cult

CULT

Indicativi e condizionali della guerra partigiana

Il nuovo libro di Santo Peli, uno dei più importanti storici della Resistenza, è un antidoto a semplificazioni e rovescismi sempre più diffusi. Una lettura di La necessità, il caso l’utopia. Saggi sulla guerra partigiana e dintorni, tra antropologia dei partigiani e scoperta della politica

«Un tempo senza storia» come quello in cui ci troviamo a vivere non è certo quello più favorevole per una riflessione critica sulla guerra partigiana, compresso come è dall’uso/abuso della storia – specie della storia della Resistenza – da cui è caratterizzato. Non è facile ai giorni nostri districarsi tra le più o meno consapevoli distorsioni a cui il fenomeno resistenziale viene sottoposto: da una parte, quelle di una pubblicistica scandalistica che, con il suo «rovescismo» – fase suprema del revisionismo, per dirla con Angelo D’Orsi – ha postulato con discutibile autorevolezza sulle presunte atrocità partigiane durante e soprattutto dopo la guerra di liberazione; dall’altra quella di una narrazione, tanto tipica del sentire comune quanto delle celebrazioni istituzionali, che tende a incentivare letture monumentalizzanti ed esaltazioni eroicizzanti, rimuovendo di converso «limiti, ostacoli, divi­sioni e difficoltà, componenti indispen­sabili per comprendere non solo il concreto farsi della Resistenza, ma anche i suoi esiti problematici, immediati e di lungo periodo».

La citazione (a p. 28) è tratta dal nuovo libro di Santo Peli, La necessità, il caso l’utopia. Saggi sulla guerra partigiana e dintorni (Bfs Edizioni, 2022), una raccolta di saggi che non rappresenta soltanto l’evocativa summa di alcune delle ricerche di uno dei più lucidi protagonisti della stagione di studi apertasi ormai un trentennio fa grazie al capitale lavoro di Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Essa costituisce anche un itinerario, fruibile anche al di fuori della ristretta cerchia degli «addetti ai lavori», le cui tappe ripercorrono problematizzandoli molti dei nodi tematici che in questo «tempo senza storia» sono lasciati sospesi e insoluti. Un supporto prezioso non solo per indagare la Resistenza in sé, ma anche i filtri con cui la nostra società nelle sue variegate componenti – non solo quella della storiografia – ha letto e continua a leggere, rimodulandola, quell’esperienza. Parafrasando il sunnominato Claudio Pavone, un’opera che non contestualizza soltanto la lotta partigiana, ma anche gli storici e la lettura pubblica che di quell’oggetto storico viene fatta.

Un ottimo antidoto per dissipare la nebbia addensatasi intorno alla lotta partigiana sia a causa delle continue  incursioni revisioniste sia a causa di un approccio idealistico e astratto al tema, di una storia tautologicamente fatta  «solo all’indicativo», che per sua natura tende a razionalizzare il passato, «teleologicamente proteso a inverarsi» (p.102), mentre tutto ciò che resta ai margini, che non è aderente all’esito finale, che è coniugato «al condizionale» – perché avrebbe anche potuto non accadere o perché avvenuto al di fuori del percorso tracciato da quella narrazione – viene privato di spessore e rilievo, considerato eccentrico e fuori fuoco, non facendo più storia.

L’intento del libro è dunque quello di mettere le lettrici e i lettori in guardia dai rischi di una stagione memoriale che semplifica le contraddizioni, minimizza le tensioni e appiana le aspettative che i/le combattenti della guerra partigiana serbavano.

Una stagione che rifugge la complessità e privilegia interpretazioni omogeneizzanti, in cui scompaiono le dimensioni esperienziali ed esistenziali dell’essere partigiani/e e in cui i radicali desideri di rivolgimento politico e sociale cedono il posto a un assolutizzato amor di patria e libertà e all’immagine di una Resistenza «beata e soddisfatta» nei suoi esiti, per certi versi obbligati e inscritti già nelle loro stesse premesse. Questo sembra tanto più urgente visto il sempre più intenso palesarsi del rischio di una regressione memoriale, di un ripiegamento su una narrazione pubblica della Resistenza simile a quella che ha caratterizzato i primi anni del post-Liberazione, quando si è tentato di ricondurre a unità la storia di un movimento che invece era estremamente variegato, frastagliato e com­plesso, eludendo, o almeno lasciando in sordina, tutti quegli aspetti che sembravano evidenziarne le contraddizioni e limitarne la portata nazional-patriottica. Ciò su cui l’autore vuole farci riflettere è la riduzione della lotta resistenziale a un simulacro o a «un mito, un ricordo completamente disincarnato, un’entità metafisica» – per dirla con Lelio Basso – e la sua imbalsamazione a esperienza pacificata, combattuta esclusivamente in chiave nazional-patriottica e nobilitante, mai compromessa con forme di violenza brutale, avulsa dal contesto della «guerra grossa». Una Resistenza interpretata come fondamento e al contempo prova inoppugnabile di un’unità nazionale – quella di un intero «popolo alla macchia» – che non solo non sarebbe stata messa in discussione dal divampare della guerra civile, ma che all’interno del perimetro di quella temperie sarebbe sbocciata pienamente, inverandosi nella cornice dell’adesione a un ideale di libertà tanto grande e nobile da essere de facto svuotato di significato.

Nel libro viene messa in risalto invece l’«antropologia partigiana» (p. 121), necessaria contro semplificazioni e riduzioni di quella esperienza «a un’opaca indistinta e acefala guerra di popolo». Tra le sue pagine ampio spazio viene riservato alla «genesi laboriosa, incerta, complicata» (p.9) che la scelta partigiana portava con sé, al «percorso tortuoso, alle lacerazioni interne e alle aspirazioni contraddittorie» della moralità nella Resistenza. Al centro ci sono il vissuto dei partigiani, i sentimenti, le emozioni, le paure di fronte a una guerra dalle caratteristiche del tutto nuove e annichilenti; una lente sull’essere uomini e donne di quegli uomini e donne – parafrasando Emanuele Artom – sulle difficoltà, le contraddizioni e i problemi etici, tutti lontanissimi dall’enfasi eroicistica o dal paradigma martirologico che hanno accompagnato e accompagnano il discorso sulla Resistenza nell’opinione pubblica.

Il libro approfondisce inoltre i drammi che comportava la scelta della violenza, da perpetrare e da subire; una scelta mai ipostatizzata e cristallizzata in forme fisse e sempre richiedente complessi meccanismi di legittimazione, tanto più poiché maturata in una società «fortemente atomizzata, politicamente analfa­beta nella stragrande maggioranza e caratterizzata da un evidente e radicato rifiuto della guerra» (p. 44).

Una scelta, quella di imbracciare le armi e di farsi portatori a sostenere lo jus vitae ac necis che, pur maturata di fronte al raro spettacolo della rottura del monopolio della violenza in uno stato nazionale messo in discussione sia nel sostantivo sia nell’aggettivo, non può esaurirsi nell’analisi del contesto, trovando invece nella continua e intima tensione tra «la violenza come seduzione e la violenza come dura necessità» ragioni e «motivazioni molto com­posite, dove convivono progetti politici e casualità, dimensioni nazionali e specificità locali, organizzazioni fortemente istituzionalizzate e spontaneità» (p. 39).

Un altro significativo merito del libro è quello di sapere donare nuovamente rilievo alla Resistenza come evento fondativo dello stato repubblicano, come radicale e innovativa cesura nella storia sociale e politica della nazione, non tanto o non solo come movimento in grado di ingenerare un sommovimento dell’assetto politico-istituzionale del paese, ma anche come esperienza in grado di fondare una nuova dimensione collettiva e di inventare comportamenti sociali fino a quel momento solo difficilmente riconoscibili. Tutti e nove i saggi che compongono l’opera sembrano evidenziare le eredità che il fenomeno partigiano ha lasciato in dote al contesto repubblicano: «l’ampiezza e la passionalità della par­tecipazione alla vita collettiva, la rinascita della politica come desiderio e disponibilità a partecipare, come aspirazione a riprendere la parola» (p. 80), la sperimentazione di identità non più esclusivamente private e individuali in favore dell’assunzione di responsabilità collettive; tutti elementi che senza il prorompere di quella cospicua minoranza sul palcoscenico della storia nazionale ed europea sarebbero probabilmente ancora oggi difficili da immaginare.

In definitiva, La necessità, il caso l’utopia sottolinea la principale e più feconda eredità dell’esperienza resistenziale: quella di una scoperta della politica, «del diritto-dovere di partecipare alla vita collettiva» (p. 85).

Proprio da questo punto di vista, dunque, e non da quello dell’incensato e pacificato eroismo istituzionalizzato, la guerra partigiana può essere interpretata come la più decisiva cesura della storia nazionale: «la rottura della tradizionale acquiescenza dei ceti subalterni, che tiene a battesimo un’idea moderna di cittadinanza e riafferma il diritto alla disobbedienza e alla partecipazione alla formazione di una volontà collettiva. In questo senso la Resistenza rappresenta l’autentico ingresso della società italiana nel novero delle democrazie moderne» (p. 86).

La foto di copertina proviene dall’Archivio privato Danilo Baldini – Cerreto d’Esi