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Intervista #1 / Jesuit Refugee Service: «Nessuno sforzo a favore della comunità ezida»

Governo iracheno e autorità regionali del Kurdistan stanno facendo poco o nulla per aiutare ezidi ed ezide a far ritorno nella propria terra dopo il massacro dell’Isis. Il punto di vista di una Ong che opera sul territorio

Dal cinque anni, l’associazione non governativa Jesuit Refugee Service è presente nel governatorato di Duhok, a nord dell’Iraq e vicino al territorio in cui vive la popolazione ezida vittima del terribile massacro compiuto da Daesh fra il 2014 e il 2015. Si occupa di fornire protezione agli sfollati che ancora faticano a far rientro nella propria terra d’origine. Abbiamo parlato con il rappresentante dell’associazione Talal Salih, a partire dal report Still in Captivity: Ezidi (Yazidi) Survivors, Families and Activists Demand Action to Find and Support Missing People Abducted by Islamic State (Isis), pubblicato il 22 febbraio di quest’anno. Vi si denuncia la scarsa partecipazione delle autorità irachene alle operazioni di messa in sicurezza e ricostruzione della regione di Sinjar, dove vive la comunità ezida.

Oltre 500mila ezidi ed ezide sono sfollati dalla propria regione di provenienza e faticano a farvi ritorno. Come mai una tale difficoltà?

Ci sono molte ragioni, ma la più importante è certamente la mancanza di sforzi da parte del governo iracheno e delle organizzazioni locali e internazionali nel garantire sicurezza e servizi nell’area di Sinjar. Ancora, infatti, sono presenti numerose fazioni armate sul territorio e sono in corso conflitti militari e politici, tanti villaggi e tante zone della regione non sono state liberate da mine e resti d’esplosivo, il che rende davvero difficile far ritorno. In questo senso, i contrasti fra le autorità irachene e quelle delle autonomie curde del nord del paese giocano un ruolo rilevante.

Serve dunque un maggiore impegno da parte dei governi nel rispettare la dignità della comunità ezida e nel far sì che si creino le condizioni favorevoli per un rientro sicuro e stabile della popolazione nella regione. Inoltre, è quanto mai urgente iniziare la ricostruzione di ciò che è stato distrutto dallo Stato Islamico.

Inoltre, ci sono le persone ancora rapite o scomparse…

Durante l’attacco dell’Isis del 2014 più di 6mila ezidi sono stati rapiti, per la maggioranza donne e bambini. Le prime sono state ridotte a schiave sessuali, mentre i secondi utilizzati nei combattimenti dopo essere stati sottoposti a un lavaggio del cervello. Diversi sono stati trovati e liberati nel corso degli ultimi sette anni, ma il destino di almeno 2.800 di loro rimane sconosciuto. Tali liberazioni sono state messo in atto soprattutto da parte dalla popolazione civile ezida, con la collaborazione di quelle comunità che vivevano vicino al territorio dello Stato Islamico e attraverso il pagamento di riscatti che arrivavano anche a 30mila dollari.

Il governo iracheno e il governo regionale del Kurdistan, al contrario, non ha messo in campo alcuno sforzo concreto nel trovare modi o meccanismi per raggiungere e liberare le persone rapite, fino a che queste non venivano disperse fra diverse nazioni (Siria, Turchia, Libia, lo stesso Iraq e altre). Allo stesso modo, la comunità e le organizzazioni internazionali non hanno fatto alcuna pressione affinché ciò avvenisse.

Perché una così scarsa attenzione verso la comunità ezida?

In generale, nel contesto iracheno, le minoranze sono minacciate dal rischio di estinzione. Posso assicurare che quanto è accaduto alla comunità ezida è dovuto alla loro particolare identità culturale e religiosa e questo è un elemento che gioca ancora un forte peso nel determinare le decisioni delle autorità e dei governi. Tale identità, insomma, ha assunto una valenza squisitamente politica: è la ragione per cui si sta fallendo nell’affrontare la problematica delle persone ezide scomparse.

Esiste però un Comitato per la ricerca degli ezidi rapiti…

Questo comitato non include al proprio interno membri della comunità ezida e i familiari delle persone scomparse. È stato formato senza tenere in considerazione la loro opinione: gli ezidi vengono ancora visti come pure vittime e come una minoranza incapace di apportare alcun cambiamento. Si tratta davvero di un atteggiamento irragionevole e illogico.


Al contrario, i vantaggi di un’inclusione di ezidi ed ezide sarebbero molteplici: potrebbero facilitare la ricerca delle persone scomparse permettendo una maggiore comunicazione con loro, nel caso ci si riuscisse a mettere in contatto, oltre a possedere una buona conoscenza delle aree in cui sono tenuti prigionieri i rapiti sia dentro che fuori il territorio iracheno.

Per quanto riguarda altre istituzioni o comitati, la comunità ezida è sufficientemente rappresentata?

Per niente. La presenza di membri della comunità ezida all’interno delle istituzioni politiche e negli organi incaricati di compiere delle scelte in Iraq è piccola, praticamente non esistente. Una popolazione di circa 500mila persone ha solo un rappresentante in Parlamento, quando al contrario dovrebbe essere garantita una rappresentanza di almeno cinque posti. Si tratta chiaramente di una conseguenza della mancanza di rispetto verso gli ezidi in generale e del fallimento nell’assicurare che possano godere dei propri diritti. Tutto ciò influenza in maniera negativa la condizione anche psicologica della comunità, per non dire del loro sentimento di appartenenza verso il paese in cui si trovano.

Quali sono altre azioni urgenti da portare avanti?

Stando alle cifre fornite dallo Yazidi Affairs Office, nella regione di Sinjar sono presenti almeno 82 fosse comuni e sepolture singole. Unitad (gruppo promosso dalle Nazioni Unite per promuovere la responsabilizzazione per i crimini commessi da Daesh, ndr) è riuscita ad aprirne solo 17 nel corso di due anni di ricerca e lavoro. Un processo molto lento che influenza negativamente anche la documentazione e la raccolta di prove dei crimini dell’Isis nei confronti della comunità ezida.


Poter procedere all’apertura di queste fosse è invece molto urgente. Consentirebbe l’identificazione delle vittime e assicurerebbe un conteggio più preciso delle persone scomparse, visto che in molti casi non è chiaro se gli ezidi rapiti si trovino ancora nelle grinfie dell’Isis oppure sepolti da qualche parte. Inoltre, aiuterebbe a un pieno riconoscimento di quanto subito dalla popolazione di Sinjar come un “genocidio” presso le Corti di Giustizia internazionali e favorirebbe l’assegnazione di ricompense e sostegno ai familiari delle vittime.

La comunità internazionale può dunque giocare un ruolo importante?

Per sette anni, ezidi ed ezide hanno chiesto ripetutamente alla comunità e alle organizzazioni internazionali di assumere una posizione molto netta a sostegno e supporto della popolazione di Sinjar. È fondamentale che gli organi di questo tipo assicurino la propria presenza sul territorio iracheno e mettano in atto meccanismi di protezione, affinché non si verifichino più casi di genocidio come quello perpetrato dall’Isis nel 2014 verso una comunità che ha già subito altri 73 massacri nel corso della storia. Occorre mobilitarsi per la ricostruzione di Sinjar e dei villaggi circostanti e per il ritrovamento delle persone scomparse: è l’unico modo per far sì che ezidi ed ezide possano vivere in pace e in sicurezza nella propria terra d’origine.

Tutte le immagini di Francesco Brusa