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Il peso temporale delle nostre fedeltà
Chiara Collamati, “Le passé qui vient. Essai sur la philosophie politique de Jean-Paul Sartre”, Vrin, Paris 2024, non è soltanto una monografia di storia della filosofia, bensì un tentativo di riattivare l’eredità di Sartre come filosofo politico
Che cosa significa oggi fare filosofia politica, situandosi nel solco della tradizione marxiana e marxista? In un contesto come quello francese, in cui il dibattito contemporaneo si svolge prevalentemente nel campo della filosofia sociale e della teoria critica, questo essai di Chiara Collamati su Sartre, Le passé qui vient, fornisce una risposta all’altezza della radicalità della crisi che la filosofia politica sta attraversando.
L’autrice moltiplica le mediazioni concettuali per individuare qualcosa di terribilmente concreto e urgente: «la possibilità di assumere, con Sartre e attraverso i suoi strumenti concettuali, una delle sfide imprescindibili per la riflessione contemporanea sulla politica: pensare una riorganizzazione dei rapporti sociali e politici che non si esaurisca nella logica del contropotere e che non presupponga un soggetto collettivo che sarebbe per essenza “oppositivo” alla macchina Stato-capitale» (p. 39). Il compito è chiaro: si tratta di affrontare il presente come un défi lanciato al pensiero, utilizzando gli strumenti concettuali di un filosofo considerato superato e inattuale già dalle sue contemporanee e dai suoi contemporanei. Il che significa che Sartre, e in particolare la Critica della ragione dialettica, è il primo “passato a venire” che il libro ci propone. Se il compito è concreto, la sfida è nondimeno squisitamente teoretica – in tutti i sensi che questo termine ha in filosofia: dall’analisi dello statuto dei concetti politici alla necessità di scardinare l’ontologia della storia di matrice heideggeriana, dal tentativo di porre le basi per una teoria del legame sociale e della sua specifica temporalità, fino al rapporto tra normatività e contingenza storica.
Come si sarà capito, il termine filosofia politica ricopre in realtà tutta la filosofia, al di là delle distinzioni disciplinari che dovrebbero rendere il percorso più “praticabile”. Chiara Collamati ci insegna innanzitutto che le opzioni filosofiche non si misurano in termini di fattibilità, come si evince da una formula che ricorre costantemente nel libro: si tratta di porre le «condizioni di “pensabilità“ delle lotte, o ancora di pensare l’intelligibilità della storia. Per evitare la trappola dell’astrazione, il libro non si stanca di problematizzare quello che Étienne Balibar ha definito “il concetto di concetto in politica“».
In ogni paragrafo, l’autrice cerca di pensare, in modo sempre più dettagliato, una certa disciplina dell’impegno politico. La riconosce in due pratiche distinte che fungono da motori dell’argomentazione: il giuramento da un lato e gli esempi dall’altro. Vale a dire, rispettivamente, una pratica del gruppo sociale e una pratica intellettuale.
Proprio perché il sociale non possiede un essere in sé, l’accento viene posto sulla dimensione delle pratiche che definiscono un gruppo, marcando uno scarto rispetto agli approcci che si rifanno all’ontologia sociale. Se il problema della politica non è tanto quello dell’essere, quanto quello del dover essere, tale normatività non informa alcuna materia preesistente. Chiara Collamati ci ricorda che, per il filosofo politico, l’etica è sempre e solo un punto di arrivo; l’esito di un percorso che richiede, come condizione preliminare, di tracciare una me-ontologia (un modo di pensare il non-essere sociale) che non dia nulla per scontato, o meglio: che non dia questo nulla per scontato. È solo riconoscendo la cavità di tale assunto che gli strumenti della politica (diritto, istituzioni) possono essere definiti precisamente come strumenti forgiati per rendere il non-essere produttivo.
Dal momento che, come scrive Sartre, ogni giuramento implica una «vertigine dell’abbandono», ciascun membro di un gruppo «ha paura di essere colui che potrebbe mettere a repentaglio il legame di reciprocità» (p. 75): in questione è dunque un modo di pensare la politica che, senza liquidare questa vertigine, ci aiuti a rimetterci in piedi per continuare a camminare insieme. La lettura che Chiara Collamati propone della Critica della ragione dialettica è guidata appunto dalla ricerca dei processi attraverso i quali il gruppo in fusione «cerca di inventare la forma della propria permanenza» (p. 63).
A causa del suo carattere evanescente, la temporalità dell’azione storica ha uno statuto ambiguo che la condanna non tanto al fallimento sistematico, bensì a un’incertezza costitutiva, vissuta dall’individuo come una sensazione di perenne ritardo rispetto alla propria epoca. Un’asimmetria che si spiega con l’intreccio di due temporalità distinte: quella delle disposizioni corporee dell’individuo e quella delle condizioni oggettive storicamente determinanti. Dialetticamente, questi due poli si producono a vicenda nel loro incontro sfasato e ciò che conta sono le pratiche dei legami a venire: pratiche costrette ad assumere il passato come loro materiale costitutivo. La nozione di praxis viene quindi ripensata per analogia con la dimensione dello strumento: la filosofia politica sarebbe il suo savoir-faire, il passato il suo materiale. Le azioni storiche si rivelano infine come degli usi del passato.
Le passé qui vient non prende mai la strada più facile. Nella veste di storica della filosofia, Collamati non si accontenta di esplorare le opere sartriane degli anni Sessanta, per smarcarle dalle critiche di Merleau-Ponty. In un punto nodale dell’opera, all’altezza del quarto capitolo, viene infatti proposta una lettura innovativa de L’essere e il nulla, opera a cui l’autrice restituisce tutta la sua carica esplosiva e il suo scandalo anti-heideggeriano – tornerò su questo punto. Ma l’aspetto forse più importante è che, nella veste di filosofa politica, Collamati non cade mai nell’astrazione dell’immediatezza, né in una concretezza storico-filosofica priva di riflessività.
Pur non nominando esperienze di lotta o pratiche politiche contemporanee, il libro è attraversato da interrogativi quanto mai attuali: come costruire un senso condiviso della storia quando ci è stato detto che le nostre vite non valgono nulla o quasi? Quando sembra che nessuno delle nostre antenate e dei nostri antenati meriti di “passare alla storia”? Come selezionare il nostro “passato futuro” e distinguerlo dalle sue forme reattive? Possiamo davvero scegliere la nostra storia, nel duplice senso della praxis e della storiografia?
La posizione di Chiara Collamati è piuttosto inusuale per una filosofa formata al pensiero hegeliano: la filosofia politica ci prepara a vivere ciò che ci aspetta.
Questo ci conduce a un altro aspetto importante del libro: la profondità con cui l’autrice tratta il tragico che la storia porta in sé, senza cadere nel romanticismo dell’azione collettiva – o ancora, dal momento che si tratta prioritariamente dello statuto del passato, senza lasciarsi sedurre da una qualche forma di “mito della storia”. Uno dei gesti fondamentali che il Sartre di Collamati permette di compiere è infatti quello di uscire dal problema della morte in prima persona: abbandonare un pensiero della morte al singolare per pensare i morti o, più profondamente, i nostri morti. Ma compresa dialetticamente, la verità della morte non sta nemmeno nel lutto, nella morte alla seconda persona. La vera morte sta tutta nello scioglimento del legame: non è tanto nella persona (che sia prima, seconda o terza) quanto nel passaggio dal singolare al plurale. Alla stanchezza e all’esaurimento del collettivo, alla vera morte, si oppone ciò che Collamati chiama «il comunismo» (p. 132): anzitutto un legame di reciprocità, una forma di fedeltà.
Fondare collettivamente il “passato che viene” significa allora inventare dei modi per riattivare il passato (potremmo definirli dei rituali) capaci di riportare in vita i morti attraverso una forma di ripetizione selettiva. Sappiamo bene che i morti non devono mai ritornare come fantasmi. Quello che ancora non sapevamo, è che i nostri morti non devono tornare nemmeno come degli eroi. Possiamo nominare questo problema con l’aiuto del primo pensatore che lo ha posto correttamente, cioè il Nietzsche della Seconda considerazione inattuale, dove vengono descritte le forze e le debolezze della storia monumentale. Che uso possiamo fare del passato per uscire dalle semplificazioni della storia monumentale, per liberarci cioè, una volta per tutte, del concetto di storicità che Heidegger ha posto al centro di Sein und Zeit?
Collamati conduce una feroce battaglia contro l’individualismo heideggeriano su almeno tre fronti: il circolo vizioso dell’essere-per-la-morte, lo sfondo nichilistico del decisionismo astratto, la visione del futuro come destino. Senza poter commentare in questa sede i densi passaggi analitici che l’autrice dedica al confronto tra Sartre e Heidegger, mi limito a riportare una frase tratta dal manoscritto Morale e storia, che potrebbe fungere da esergo alla critica a Heidegger realizzata nel libro: «l’eroe della guerra è molto spesso inadeguato per la pace che segue».
Come adattare le nostre pratiche di legame, le nostre fedeltà, in modo che esse resistano in tempi di guerra e di pace? O meglio, in modo da poterci allontanare da questa separazione un po’ artificiale che ci impedisce di vedere che, in realtà, stiamo ancora continuando a combattere?
Rispondere a queste domande non significa conferire un senso alla storia – si tratti di tutta la storia o dell’evento che è supposto riaprirla; significa, piuttosto, farsi carico della necessità di ciò che non è più, e di coloro che non sono più.
Abbandonando gli eroi a favore degli esempi, sappiamo solo cosa stiamo perdendo, poiché «gli esempi sono sempre dubbiosi». In realtà, Collamati ci indica anche cosa stiamo guadagnando: dei concetti senza artigli, riprendendo e tradendo il lemma tedesco Begriff. Un rapporto del concetto rispetto alla storia e alla politica che non è più verticalmente normativo: il concetto lascia il posto a quella che Sartre definisce nozione dialettica. La teoria non è una rete che il filosofo getta sulla storia, ma una costellazione di punti o di intensità, lo spazio aperto dal filosofo affinché le praxis del passato possano connettersi tra loro e con il presente, secondo variabili modalità di riattivazione politica. Da qui, tre suggestioni che riprendono e interrogano i grandi luoghi del libro: la storia della filosofia, la filosofia politica e gli esempi.
Le Passé qui vient instaura un rapporto con la storia della filosofia che appare al contempo intenso e ambiguo. La ricostruzione delle reti di influenze è acuta e sempre molto (quasi troppo) informata. Emblematiche a tal proposito le pagine costruite a partire da un articolo di Karl Löwith su Heidegger: l’autrice mostra come la critica di Merleau-Ponty a Sartre si sovrapponga a quella che Löwith rivolgeva a Heidegger – dal punto di vista della storia intellettuale si tratta di una congettura, la cui solidità sembra tuttavia patente se pensiamo che l’articolo di Löwith è stato pubblicato nella rivista Les Temps Modernes e che è stato letto e commentato da Merleau-Ponty. A ogni modo, dimostrare la fondatezza di tale congettura non è ciò che interessa Chiara Collamati: «Il lettore non dovrà cercare la pertinenza di questo gesto nei riferimenti o nelle allusioni, più o meno esplicite, che Merleau-Ponty, nel momento in cui si accingeva a criticare Sartre, avrebbe potuto fare a Heidegger, a Schmitt o a Löwith. È piuttosto su un piano strettamente concettuale, sul piano della sequenza logica che struttura l’argomentazione merleau-pontiana, che tale confronto trova, a mio avviso, la sua giustificazione filosofica» (p. 156).
Ne Le Passé qui vient, la storia della filosofia è costantemente sottoposta alla questione dell’esposizione filosofica, della Darstellung, che ne determina una verità ulteriore rispetto a quella della ricerca storica. Sebbene Collamati dialoghi costantemente con la letteratura critica sul Sartre politico, è molto attenta a non allontanarsi dall’oggetto specifico che intende trattare: una filosofia politica della temporalità o, come scrive all’inizio e alla fine del libro, una «filosofia politica della storia». La verità della giustificazione filosofica si gioca tutta all’altezza di un’adeguata disposizione degli argomenti: la filosofia politica sfida la storia della filosofia, usandola come un serbatoio di risorse da cui attingere, seppur con rigore.
Ci sembra, tuttavia, che l’autrice non assuma fino in fondo le conseguenze di questo gesto metodologico. Nell’ultima parte del libro, Chiara Collamati passa dalla Critica della ragione dialettica all’esplorazione di un’«etica materialista» di cui gli esempi sono al contempo «gli oggetti, il metodo e il contenuto» (p. 180) – una descrizione in linea con quelli che sopra ho definito dei «concetti senza artigli». Ora, non vi è dubbio che, dal punto di vista storico-filosofico, il metodo critico e il metodo normativo, le nozioni dialettiche e gli esempi, possano essere produttivamente accostati. Tuttavia, se ci poniamo dal punto di vista di una “filosofia politica della storia”, non siamo forse costretti a scegliere tra un metodo e l’altro, tra una forma e l’altra dell’esposizione? Il mosaico di nozioni dialettiche è davvero compatibile con la pretesa di «definire i criteri di intelligibilità formale di qualsivoglia storia» (p. 176)? Possiamo davvero integrare nell’esposizione critico-filosofica l’intelligibilità degli esempi che Sartre avrebbe scoperto o selezionato per noi, senza rinunciare alla pretesa della filosofia politica a inglobare «qualsivoglia storia»?
Immagine di copertina di Julien (flickr)
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