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Il rito della trasgressione. Cherish Menzo e François Chaignaud a Short Theatre

Due spettacoli del festival romano che “giocano” coi codici espressivi del corpo, a metà strada fra possessione e controllo, fra eccessi visivi e misurati disegni coreografici

Il gomito “scalcia nell’aria” appena dopo il colpo di cassa elettronica, i movimenti piano piano si “scollano” dal ritmo della musica e vanno in levare, segnando sincopi irregolari: qualcuno ha detto che Cherish Menzo viene da un altro pianeta, da «un luogo e un tempo sconosciuti». La sua performance, Jezebel, funge come da “cerniera” fra la prima e la seconda parte del festival romano di arti visive Short Theatre, che ha occupato dal 3 al 13 settembre gli spazi dell’ex-Mattatoio a Testaccio e il palazzo Wegil nel rione di Trastevere, un festival che ha messo al centro della sua programmazione prospettive importanti e quantomai urgenti: quelle dell’ascolto, della de-colonizzazione degli spazi e degli immaginari, del corpo inteso innanzitutto come corporeità (anche immateriale).

Sono appunto temi che tutti si intrecciano, aggrovigliandosi e richiamandosi l’un l’altro, nella performance dell’artista olandese di origini surinamensi, in cui ogni elemento scenico è in primo piano e sullo sfondo al tempo stesso.

Il gesto, i costumi variegati ed eccentrici, un approccio sfacciato e di una sensualità prorompente che si ispira esplicitamente a quello delle modelle “video vixen” dei videoclip dei cantanti rapper, originali coreografie agite con il solo mezzo dei muscoli facciali e delle dita della mano (munite di lunghe extension per le unghie) e ingigantite su di uno schermo si fondono a musiche che di tanto in tanto riempiono il palco e quasi “si mangiano” le immagini, a un’atmosfera di sospensione rarefatta ed estrema che sembra davvero ricordare l’atterraggio di una navicella spaziale, l’arrivo di un’entità aliena (e alienata?).

Nessun accenno figurativo o mimetico, però: l’alterità espressa da Cherish Menzo, al di là di una colonna sonora sopra le righe e della scelta di costumi eccentrici, dal chiaro intento parodistico, si gioca tutta sulla qualità delle sue movenze, in un modo di interpretare il ritmo che la fa apparire posseduta da qualche forza sovrannaturale e al contempo in pieno controllo di se stessa.

Si tratta di una linea sottile, dove il carattere provocatorio della performance (appunto: una sensualità esibita e giocosa, sottolineata anche dalle liriche delle canzoni, un apparato scenico immaginifico e vivido) sembra quasi combinarsi in maniera “armonicamente dissonante” con la rigidità e la precisione di certe posture, di una composizione coreografica che appare quasi meccanica in alcuni punti: sulla scia di uno dei brani in salsa reggaeton che costellano lo spettacolo, la danzatrice si ritrova seduta a terra, appoggiata allabicicletta bmx con cui ha fatto capolino sul palco, e i suoi arti si animano in una fine danza di spasmi e singulti, come fossero ingranaggi (rotti) di un orologio.

È la chiusura del cerchio: lo spirito selvaggio, sciamanico e sovversivo di Jezebel (nome biblico che, peraltro, in lingua inglese indica una “donna impudente, priva di freni morali”) spinge il corpo a uscire da sé, a sfaldarsi in mille pezzi, ma è proprio questa sfacciataggine, questa volontà provocatoria esibita e protesa all’eccesso, che infine “riconferma” il corpo stesso come elemento unitario, come “soggetto sovrano”.

Direttrici simili animano anche la performance di punta del primo fine settimana, Думи мої | Dumy Moyi del coreografo, performer e storico francese François Chaignaud, figura molto conosciuta e apprezzata nel panorama di ricerca anche italiano. Al secondo piano del palazzo Wegil, in uno spazio in qualche modo impersonale ma raccolto, e dunque “intimo”, il ballerino fa il suo ingresso in scena nella più completa oscurità, illuminato solo da una torcia che viene sorretta da un altro performer al seguito. Come spesso fa nei suoi spettacoli, Chaignaud ci vuole condurre in un antro, in una grotta ancestrale dove poter osservare il gesto e la danza nel loro aspetto più archetipico e rituale.

A questo concorrono i vari e stratificati elementi messi in campo da Думи мої | Dumy Moyi: melodie ucraine, sefardite e filippine, costumi (per come li definisce la stessa presentazione dello spettacolo) «monumentali» e cerimoniali, «riferimenti storici eterogenei», «confluenze tra danza erotica e operetta, hula-hop, spettacoli di drag e cabaret, avanguardie del modernismo coreografico del Primo Novecento».

Il ballerino francese, seppure nel breve spazio di una coreografia “concentrata” e circoscritta, dà vita a una sorta di “performance totale”, in cui utilizza allo stesso tempo canto lirico, suono, danza ed espressività corporea. Si muove tracciando ampi cerchi, sporgendosi qua e là e all’improvviso verso il pubblico in un impeto provocatorio, assumendo pose plastiche in cui l’imponenza e la “verticalità” dei costumi (a un certo punto Chaignaud indossa una sorta di lunga struttura triangolare che fuoriesce, verso l’alto, dalla sua schiena) diventa tutt’uno con una potenza muscolare esibita e sottolineata spesso da micro-movimenti specifici, che interessano magari solo i piedi o le ginocchia o le spalle.

Anche qui, è all’opera un sottile ribaltamento dell’immaginario. Per quanto non si tratti dell’unica componente dello spettacolo, l’aspetto drag dell’approccio del ballerino francese – ma più in generale, la componente dell’eccesso, di uno “sfarzo” della visione e della presenza attoriale, che si ripercuote anche nella scelta eccentrica e ricercata delle melodie con cui accompagnare il gesto – subisce un’incrinatura.

Se, “normalmente”, il drag è (anche) un modo per parodiare il genere e i generi, per ridicolizzare (attraverso l’auto-ironia) quelle convenzioni sociali che vengono percepite come oppressive, in Думи мої | Dumy Moyi è come se questo lato ironico, “sciancato”, fosse sottratto, disinnescato. O meglio, “sublimato” tramite una coreografia in tutto e per tutto misurata, chirurgicamente delineata nei dettagli e nella gestione dello spazio.

Nessun abbassamento, dunque, nessun accento neanche vagamente caricaturale, bensì una pienezza quasi “regale”, imponente, dell’espressività fisica, che – nel suo elevare la danza a rituale – riafferma l’identità del corpo, trascendendone i codici.

Tutte le foto di Claudia Pajewski.