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CULT
Il segreto del mondo
“Le città di pianura“, un film del 2025 diretto da Francesco Sassi, interpretato da S. Romano, P. Capovilla e F. Scotti, mostra le vicende picaresche di tre perdigiorno che vagano per la campagna veneta alla ricerca di un tesoretto sepolto anni prima
Carlobianchi e Doriano sono in macchina dopo esser fuggiti da un posto di blocco. Ubriachi, devono raggiungere Venezia. Seminano la polizia, spengono i fari, si fermano al buio in una strada desolata. Nel nero, comincia una conversazione lenta che raccoglie la durata della pellicola nel suo concetto-istante. È Notte a Torino, è buia la sala dove mi trovo, è oscuro il maxischermo e questo denso niente avvolge due perdigiorno e il pubblico in una abbandonatissima comunione. A questo punto, Doriano – al secolo Pier Paolo Capovilla – riesce a guardare Carlobianchi. Non lo guarda, lo inventa. Sono due cuspidi di luce celeste immortale, fresco mattino e rinascita che si conficcano nel telo oscuro che riempie – insieme – il cinema e le vite dei protagonisti. Azzurro splendente come un piccolo Big Bang, sono occhi che creano e sfondano il buio. Siamo tuttə presi in questo messaggio che attraversa i codici ed i loro supporti materiali. Qui torniamo tuttə alle nostre pianure senza vette, alle preghiere di vette che sbrodoliamo, che vomitiamo, che abbozziamo, che urliamo contro la nebbia.
L’ultimo bicchiere non viene mai. Su questo luogo ed esperienza così comune e banale, non si installa alcun tono melodrammatico, nessuna estetica nichilista – anche se, ovviamente, un fondo nichilistico c’è. Doriano non è Bukowski, non è patetico, non muove alla compassione col reietto. Tutti coloro che compaiono sono, pur nella reiezione, anche salvi. Ecco il rolex dell’operaio ludopatico, ecco Genio, fieramente composto nel suo ritorno dalla latitanza. Tutti hanno una dignità non compatita né esaltata, non sono né eroi né in fondo vittime, non sono estetizzati in caratteri, in tipi. Questo fa sì che la piatta provincia, il nebuloso esserci, questo sfocato soggetto e sfondo ubiquo della narrazione, questa profondità che arriva in superficie, il cum-testo a tutti gli effetti, non sia celebrata. Non è un film sugli stereotipi, ma contro.
I protagonisti sono dei perdigiorno che consumano in alcool, cibo e benzina per la loro casa-macchina i soldi guadagnati non lavorando per un padrone ma rubandogli e rivendendo al nero. La pianura è situazione ontologica e meteorologica, ma loro non sono piattamente imbruttiti e imbarbariti. C’è una resistenza, un retrogusto positivo e una attività affermativa nel ripetuto motto «l’ultima non viene mai».
Non dice il loro loop solamente, ma anche la meta che ritorna al mattino: andare all’aeroporto a prendere l’amico, far crescere Giulio, il tesoro, la Mery, le occasioni casuali. L’ultimo giorno non viene mai, dalle tenebre è pieno di finestre affacciate sul mondo. Falsa e necessaria negazione della notte, gesto creativo nel deserto, occhi blu: c’è sempre un nuovo caso, un tedesco al bar, un conte, un autogrill dove la solitudine può sterzare in qualcosa di nuovo.
Giulio è questa luce anticipata, figurata dantescamente dalla conversazione a piena notte dell’inizio. Lui forse più vicino al carattere, alla tipologia. Ma non risulta nell’architetto hipster, nel poeta dello spazio un po’ meditabondo dietro i suoi occhiali rotondi. È polemico e filosofo, il suo Bildungsroman è una critica della pianura dall’inizio alla fine. È, si potrebbe dire, la funzione insorgente per eccellenza. L’amore di Doriano e Carlobianchi per lui fa sì che loro stessi assumano energia da questa creatura, l’apprendistato è reciproco, è un reciproco venirsi a conoscenza. Giulio viene dal sud, entra al nord, non vuole seguire i protagonisti, vuole aiutare il conte e poi se ne frega, va a bere l’ultima con Doriano e Carlobianchi, ci si ubriaca, scopa, mangiano assieme per poi fermarsi al Memoriale Brion dove Giulio si supera.
Lui sa perfettamente il progetto del Memoriale, è poetico il suo racconto. Ma non solo si schianta, sopravvive pure alla tragedia del vero in cemento armato. Ci spiega che Brion è sepolto verticalmente, che il suolo interno è rialzato dal circostante affinché il defunto possa vedere oltre. Non è, infatti, una tomba, ma una macchina per elaborare il lutto. Ecco allora che i tre protagonisti lo elaborano per tuttə noi. Giulio è infastidito dallo spazio vero, è deluso, il progetto era più bello. Intanto, Doriano cerca di sporgersi dal muro, per appunto godere della prospettiva, ma non ci riesce: paradossalmente, ai vivi è precluso l’orizzonte che solo sarebbe possibile ai morti. Ancora più forte che mai: sulla morte che dovrebbe celebrare la vita, sulla morte che sola permetterebbe di cambiare prospettiva nella pianura, la fatica di Doriano, il gesto abbozzato di saltare è critica definitiva e preghiera costruttiva. Eccola prigione, la morte. Da qui, appena vivo e ubriaco, è sforzo e non liturgia brutalista la liberazione. Comunque provare ad arrampicarsi, dentro questa tragica passione per l’infinito, dentro la ricerca spasmodica dello orizzonte in pianura, sapere la morte e il plumbeo, eppur salire a riveder le stelle, eppur voler spingere lo sguardo laggiù in fondo.
Servono pedane e aeroporti, montagne immense tecnologiche e funivie intergalattiche, altro che grigie tombe metaforiche e bugiarde. Non un memoriale, ma una macchina per liberarsi.
Così allora si comprende il fondo culinario di tutta la pellicola. Ecco perché è tutto un mescere e cucinare. In cucina, l’avariato può diventare gourmet. La cucina: che esiste e attraversa i secoli solo grazie all’amore e all’imperfezione delle ricette, esperienza comunista per eccellenza, metodo del mondo. Le lumache di Mery: le più buone per il perfetto equilibro con il burro. Lo sfondo d’osteria, oltre a essere un quadretto di genere, segna dunque la morale produttiva, creativa, gustosa del film. Doriano e Carlobianchi gozzovigliano positivamente, sono degli astuti buongustai. Così, il gelato finale è un capolavoro di autoironia e il gatto che scorre lungo i bordi all’ultima cena è cameo e celebrazione di Capovilla, carezza e noema della pellicola, pennellata di squisita intelligenza stilistica (e magari un caso, ma la fortuna è così che arriva, si procaccia, e Doriano lambisce Capovilla – forse – per un’ora e mezza), un occhiolino al cinema gremito: ehi, ho mentito, «il mio cuore è abbastanza grande per sopportare tutte le sue periferie».
Le città di pianura è un film insorgente, contro il nichilismo e la solitudine. Un film affatto banale e patetico, dove finalmente è compito del simbolo della reazione per antonomasia – il proprietario fondiario – mettersi in bocca la nostalgia per il buon tempo andato. Squarciato da una nuova autostrada, il suo giardino andrà perduto. A te la tua muffa, per noi l’urlo di gioia di Doriano e Carlobianchi a Giulio che in treno parte. Infrastruttura che tiene due cerchi in vita uniti.
In copertina un fotogramma del film
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