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Essere Impero: il privilegio del trauma

La rappresentazione cinematografica dell’imperialismo americano da “Apocalypse Now” di Coppola a “Casualties of War” di De Palma, fino al più recente “5 Bloods” di Spike Lee si dà come rappresentazione del trauma del colonizzatore. Come era già avvenuto per l’interiorizzazione della caccia narrata da Melville, l’ideologia americana trasforma l’imperialismo in un principio di guerra civile

Ogni serio imperialismo custodisce in sé la guerra civile come il frutto fa con il seme.

La vera guerra non è con il barbaro esterno ma conflitto interiore del soggetto attivo imperiale. Non deve chiedere scusa al nemico, perché pratica l’inimicizia su di sé e può permettersi di compiangere le ferite del nemico in quanto esperto delle proprie.

L’assedio di Wilusa, la città più settentrionale della confederazione asiatica di Assuwa, regno di Alaksandou-Alexandros (Paride), da parte della confederazione europea di Ahhiyawa, è celebrato dai cantastorie omerici senza particolari connotazioni etniche, ma già nel V secolo, dopo le guerre ellenico-persiane, la distruzione di Troia diventa un simbolo del conflitto fra la democrazia imperiale greca e la tirannia asiatica.

Eschilo, valoroso combattente a Maratona, Salamina e Platea, nel glorificare, attraverso il lutto dei nemici, la resistenza a una guerra d’aggressione, non perde l’occasione per fondare la lettura ideologica del conflitto, libertà contro servitù, Occidente contro Oriente: i Greci «hanno fama di non essere schiavi (doûloi) a nessuno, a nessuno sottomessi (hupékooi)» (I Persiani, 242). Tuttavia il difetto dei Persiani è la loro mancanza di misura (metriotes), la hubris degli aggressori, di cui anche i Greci possono macchiarsi.

La messa in scena dei Persiani è però occasionale; ben più frequente è il riferimento alla guerra di Troia, dove i Frigi, cinque secoli dopo Omero, sostituiscono gli iranici come “barbari” orientali, nemici della democrazia. Euripide versa lacrime sul destino di Andromaca e di Ecuba fatte schiave, ma ribadisce che è meritorio il sacrificio di Ifigenia per dare vento alle vele elleniche, perché «siamo Greci e dobbiamo far passare i barbari la voglia di rapire le nostre spose con la forza» ed «è giusto che i Greci abbiano il dominio sui barbari, e non i barbari sui Greci: loro sono schiavi e questi sono uomini liberi» (Ifigenia in Aulide, 1380-1401).

Solo Lucrezio, nella sua polemica contro la guerra di conquista, la navigazione e la superstizione religiosa, qui congiunte nel sacrificio propiziatorio, avrà il coraggio di commentare «tantum religio potuit suadere malorum» (De rerum natura, I 101). Posizione isolata a Roma tanto che Virgilio, con piena adesione alla retorica augustea, farà predicare all’ombra di Anchise sulle rive del Lete un programma già di manifest destiny: i Romani non perdano tempo con le arti e i buoni sentimenti alla greca, ma si occupino di «regere imperio populos» e imporre una pace imperiale, menando a chi resiste e accogliendo paternamente chi si assoggetta («parcere subiectis et debellare superbos», Aeneis,  VI 850-853). Esuli Frigi e ospiti Latini sono ormai mescolati, per sangue sparso e per coniugio; il programma imperiale è etnicamente misto. Potere e ordine giuridico, la razza dell’imperatore è secondaria. Barbaro è chi sta fuori del limes e pretende di varcarlo, a meno che non si faccia mercenario.

Gli imperialismi coloniali europei dell’Otto-Novecento, l’imperialismo Usa quasi senza colonie oltremare (ma con mezzo Messico occupato), il sionismo e il suprematismo Han post-maoista sono invece nati nel segno dello Stato-Nazione e hanno un forte connotato etnico, variamente integrato o travestito con fattori religiosi e culturali. L’universalismo predatorio è la loro cifra e il corteo di vincitori la performance più tipica. Vivono e si sviluppano nel mood dell’espansione illimitata e non certo della misura ellenica. Non hanno una narrazione sull’altro, ma parlano solo di sé. Mai rappresenterebbero un Ettore, un Serse, una Didone. Al massimo rimuovono e fagocitano il colonizzato come un problema interno, il proprio lato oscuro (il “cuore di tenebra” conradiano), oppure fanno del dominio coloniale una metafora per la lotta di classe (le “due nazioni” di Disraeli). Tipiche tattiche di riduzione di complessità, cioè di immunizzazione del caos ambientale mediante internalizzazione nel sistema secondo schemi controllabili.

 

 

Prendiamo le due maggiori (e alternative) rappresentazioni della formazione di una nazione statunitense giovane e di mista origine (lasciamo perdere la patetica rammemorazione in Via col vento): la rivoluzionaria per tecnica ma abietta nel messaggio Birth of a Nation (1915) di David W. Griffith e il fluviale e avvincente It(1986) di Stephen King. Nella prima l’esclusione del Nero suggella la ritrovata unità fra Nord e Sud e quindi il via libera all’assoggettamento di messicani e nativi – tuttavia il Nero è incamerato come minaccia internapermanente e fantasia di stupro, che esige l’altrettanto permanente terrore del KKK e succedanei –, nel secondo (di nuovo un capolavoro) tutte le vittime (libere donne di Salem, neri linciati, cimiteri indiani, sovversivi) sono integrati nella lotta contro il Male che è il vero spirito dell’Impero: il quale si costituisce secondo una dialettica fra quegli estremi ineliminabili. Tutto è storia interna dell’America. Il Vietnam-Atlantide è una sua proiezione fantasmatica.

Del resto sarebbe assurdo chiedere che a far parlare il colonizzato sia il colonizzatore traumatizzato. La soluzione giusta che è che il colonizzatore (l’intellettuale dissidente che prende la parola nella metropoli) descriva a fondo l’esperienza del trauma, i guasti che il dominio produce sul dominante. Perfetta dunque in Apocalypse Now, la confluenza di Cuore di tenebra e di The End, cioè della rivolta edipica di Jim Morrison contro un padre generale dell’aviazione: ci parla degli americani in Vietnam, non dei vietnamiti. Perfino Casualties of War di Brian De Palma è un duro film sulla cattiva coscienza degli assassini, non sul calvario delle vittime. Forse solo un esule da Brooklyn come Stanley Kubrick poteva dar voce a una combattente vietnamita assetata in Full Metal Jacket.

 

 

E così anche Da 5 Bloods, il film di Spike Lee su Netflix (che qui NON stiamo recensendo nei suoi valori specifici), è una mirabile quest di qualcosa del loro passato che avevano perso e di cui l’oro sepolto è solida allegoria, è la voglia di chiudere i conti con un passato che non vuole passare e in cui le sofferenze e le discriminazioni del presente si assommano a quelle degli anni ’60, come ben commenta Pietro Bianchi su “Doppiozero”, ed è vero, che, a differenza dei film “bianchi” sul Vietnam, il vero trauma non è quello della guerra bensì quello della condizione afro-americana, di dare una forma alla propria rabbia – allora come oggi – , di destinare l’oro allo sminamento e a BLM. È anche vero, però, come ha osservato con accenti critici Viet Thanh Nguyen sul “New York Times” del 24 giugno 2020, che l’abituale  «solipsistic, American-centered, whitewashed fashion» di trattare quella guerra non viene meno neppure quando essa diventa una “guerra civile” dentro l’anima americana e i suoi soldati restano al centro della scena pure da villains o anti-eroi (in Apocalypse Now, per esempio), mentre vietnamiti, laotiani o cambogiani giocano un mero ruolo di comparse o vittime. Non fa eccezione neppure la versione alfine black di Spike Lee, black American antirazzista ma pur sempre American, così che il recensore, di fronte all’ennesima scena di sparatoria, si interroga: «Does it make any difference if politically conscious Black men kill us?». Certo, la luce dei riflettori cade sui neri e il razzismo anti-musi gialli è minimizzato, ma i viet di oggi vestono i panni della guida turistica, della puttana, del mendicante molesto e del gangster che si giustifica con il massacro di My Lai. Mentre i neri assumono finalmente il proprio trauma (come il tenente bianco in Apocalypse Now) e mostrano nella loro soggettività la parte conflittuale di quella americana, i vietnamiti – per cui pure la guerra fu in primo luogo una lacerante guerra civile interna con intervento prima francese e poi americano – restano relegati nel ruolo di vittime silenti o querule. La storia dei vincitori resta tale anche se è una storia autocritica e perfino se i vincitori in realtà erano localmente sconfitti e costretti alla fuga, salvo tornare alla grande con i McDonald’s e i tour per veterani.

Chiudiamo il cerchio: ogni poema epico (dall’Iliade al filmone di guerra) mette in scena, dietro al nemico esterno, una guerra civile. Il seguito dell’Iliade è la strage dei Proci nell’Odissea e, ancor prima, il massacro di Agamennone a Micene e tutte le vendette e i lutti che ne seguirono. E l’Impero ateniese si formò in una permanente guerra fra le città greche di volta in volta alleate con i Persiani. I Romani risolsero i conflitti interni fra patrizi e plebei con un incessante espansionismo verso l’esterno.  Con il formarsi delle nazioni moderne l’Uno sovrano si regge sull’esclusione di un nemico interno e l’assoggettamento di altri popoli. La narrazione nazionale è una falsificazione consolatoria o drammatica.

La furia annessionistica investe in particolare la giovane cultura imperiale statunitense, a differenza delle vecchie culture europee che si crogiolano nelle glorie nazionali o considerano alla pari l’avversario che definisce la genealogia del potere imperiale: per i nobili Achei Ettore è ”uno di noi” (e per i romantici un buon patriota, il cui sangue versato per la patria è santo e lacrimato), Didone per Virgilio è una donna abbandonata passionale e suicida, Chadži-Murat per l’aristocratico anarchico Tolstoj è un parigrado ceceno che, come lui, odia gli zar…

 

 

Sin dall’inizio la cultura Usa assorbe invece il nativo (sterminato) nella propria mitologia fondazionale: prima come “nobile selvaggio” (Fenimore Cooper, The Last of the Mohicans, 1826), poi come infido redskin  nei film western classici, infine come Native American riscattato nel nuovo western progressista – insomma, la storia dei vinti è scritta prima dall’immenso John Ford, poi dai volenterosi revisionisti degli anni ’70, che ci illustrano di preferenza la crisi di coscienza di cacciatori refrattari e soldati blu.

Lo stesso discorso vale per il rapporto con l’altrettanto sterminata natura: la falcidia delle balene è rappresentata attraverso i tormenti del capitano Ahab e la trasformazione allegorica della preda Moby Dick (l’incorporazione del Male nel quotidiano è un topos a stelle e strisce, da Poe a Melville a Ellroy). Di nuovo, un capolavoro e certo non poteva scriverlo la balena, ma il metodo è sempre quello: interiorizzare una caccia nella divisione dell’animo del cacciatore. Scatenando una guerra civile il vincitore si annette la parte del vinto, parla a suo nome.

A volte l’operazione, che presuppone il nemico tacitato una volta per tutte, sigillato nelle riserve o tutelato dal WWF, fallisce. Il Messico è un boccone troppo grosso e l’epica della Conquista e della Rivoluzione è lasciata ai murales dei  creoli e meticci locali. I neri vengono bollati quali ignoranti e criminali e un processo di inclusione funzionale, sicuramente impossibile ai tempi di Griffith, viene tentato soltanto a partire  dalle campagne per i diritti civili, quando l’emancipazione nel Sud viene con mille cautele inserita nel piano di riscossa democratica kennediana, buona anche per la propaganda anticomunista. Non funziona però né con Martin Luther King né con Malcolm X e ancor oggi vediamo quante contraddizioni produca nella filmografia di Spike Lee e nel suo porre la soggettività black come protagonista “buono” in Vietnam. Diciamo che funzionava meglio il feroce ed esausto Kurtz per mostrare il fallimento di quella guerra.

L’invisibilizzazione morale del nemico, con molto minori problemi di trauma (dato che si tratta di eserciti professionali e non di leva), riguarderà anche il secondo ciclo, quello della “guerra al terrore” e dei conflitti in Iraq e Afghanistan. Lo spettacolo continua a fare incassi, fin quando, però, la guerra civile simulata si fa reale e arriva nelle strade d’America – e allora si apre tutt’altro discorso e le vite degli oppressi cominciano a contare e pure i loro nomi, le loro storie.