dal momento che permette a una consapevolezza di emergere, qualsiasi esperienza ci insegna quanto abbiamo bisogno di diverse strategie di educazione e quanto dobbiamo sforzarci a non reiterare dinamiche di potere e di manipolazione. Di certo, la questione non riguarda esclusivamente le artiste, o le donne in generale, ma tutte le figure che partecipano alle arti sceniche.

Legata a un suo precedente articolo, la lettera aperta co-firmata da venti ex performer e collaboratori della compagnia Troubleyn / Jan Fabre ha aiutato a rompere il silenzio all’interno del mondo della danza. Per fare il punto sulla situazione, abbiamo aperto un approfondito dialogo con la danzatrice e attivista belga Ilse Ghekiere che, attraverso il suo contributo, ha aiutato a dare voce a coloro che stavano affrontando le conseguenze di una giustizia mancata. Il conflitto evidenziato dagli artisti firmatari della lettera esprime l’effetto di qualcosa che deve essere affrontato, in modo che la situazione evolva e che le cose possano prendere presto un nuovo corso. Ci stiamo imbarcando per un viaggio che potenzialmente non ha fine, e che ci riguarda tutti.

 

Foto di Kim Hiorthøy

Come racconterebbe la storia del suo impegno nel movimento #metoo nelle arti performative a qualcuno che non ne abbia mai sentito parlare? Come è nato il suo coinvolgimento?

Quelli che sto per elencare sono i punti chiave del movimento #metoo nella scena della danza belga:

1) Nel 2017 ho pubblicato un articolo che ha spinto il Ministero della Cultura belga a commissionare un’indagine nel settore artistico e culturale.

2) Insieme ad alcuni colleghi abbiamo creato un gruppo segreto su Facebook che si è poi trasformato in un più ampio movimento artistico collettivo chiamato Engagement.

3) Nel frattempo, Engagement ha redatto una dichiarazione e ha organizzato diverse azioni come incontri settimanali, una lettura pubblica di testimonianze al Kaaitheater di Bruxelles, azioni per sensibilizzare la consapevolezza relativa alla presenza e alla rappresentazione dei generi nelle programmazioni teatrali e, inoltre, portato avanti un’attività di lobbying con i sindacati e con il governo.

4) Flemish TV ha trasmesso una controversa intervista a Jan Fabre nel momento in cui il piano d’azione è stato diffuso dal Ministero. https://www.vrt.be/vrtnws/nl/2018/06/27/jan-fabre-bij-ons-in-de-company-veertig-jaar-lang-is-er-noo/ .

5) La redazione e la diffusione della lettera aperta.

6) La Dichiarazione dei Coreografi che riconoscono la questione e si impegnano a cambiare la situazione.

7) Una lettera a un teatro di New York, scritta in collaborazione con la comunità di danza locale, in cui si mette in questione il loro ruolo come istituzioni.

Il mio impegno è iniziato alla fine del 2016. Ho cominciato a lavorare grazie a un finanziamento dedicato agli artisti che si trovano in un momento di transizione della propria carriera. Ho lavorato come performer per più di dieci anni, ma ho anche conseguito una laurea in storia dell’arte e iniziato un dottorato di ricerca, per poi tornare a danzare dopo un anno. Il finanziamento mi serviva per mettere le mie capacità al servizio di un argomento per me molto interessante da approfondire, il sessismo. In particolare, volevo approfondire questo termine nel contesto della scena della danza belga. Allora pensavo che il risultato sarebbe stato qualcosa di molto più vicino a un progetto artistico, mentre si è poi spostato sull’attivismo e sulla costruzione di una comunità. Il primo articolo è uscito in concomitanza con l’unico altro caso #metoo in Belgio. Dopo la sua pubblicazione le cose hanno cominciato a cambiare e so che l’articolo ha avuto forte impatto su diverse compagnie, dando vita a un delicato dibattito. Il silenzio era stato rotto.

 

Che cosa è successo dopo la pubblicazione dell’articolo? 

Innanzitutto, abbiamo ricevuto molta attenzione dai media e alcuni colleghi hanno sentito di dover fare di più. Abbiamo creato un gruppo segreto su Facebook, un’idea presa in prestito dalla Scandinavia, per raccogliere testimoni aderenti ai principi del #metoo. Ciò ha finito per essere molto complesso per la scena di Bruxelles, così abbiamo organizzato una serie di incontri settimanali aperti rivolti a danzatori che si identificano con il genere femminile. Il progetto era di incontrarsi per condividere esperienze e per ragionare su possibili iniziative di attivismo. Il risultato di quegli incontri, così come delle stesse storie condivise, è stata la decisione di aprire un sito web. Sembrava che nessuno sapesse davvero che cosa fare di fronte alle molestie sessuali o alla discriminazione incontrata in un contesto di lavoro. Ecco come ha preso vita il movimento anti-sessista Engagement: abbiamo cominciato a condurre ricerche su come ci si potrebbe comportare rispetto a questi incidenti e abbiamo reso i ragionamenti accessibili online.

Portando avanti il processo abbiamo ricevuto diverse testimonianze da danzatori, ma anche da attori, artisti visivi e musicisti. Certe situazioni accadevano nei teatri, altri in piccole compagnie, altri nelle scuole e nelle accademie. La natura delle testimonianze era estremamente variegata. Ho notato che la casella email collegata al mio articolo riceveva più segnalazioni relative a Troubleyn. Benché la mia ricerca non fosse espressamente focalizzata su Jan Fabre, continuavo a sentire che “ogni passaggio” del mio articolo rifletteva quell’esperienza. Dopo otto o nove interviste, la traccia era inconfondibile. Era chiaro che si trattasse di uno schema ricorrente in diverse esperienze. Inizialmente non avevamo idea di come gestire la massa di informazioni: rivolgerci ai giornali? Scrivere un altro articolo? Alcune persone, dopo aver realizzato che la propria non era stata un’esperienza isolata, cominciavano a pensare a un’azione legale, ma in verità nessuno era completamente convinto di quell’approccio. Nessuno era interessato al denaro o a una forma di punizione, ma persisteva un forte bisogno di giustizia. Tuttavia, come fare?

Ricordo di aver, ingenuamente, proposto di scrivere una lettera alla compagnia e di instaurare un dialogo, ma gli altri mi risero in faccia, dicendomi che non c’è alcun modo di avere una conversazione aperta con Troubleyn. Sottolineavano le condizioni economiche di cui godevano figure come quella di Jan Fabre, che avrebbero potuto disporre di ottimi avvocati. In qualità di danzatori precari, nessuno pensava di avere realisticamente una chance. È incredibile notare come le persone continuassero ad essere intimidite dal potere anche quando avevano preso le distanze dalla situazione in cui quello stesso potere era stato messo in azione. Nessuno del gruppo originario che avevo intervistato aveva vissuto un’esperienza simile di recente, perciò anche se lo schema di comportamento suggeriva l’opportunità di comporre un potenziale caso di gruppo, un’azione legale sarebbe stata possibile solo in presenza di una testimonianza recente che avesse a disposizione delle prove.

Ma come si produce la prova di una molestia sessuale? A meno che non esista una testimonianza scritta in un messaggio, un’email o una nota vocale, non esiste una prova schiacciante. Tutti questi casi erano accaduti in un contesto privato, senza testimoni. Non avevo idea di che cosa stesse succedendo, allora, nella compagnia. Avevo sentito di certe discussioni (il che era un buon segno), ma sapevo anche che non avevano avuto seguito. In qualche modo speravo che le cose migliorassero dopo la pubblicazione del mio articolo, ma poi, verso la primavera di quell’anno, un membro ha lasciato la compagnia e scritto in una mail: «Me ne vado a causa di una “#metoo experience”». Ricevuta questa notizia, mi sono resa conto che le cose, dopotutto, non erano cambiate affatto. Era la prima volta che entravo in contatto con uno di loro; questa persona mi ha risposto che il movimento #metoo e il mio articolo avevano aiutato lei e altri colleghi della compagnia a condividere ciò che succedeva all’interno di Troubleyn e che erano stati utili per individuare il problema e dargli un nome. Non volevo forzare la situazione, per cui ci è voluto un po’ di tempo prima che ci trovassimo a parlare.

C’è voluto un mese di scambi. Il gruppo di Engagement si è rivolto a un sindacato per avere supporto, ma non si è potuto fare molto perché Troubleyn non ha un sindacato attivo all’interno della compagnia. Eravamo consapevoli che tutto questo avrebbe attirato l’attenzione dei media; in questo senso, dunque, la scrittura collettiva della lettera è stato anche un modo per mantenere il controllo sulla nostra narrazione. C’erano un altro paio di lettere aperte relative a #metoo nell’ambiente artistico, che hanno ispirato la nostra operazione; una di queste era relativa al direttore di Art Forum (http://www.not-surprised.org/home/). Era molto importante che si trattasse di una lettera collettiva scritta dai danzatori, e da nessun’altro. Engagement avrebbe potuto supportare e aiutare a coordinare il tutto, ma la lettera doveva essere scritta da loro.

 

Come avete lavorato alla redazione della lettera?

È stato un processo interessante, le persone hanno scritto le proprie testimonianze e questo è avvenuto in maniera indipendente, in modo che non si influenzassero. Io ho ascoltato e analizzato le loro storie. Solo le esperienze che si ripetono possono essere usate per supportare un messaggio collettivo. Le informazioni sono state condivise con un paio di danzatori che erano particolarmente impegnati nella scrittura della lettera. È stato molto simile a un progetto di storia orale, teso a raccogliere tutte le informazioni restando però il più possibile oggettivi.

Era chiaro che l’umiliazione e il bullismo rappresentavano delle zone grigie, indossando la maschera della trasgressività. A ritornare spesso nelle conversazioni erano i progetti fotografici di Jan Fabre… i danzatori mi hanno detto che quando un danzatore o una danzatrice non si trovava d’accordo con la proposta ricevuta veniva punito durante le prove o su un più generale livello professionale. Molti rapporti all’interno della compagnia richiamavano relazioni di co-dipendenza ed erano alimentati da una competizione indotta tra i danzatori stessi; il modo in cui le persone si interfacciavano una con l’altra, con i danzatori meno giovani che supportavano questo sistema di bullismo gerarchico e gli altri che – una volta entrati nel meccanismo – erano forzati a reiterare la stessa dinamica. Una danzatrice mi ha detto di sentirsi come se stesse uscendo fuori da un lavaggio del cervello.

Nel corso delle interviste emergevano diversi aspetti problematici, come lamentele su una non equa o non corretta distribuzione del salario e sul tipo di procedura da seguire in seguito agli infortuni. Lo sfinimento fa parte del lavoro artistico, ma rende il performer vulnerabile dal punto di vista fisico e psicologico. Pare che non ci fosse tempo sufficiente per una vera e propria guarigione dagli infortuni; le lunghe ore di prove, ma anche le audizioni facevano sì che i danzatori stessero sempre “in bilico”; durante le tournée, inoltre, secondo alcuni danzatori la privacy tendeva a mancare del tutto.

Veniva segnalato un ambiente iper-competitivo e una generale mancanza di solidarietà tra i danzatori sembra fosse stimolata e strutturata dalle stesse modalità di azione del coreografo. Questo aspetto si collegava a una dinamica basata sul binomio “castigo/ricompensa”, nel quale ciascuno è intento a rintracciare gli imprevedibili sbalzi d’umore del coreografo. Ciascuno lo descriveva come una ambiente in cui si è costantemente forzati a tentare di compiacere o impressionare il capo in modo da evitare problemi.

A essere messe in discussione erano anche le modalità di creazione. Pare che Fabre, per dare forma alla propria arte, utilizzi mezzi come manipolazione, umiliazione (commenti denigratori) e violenza (verbale e fisica). A lui piace individuare un capro espiatorio per creare competizione e per forzare ogni tipo di confine; usa la “fiducia” come un’argomentazione utile a non ascoltare i reclami espressi dalle danzatrici (“devi fidarti di me”). Una danzatrice spiegò come sembrava che ci fossero due distinti approcci nei confronti della “idea delle donne”. Da un lato, nelle proprie opere, posiziona le donne su un piedistallo: vengono loro assegnate pose scultoree, assoli; rappresentano un’idea di sessualità, bellezza e forza che, dal punto di vista pubblico, sembra celebrarle come creature mitiche e misteriose. Dall’altro le sottomette durante le ore di lavoro in prova; le riempie di commenti severi sul loro apparire («sei grassa come una mucca»; «sei così brutta che non riesco neppure a guardarti»); sciorina commenti insensibili sulla maternità; le danzatrici hanno affermato che le scene di stupro in scena erano montate senza offrire ai performer un supporto o un reale discorso critico. Questi atteggiamenti avevano avuto un effetto negativo su alcune delle donne coinvolte nel lavoro. Nella ricerca ho notato che questo comportamento aveva smosso traumi passati (una negativa immagine di sé, disordini alimentari, remote esperienze di abuso sessuale) o creato nuovi traumi (le persone sentivano di dover entrare in psicoterapia, smettevano di danzare; operavano scelte radicali nella propria vita).

Penso che questo sia un aspetto importante della discussione che va al di là delle esperienze avvenute all’interno di Troubleyn. Dobbiamo chiederci: quali sono le ripercussioni psicologiche sul lungo termine di questi comportamenti? Troubleyn non è l’unica compagnia in cui l’arte è stata usata come “metodo di seduzione” non trasparente. In altri casi, una danzatrice mi ha detto di essere stata invitata nella sua stanza d’hotel. Non osava dire di no, perché la proposta era giunta come un incontro di lavoro. Poi, durante l’incontro, è stata incoraggiata ad assumere droghe…

Quando una danzatrice oppone resistenza, gli scenari possibili sono diversi, e portano a forme dirette o indirette di punizione. Per esempio, il coreografo diventa fisicamente o verbalmente aggressivo (specialmente in una fase avanzata del lavoro), la minaccia di sottrarle delle opportunità (secondo una modalità “niente sesso, niente assolo”). La danzatrice è obbligata a fare i conti con questo atteggiamento ossessivo, che secondo diverse danzatrici potrebbe essere definito stalking: telefona nei momenti meno appropriati, è insistente, verbalmente aggressivo. In molti casi, è stata la danzatrice a lasciare la compagnia dopo la fine del progetto oppure, terminato il progetto, a non essere riconfermata per la produzione seguente. A volte qualcuna è stata licenziata, una danzatrice a questo proposito mi ha detto che le era stato comunicato di «non essere risultata abbastanza coinvolta».

La danza, in generale, è un lavoro estremamente stancante, che richiede molto al corpo. È interessante notare come questo potenzi la tendenza alla manipolazione: non sto dicendo che la manipolazione sia necessaria per portare a termine un lavoro come questo, solo che questo lavoro rende certi danzatori più suscettibili all’abuso e che se lavori con un “maestro” manipolatore è molto facile restare imprigionato in giochi dubbi e incomprensibili. Questo soprattutto perché, nel caso di Jan Fabre, è interessante notare come lavori con molte persone giovani, all’inizio della propria carriera, che potrebbero non disporre del bagaglio emozionale necessario a leggere tra le righe di questi profili psicologici. È significativo come vi siano sempre molti stagisti nelle produzioni: si tratta di persone molto giovani, spesso donne, non pagate o pagate in maniera insufficiente, che provengono dall’estero e appartengono a strati sociali più bassi. Che potere hai quando devi confrontarti con richieste di sesso non consenziente?

 

Il concetto di limite appare molto centrale. Noi tendiamo a negoziare quali siano i nostri limiti, la nostra abilità di accettare certi compromessi, ecc. Credo che, in sintesi, qui si stia parlando di questo e dell’estensione della libertà in simili contesti.

 Nel suo diritto di replica, la direzione di Troubleyn ha scritto che nessuno è forzato a oltrepassare alcun genere di limite. Ma questo potrebbe essere proprio il cuore di quella stessa manipolazione, perché: che cosa significa essere forzati? Pensi di non star spingendo oltre il limite, ma, in un contesto così sovraccarico e competitivo, nel quale i danzatori si trovano a temere di perdere il lavoro… o se si sta tentando di fare una buona impressione sul coreografo, questi potrebbe trovarsi a spostare il limite in un modo non totalmente indipendente. L’idea di libertà, in molti contesti della danza, è di per sé molto limitata, perché ruota attorno a una lunga lista di condizioni che volgono quella libertà a favore di chi sta al comando.

In un contesto professionale, specialmente i più giovani dovrebbero essere trattati con cura. Oltrepassare il limite per il solo gusto di farlo può diventare pericoloso. E la questione del limite non va neppure considerata nel lavoro in sé, ma riguarda ciò che accade fuori dal palco. Il fatto che tu spalanchi le gambe in scena non significa che tu sia disposta a fare lo stesso fuori dalla scena. Ironicamente, molti lavori creati da “artisti abusanti e geniali” si basano proprio su uno sguardo maschile ossessionato dall’oggettificazione della donna in scena. Secondo tutte le interviste che ho raccolto, molte danzatrici non hanno problemi a mostrarsi in maniera esplicita sul palco, ma il contesto cambia completamente quando ti trovi a fare qualcosa di simile in un “progetto privato” e a incontrare il tuo capo a casa sua, in una situazione uno ad uno. E se in quel momento cambi idea? Quali conseguenze devi affrontare?

Di entrambi. Il consenso è cruciale, ma resta un concetto scivoloso, soprattutto quando persiste una chiara disuguaglianza di potere tra due persone. Quello che io ho capito, intervistando molti danzatori, è che le situazioni in cui si lavorava a “progetti privati” erano profondamente basate su principi di sfruttamento neoliberale. Lo scambio non è né giusto, né equo. Bisogna considerare che spesso i danzatori sono pagati male o non pagati affatto, perché hanno un contratto di apprendistato o perché sono in prova. E questa può essere la ragione per cui ci si ritrova in una situazione dubbia. Ti può venir offerto qualcosa e ti vengono promesse delle opportunità. Quando questo accade nel contesto di una compagnia, spesso accade segretamente e il proposito generale non è quasi mai chiaro. Certo, si potrebbe dire che si tratta di progetti d’arte, ma se fosse così, mancherebbero comunque di trasparenza. In più, molti hanno fatto riferimento alle droghe. Questo significa che le persone vengono attivamente manipolate affinché raggiungano uno stato alterato: questo non è fare arte, è solo il piacere di esercitare una forma di potere su un’altra persona. Se questa è la tua arte, perché non dire che stai manipolando i tuoi danzatori per avere la sensazione di possederli? Perché non essere onesti e sinceri?

 

Pensa che vi sia una sorta di “abilità” nel riconoscere quelle persone che con maggiore agio potrebbero accettare certe proposte? 

Può accadere a tutti di essere vittime di manipolazione. Credo che questo derivi dal fatto che tutti desideriamo essere amati, guardati, e dal fatto che tutti godiamo nel ricevere attenzione. La vanità rappresenta una strada molto scivolosa: una persona insicura può sentirsi rafforzata dal fatto di essere sessualizzata o reificata, perché, in una logica patriarcale, il potere della donna è nel suo potenziale sessuale. Qui c’è un altro aspetto che andrebbe ridiscusso per noi donne, ovvero quello di pensare a noi stesse in maniera differente: l’immagine della donna portatrice di una carica sessuale è uno dei più potenti strumenti del patriarcato e non dovremmo essere ingenue rispetto a questa verità.

 

Ha mai sentito di casi riguardanti i danzatori di sesso maschile? Nella compagnia tutto questo è capitato anche ai danzatori uomini?

Certo. Situazioni molto simili accadono anche tra gli uomini. La manipolazione patriarcale non si limita ai contesti eterosessuali. Ho trovato molta solidarietà tra i miei colleghi maschi. Per esempio, la lettera aperta è stata firmata e supportata da danzatori. Tuttavia, ci sono anche altri uomini (specialmente i colleghi più grandi di età) che si mettono molto sulla difensiva. Ho percepito una specie di fratellanza, qualcosa di simile alla relazione padre-figlio. Ancora, tuttavia, non tutti gli uomini si trovano a proprio agio in una cultura regolata da questo tipo di fratellanza. Per esempio, un danzatore mi ha detto che Fabre gli mostrò delle foto di nudo di una delle danzatrici, come se fosse una specie di trofeo. Se un danzatore si trovasse a dire di non essere d’accordo, la sua resistenza non sarebbe affatto rispettata. In generale, i danzatori l’hanno ripetuto più volte: Fabre vuole lealtà, non critiche o dissenso, a prescindere dal genere.

 

Questo è un modello di comportamento molto forte. 

Sì, è il modello patriarcale, nel suo lato peggiore; riguarda autorità, ricchezza, prestigio, questo mondo si basa su questo. Fabre potrebbe essere visto, ma non solo lui, come l’incarnazione dell’idea romantica del genio artistico, un prototipo di comportamento di cui non si è ancora discusso abbastanza. Finché continuiamo a celebrare questo paradigma (anche se il genio artistico si incarna in una donna) non credo che avremo mai modo di infrangere questo modello. È un modello di potere, uno dei più potenti in assoluto. La lettera aperta, d’altronde, si occupa di fronteggiare diversi modelli di potere: è un tentativo di porre una questione in maniera collettiva e intelligente, svelando i meccanismi nascosti dietro alle molestie sessuali, rendendo la dimensione personale una dimensione politica. Io credo molto in queste azioni improntate a collettività, solidarietà e radicalità. Spesso lo ripeto: il movimento #metoo consiste nel grattare via la superficie del patriarcato e ora il nostro compito è quello di andare a fondo, raggiungere le ossa, il sistema nervoso. E reinventare il nostro corpo.

 

Tutto questo ha avuto origine da una ricerca artistica. Come ha lavorato concretamente?

Tre erano le azioni a cui tendevo. Una di queste era la ricerca, nel vero senso della parola. Ho trascorso un anno e mezzo leggendo solo autrici donne che hanno scritto sulla tematica del genere, narrativa e saggistica. Il secondo aspetto era condurre interviste e mettermi in ascolto della comunità e dei colleghi. E il terzo era escogitare pratiche fisiche che si legassero a quella ricerca. La ricerca e i materiali raccolti sono divenuti il centro del lavoro che sto svolgendo oggi. Importante è stato soprattutto leggere la letteratura femminista, nel tentativo di comprendere il patriarcato e la discriminazione sessuale. Ho creato un progetto su Instagram intitolato Open Canon, che deriva dall’interesse nel leggere il lavoro degli altri. Oggi è un modo per tenere traccia della mia pratica di lettura. Sono molto interessata al potere del canone, a come si costruisca, a come ci plasmi e a come plasmi l’immaginazione. Questo mi ha portato a scrivere un articolo a riguardo.

Diverse sono le indicazioni che ho raccolto e che mi hanno spinto verso tutto questo: ho sperimentato dei significativi “scatti femministi”, come li chiama Sarah Ahmed. Me ne sono resa conto, per esempio, nel processo di scrittura: avevo davvero la sensazione che qualunque sensazione provassi, in qualità di danzatrice, mi bloccasse nei miei impulsi creativi. Nel fatto di essere stata un giovane corpo femminile che danza, qualcosa mi aveva lasciato dei segni. In quel processo mi sono trovata a riportare alla memoria diversi episodi che in qualche modo avevo rimosso. Ho sentito di aver bisogno di svolgere un lavoro tutto mio, era chiaro che avevo qualcosa da dire. Ma ho anche pensato di non volermi rendere vulnerabile: era la mia storia, nient’altro che la storia di una singola persona. Sono occorsi un paio di mesi prima che ci pensassi e capissi che si trattava di un sentire più generale, riguardante il femminismo, il collettivo e la comunità. Poi è stato eletto Donald Trump e a quel punto mi sono detta: OK, questo è il momento di reagire a una società patriarcale e orientata al genere maschile. Non prendiamoci in giro pensando che tutto questo sparisca nel nulla. Dobbiamo alzare la voce. Dobbiamo essere organizzate e intelligenti. Non voglio parlare della mia storia, perché parlare della storia di noi stessi come danzatori, tutti insieme, ha molto più valore e può rafforzarci di più che non parlare della mia vicenda personale. Coloro che hanno firmato la lettera erano pronti per aderire a #metoo. Un collettivo si stava svegliando. Non si tratta degli individui. Non avevo in programma di diventare un’attivista, ma adoro tutte le sfaccettature che questo comporta. È fantastico firmare articoli, ma dovremmo tutti essere ghostwriter di articoli dedicati a una causa comune. Non perché in questo modo tu possa nasconderti dietro l’anonimato, ma proprio perché puoi amplificare la voce di un gruppo. È un’identità molto precisa, sulla quale vorrei continuare a concentrarmi.

 

Come tutto questo influenza la sua carriera di danzatrice? Questa sembra ora una sua evoluzione naturale.

Di certo questo mi rafforza molto, le cose sembrano avere più senso e, nel processo, ho imparato molto. Il patriarcato e la supremazia dei bianchi rappresentano sistemi globali di oppressione e questo è solo il principio di un lungo percorso fatto di molte azioni come “disfare” e “disimparare”. Sono solo una delle molte persone che si stanno battendo per nuove definizioni e per mettere in pratica l’uguaglianza. Oggi faccio parte di una scena della danza molto attiva e impegnata. Danzo di meno, ma sono contenta di svolgere il lavoro di attivista. Rappresenta un nuovo modo di pensare al “movimento” e, di certo, questo implica una “coreografia” decisamente interessante.

 

Questo contenuto è prodotto e distribuito in collaborazione con Teatro e Critica

Traduzione di Gaia Clotilde Chernetich e Sergio Lo Gatto

 

Collage di Elsa B. Mason

 

 

Open letter: #metoo and Troubleyn/Jan Fabre

(versione in lingua inglese, pubblicata il 12 settembre 2018)

 

 

Nell’interesse del pubblico e nel desiderio di informare le future generazioni di artisti interpreti, noi, ex dipendenti e stagist* che hanno lavorato con Jan Fabre nel contesto di Troubleyn vzw, ci siamo riunit* per condividere le nostre esperienze e alzare le nostre voci nel contesto di #metoo e dei cambiamenti sociali ad esso collegati.

Questa risposta collettiva nasce dalle dichiarazioni di Jan Fabre in occasione di un’intervista rilasciata alla stazione pubblica VRT mercoledì 27 giugno 2018. Nell’intervista, Fabre condivide il suo pensiero in merito ai risultati di un’indagine sulle molestie sessuali commissionata dal ministro fiammingo della cultura, Sven Gatz.

Il punto di partenza dell’intervista è il titolo “1 donna su 4 nel settore culturale ha subito molestie sessuali nell’ultimo anno”. Alla telecamera per l’intervista, Fabre risponde con sorpresa e incredulità quando questi numeri vengono presentati. Dice di sostenere le azioni e le misure del Ministero della Cultura, ma aggiunge che «c’è anche qualcosa di pericoloso al riguardo. Perché il rapporto, il legame segreto tra regista/coreografo e attore/danzatore… verrà in realtà distrutto e danneggiato incredibilmente».

Per illustrare la sua affermazione, Fabre ci dà un’idea della vita quotidiana della compagnia: «Per esempio, molto recentemente, ho fatto uno spettacolo intitolato Belgium Rules. Si trattava di un omaggio a Rubens, Félicien Rops, Paul Delvaux e René Magritte, e improvvisamente ho dovuto andare a spiegare alle giovani attrici e danzatrici che quegli artisti non erano sessisti!».

Dopodiché, Fabre menziona un’altra situazione in cui attraverso il microfono aveva urlato a una delle performer sul palco, insistendo sul fatto che avesse bisogno di allenarsi perché era «diventata di nuovo troppo grassa». In un secondo momento, un assistente lo mise al corrente del fatto che commenti del genere possono essere offensivi. Fabre rassicura quindi l’intervistatore che i suoi commenti sono «sempre corretti», ma osserva che le persone sono molto più sensibili al giorno d’oggi. «Un anno fa», conclude, «tutto questo non sarebbe stato un problema».

Per gli esterni a questo ambiente queste affermazioni potrebbero sembrare di poco conto o semplici questioni di libertà artistica, ma alcuni di noi erano presenti in entrambe le situazioni che Fabre descrive e possono attestare diverse imprecisioni nel suo racconto. La conversazione sul sessismo in Belgium Rules era legata a una recensione scritta sulla rivista “Etcetera” che metteva in discussione la messa in scena da parte di Fabre di una serie di immagini di quadri celebri della storia dell’arte, non il lavoro degli artisti belgi. Le domande erano rivolte a Fabre, non a Rubens.

La situazione in cui Fabre ha attirato pubblicamente l’attenzione sul peso di una danzatrice è testimoniata da alcuni di noi e ha comportato un lungo e doloroso gioco di umiliazione in cui Fabre arrivò a insinuare che dovesse essere incinta. Questo gioco umiliante è andato avanti fino a quando la performer ha iniziato a piangere.

Quest’ultima situazione non è trascurabile. Né si tratta di un incidente isolato. Non ci sorprende. È solo un esempio dei tanti e confusi giochi psicologici che si possono incontrare quando si lavora con Fabre. L’umiliazione è il pane quotidiano dentro e intorno allo spazio prove di Troubleyn. I corpi delle donne, in particolare, sono oggetto di critiche dolorose, spesso apertamente sessiste – indipendentemente dalla loro reale condizione fisica.

Un giorno, mette un performer sul piedistallo; il giorno dopo, sistematicamente lo abbatte, spesso facendo di una persona il capro espiatorio e scatenando tensioni in tutto il gruppo. Poiché gli umori di Fabre sono imprevedibili e lui è responsabile dello spazio che crea come regista, i suoi comportamenti creano un ambiente teso in cui tutti sono almeno implicitamente incoraggiati ad accontentare il regista regolarmente.

La posizione di potere di Fabre nella compagnia è rafforzata in modo sottile dall’assegnazione di soprannomi ai suoi performer. Alcuni di questi soprannomi dovrebbero lusingare. Altri sono indubbiamente razzisti e denigratori. Nell’intervista alla VRT, Fabre dice: «Certo! Penso che tutte le forme di vita debbano essere rispettate, anche le donne». Eppure una volta, in presenza di tutti i performer, disse a una donna: «Sei bella, ma non hai un cervello, come una gallina senza testa».

E di quale “rispetto reciproco” sta parlando Fabre quando grida a una delle stagiste non europee che, se non avesse fatto meglio, l’avrebbe rimandata nel suo paese?

Qualcuno potrebbe sostenere che tutto questo fa parte di una strategia artistica – che per raggiungere i risultati desiderati, Fabre sente la necessità di spingere i suoi performer oltre i propri limiti. A questo vorremmo rispondere che il prezzo fisico e/o emotivo è sempre pagato dai performer, mai dalla compagnia o da chi la gestisce.

Gli atteggiamenti altalenanti e i comportamenti irascibili di Fabre hanno influenzato l’autostima di molti dipendenti. Molti di noi hanno dovuto cercare aiuto psicologico dopo aver lasciato la compagnia e hanno raccontato come queste esperienze abbiano lasciato dentro di noi cicatrici profonde e traumatiche. Una performer ha affermato: «Ci chiama “guerrieri della bellezza”, ma finisci col sentirti come un cane bastonato».

Forse qualcuno potrebbe continuare ad insistere sul fatto che il dolore banalmente “appartiene” ad alcune pratiche artistiche – un prezzo da pagare per la realizzazione di una “buona arte”. Ma prendere di mira le vulnerabilità degli artisti è solo il preludio di un’attività più oscura e nascosta a Troubleyn. Nell’intervista alla VRT, Fabre sostiene che nei 40 anni in cui ha lavorato con la sua compagnia non ci sono mai stati problemi di molestie sessuali. Questa è una bugia. Sta apertamente distogliendo l’attenzione dai suoi stessi presunti atti di molestia.

Recentemente, nella primavera del 2018, una delle performer della compagnia si è dimessa, adducendo motivi che includono le molestie sessuali. Nella corrispondenza scritta con la compagnia, la performer dichiara esplicitamente: «l’impatto di un’esperienza #metoo irrispettosa e dolorosa mi ha condizionata nel mio lavoro e nella mia libertà interiore». Per lei, il lavoro è diventato «non più una sfida e una felice opportunità, ma una lotta e una battaglia contro incessanti manipolazioni».

Poco dopo, si è dimessa una collega che aveva visto altri due performer lasciare la compagnia per ragioni simili. Proprio il mese scorso, altre due colleghe se ne sono andate. Nessuna di loro voleva continuare a sottomettersi silenziosamente a questo ambiente. Questo equivale a un totale di sei dimissioni solo negli ultimi due anni, dimissioni che o riguardano oppure protestano contro casi di molestie sessuali, oggi chiamati spesso “#metoo”.

Quindi, cosa significa un’esperienza #metoo nel contesto di Troubleyn?

Molestie, sessismo e misoginia significano esattamente ciò che hanno sempre significato. Attraverso la condivisione e la riflessione sulle esperienze e le testimonianze raccolte – una delle quali risale a 20 anni fa – abbiamo potuto apprendere che i membri della compagnia Troubleyn hanno vissuto sul posto di lavoro decenni di modalità relazionali non professionali e inappropriate. Non si tratta di una nuova generazione più «sensibile». Né si tratta di «un problema iniziato un anno fa».

Una performer che ha lavorato con Fabre quindici anni fa afferma: «Già allora arrivavano proposte del tipo: “Niente sesso, niente assolo”. Quando ho raccontato alla gente del mio ambiente la mia esperienza, hanno semplicemente alzato le spalle, come se facesse parte del lavoro».

Le nostre testimonianze ed esperienze raccolte sono spesso così simili tra loro che mostrano schemi chiari e ricorrenti del comportamento di Fabre. Ad esempio, le testimonianze di otto performer diverse rivelano che Fabre porta avanti con continuità progetti di fotografia semi-segreti. Per questi cosiddetti progetti collaterali, Fabre invita spesso le performer a casa sua con la premessa di fare progetti di arte visiva, per poi trasformare la situazione in un’occasione per approcciare sessualmente la performer.

Una performer descrive una situazione del genere: «Dopo almeno un anno in compagnia, Fabre mi ha chiesto di fare un progetto extra, pagato in nero, di cui non avrei dovuto parlare a nessuno. Questo progetto consisteva nell’essere fotografata da lui in una situazione di cui mi vergogno ancora oggi. In questa situazione di presunto lavoro molto sgradevole, mi è stato offerto alcol e più tardi droghe per sentirmi più libera (questa è l’unica volta nella mia vita che ho fatto uso di droghe). Questo ha poi portato Fabre a chiedermi di più».

Questi progetti di fotografia semi-segreti e lo scambio di sesso per ottenere avanzamenti di carriera sono diventati una sorta di moneta parallela all’interno della compagnia, questo permette ai performer di accedere ad assoli e/o a future opportunità di lavoro in base alla risposta alle avances di Fabre. Quando le performer hanno rifiutato queste avances e hanno cercato di mantenere un rapporto professionale e rispettoso, le loro decisioni sono state accolte con vari gradi di punizione sottili e meno sottili, tra cui stalking, umiliazione verbale, aggressione e manipolazione.

A volte, alle performer vengono offerte grandi somme di denaro – apparentemente come compenso per la loro partecipazione a questi servizi fotografici privati. Questo è di per sé provocatorio se si tiene conto del basso stipendio ufficialmente riconosciuto da Troubleyn e del fatto che molti stagisti non vengono retribuiti.

Una performer riporta: «Dopo il servizio fotografico e dopo aver rifiutato i suoi approcci, mi sono sentita in una maniera orribile ed ero arrabbiata. Fabre non capendo mi ha detto che non avrei dovuto farne un grande problema. Volevo restituirgli i soldi, ma lui ha rifiutato. Mi ha detto che avrebbe fatto molti più soldi vendendo queste foto, per cui quel denaro era la mia parte. Mi ha chiesto se il motivo per cui volessi restituire i soldi era perché mi fossi sentita come ‘una puttana’».

«Una settimana dopo, mi invitò per una cena di lusso e mi offrì un assolo. Nelle settimane successive, a orari strani, Fabre continuò a chiamarmi, ordinandomi di comprare biancheria intima sexy e tacchi alti per ulteriori servizi fotografici. Ho rifiutato, ma sentivo che ne avrei pagato le conseguenze. Seguirono episodi difficili».

«Durante le prove tagliava il mio ruolo, perdevo le mie parti a vantaggio di un’altra performer. Non posso essere sicura che questo abbia a che fare con il servizio fotografico, ma qualcosa è cambiato nel suo comportamento. Una volta non ho seguito le sue indicazioni abbastanza velocemente e così è arrivato sul palco, urlando con il pugno in aria come se stesse per colpirmi. Disse: “Se non fosse stata la prima, ti avrei fatta fuori dallo spettacolo”. Ha continuato a offrirmi servizi fotografici, che io ho sempre rifiutato, e ha continuato a menzionare l’assolo».

Sapendo che Troubleyn è strutturato secondo una rigida logica gerarchica, queste punizioni spesso passano inosservate durante le prove perché i nuovi artisti in generale sono trattati in modo più “duro”. Gli stagisti e gli artisti che occupano posizioni più basse nella gerarchia di Fabre sono tenuti a resistere alle umiliazioni, alle molestie e alle punizioni, proprio come hanno fatto in passato i loro colleghi più anziani. Questo potrebbe essere visto come un modo per mettersi alla prova, ma è, in realtà, un modo di perpetuare collettivamente un ciclo di abusi in cui ognuno diventa involontariamente complice.

Per Fabre e i suoi difensori, queste situazioni potrebbero essere intese come espressione della libertà artistica e, in quanto tale, di un diritto umano. Potrebbe essere giustificato con la logica che i lavoratori dovrebbero semplicemente lasciare la compagnia se non sono d’accordo con certe modalità di lavoro che violano le regole “convenzionali”.

Ma i luoghi di lavoro artistici sono vincolati da norme, proprio come gli altri luoghi di lavoro. Quando abbiamo chiesto al sindacato di controllare le politiche del lavoro di Troubleyn (in olandese “Arbeidsregelement”), abbiamo scoperto che l’Art. 46 afferma che nessun atto di violenza, bullismo o molestie sessuali durante il lavoro è tollerato.

Le nostre testimonianze accumulate sollevano quindi la questione: quale funzione hanno queste regole quando molte delle persone che lavorano a Troubleyn non sembrano comprendere o riconoscere le gravi ripercussioni del comportamento di Jan Fabre, o peggio, quando Fabre difende il proprio comportamento come «sempre corretto»? Quanto sono complici – intenzionalmente o meno – gli altri dipendenti dell’organizzazione?

Ci si potrebbe chiedere perché i performer che hanno testimoniato non abbiano parlato prima. È semplice: Troubleyn non è un luogo dove si ha una conversazione aperta. In Troubleyn, i performer sono generalmente tenuti a rimanere in silenzio a meno che non abbiano ricevuto il permesso di parlare. Anche in questo caso, molte regole non dette impongono ciò che veramente si può e non si può discutere. Inoltre, essere accettati come membri della compagnia si deve ad un processo di resistenza: uscire con successo da un lungo e difficile processo di audizione con centinaia di altri performer che competono per lo stesso lavoro ti fa sentire come un “prescelto”.

Ma anche dopo che ti viene offerto un lavoro, continui a lottare per il tuo posto tra le persone “fedeli” che lavorano con Fabre da anni. Lasciare il lavoro, tuttavia, significa qualcosa di più che affrontare la disoccupazione. Tutti nel settore sono consapevoli di quanto questo possa rovinare la vostra reputazione, le vostre ambizioni e la vostra carriera.

Nonostante i nostri migliori sforzi per aprire una conversazione inclusiva su #metoo all’interno di Troubleyn, non ci siamo riusciti. O la conversazione è stata evitata, o i performer sono stati immediatamente messi di fronte a un ultimatum. Una performer riporta: «Quando alcuni di noi non erano del tutto d’accordo quando Fabre giustificò la sua decisione, ci fu subito detto che in quel caso eravamo ‘liberi di andarcene’. Ai giovani interpreti che decisero di rimanere fu poi chiesto di scrivere una lettera a Troubleyn in cui dovevano spiegare perché volevano continuare a lavorare con Fabre, come se fosse una questione di lealtà».

Da questa situazione abbiamo concluso che tali problemi non saranno risolti all’interno della compagnia Troubleyn. Abbiamo chiesto aiuto a diverse organizzazioni del settore, ma nessuno sembra avere la capacità di intervenire nella situazione di Troubleyn. Con l’aiuto del sindacato, abbiamo chiesto consulenza legale, ma ci siamo presto resi conto che il sistema giudiziario è troppo lento.

Come possiamo aspettare altri due o tre anni per far sentire la nostra voce e permettere che nuovi colleghi non vengano informati su quanto è successo in passato? Non possiamo stare in silenzio mentre si accumulano le dimissioni dei nostri colleghi e mentre siamo testimoni di come Troubleyn distorce e oscura le motivazioni per le quali i nostri colleghi lasciano la compagnia.

Accanto a ciò che abbiamo visto, sentito e/o sopportato, vogliamo riconoscere che molti di noi hanno anche imparato durante il periodo trascorso a Troubleyn. Tuttavia, allo stesso tempo, molti di noi hanno subito direttamente sessismo e abuso di potere. Alcuni di noi sono stati solo testimoni di queste pratiche, ma tutti noi chiediamo che finiscano.

Quando Fabre dice che il ‘legame segreto’ tra regista e performer è danneggiato quando cresce la consapevolezza sul sessismo e sulle molestie sessuali, vogliamo ricordargli che è proprio l’incapacità di creare un ambiente di lavoro aperto, consapevole e rispettoso che rappresenta una vera minaccia per qualsiasi rapporto artistico.

Parlare dei problemi di Troubleyn non è un attacco alla “libertà artistica”, ma piuttosto un tentativo di rompere una concezione molto ristretta di ciò che la libertà è o può essere. (Libertà per chi? Per fare cosa?). In questo modo, vogliamo sollevare alcune questioni fondamentali: che cosa stiamo così disperatamente proteggendo e giustificando in nome dell’arte? Chi proteggiamo e perché permettiamo che le cose continuino ad andare avanti così?

Il problema non inizia né finisce alle porte di Troubleyn. Questa lettera va letta innanzitutto come un tentativo di porre fine a una cultura del silenzio e come un invito a denunciare gli ambienti di lavoro nocivi anche in ambito artistico. Questa lettera non è un regolamento di conti personale. Portando alla luce la nostra esperienza del comportamento di Fabre, speriamo di dare inizio a un discorso sull’argomento di cui abbiamo davvero bisogno.

 

Tutt* abbiamo delle responsabilità.

Oggi, la nostra responsabilità è quella di parlare.

Chiediamo al direttivo di Troubleyn di assumersi le proprie responsabilità.

Chiediamo alla comunità artistica di sostenere e di investire in questo dialogo. Chiediamo al consiglio di Troubleyn di assumersi le proprie responsabilità. Chiediamo al governo e alle sue istituzioni di considerare anche il loro ruolo nel responsabilizzare individui e organizzazioni.

Insieme non appoggeremo più una cultura dell’ipocrisia e della negazione in nome dell’arte. Insieme lavoreremo per una comprensione più ampia della libertà artistica.

Oggi le nostre voci contano. Saranno ascoltate.

Noi, (ex) dipendent* e stagist* di Troubleyn,

firmiamo in solidarietà e a sostegno di tutte le nostre colleghe

 

Traduzione di Marina Donatone