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«Il mondo non ci ascolta». Rifugiati e richiedenti asilo protestano a Tripoli

Davanti alla sede dell’Unhcr nella capitale libica da più di due settimane migliaia di persone stanno chiedendo di essere evacuate. Sono rifugiati e richiedenti asilo vittima di violenze e rastrellamenti da parte delle autorità del paese

È un assedio su più fronti. Migliaia di rifugiati stanno protestando davanti alla sede dell’Unhcr a Tripoli (Libia) da oltre due settimane, senza ricevere nessun aiuto o risposte soddisfacenti. Da una parte, le violenze e le gravi violazioni dei diritti umani messe in atto dal governo si sono fatte ancora più minacciose del solito: a inizio mese, nell’area di Gargaresh, milizie e forze di sicurezza affiliate al Ministro dell’Interno hanno compiuto pesanti rastrellamenti e abusi nei confronto di circa 5mila migranti (come denunciano varie testate e associazioni, fra cui Amnesty International).

Dall’altra, l’Alto commissariato delle Nazione Unite non si esprime con fermezza e, soprattutto, non sta provvedendo a evacuare le persone in un modo sicuro come invece chiede chi si è accampato nei pressi dei suoi uffici nel paese nordafricano.

«Non possiamo più stare in Libia, dobbiamo andare in un paese sicuro», racconta in un’intervista al “Manifesto” uno dei rifugiati in mobilitazione. «Qui finiamo continuamente nei centri di detenzione […]. Siamo registrati presso l’Unhcr ma le evacuazioni sono ferme. Se prendiamo il mare la guardia costiera libica ci intercetta e ci porta nei centri di detenzione, dove subiamo violenze e torture. […] Quando l’Onu visita questi luoghi raccontiamo quello che accade. Loro ascoltano. Ma la situazione non cambia». Si tratta di persone provenienti da diversi paesi, in particolare eritree, somale, etiopi e sudanesi. Oltre alle condizioni di vita già estremamente difficili nei campi di detenzione e in generale nel paese libico, si è aggiunta negli ultimi giorni una “stretta repressiva” da parte del governo che ha appunto attaccato donne e uomini che si trovavano nel quartiere di Gargaresh.

Racconta ancora la persona intervistata dal “Manifesto”, un sudanese di 25 anni: «Hanno arrestato i rifugiati casa per casa, comprese donne e bambini. Li hanno portati sulla strada principale, ammanettati, e poi nei centri. Chi ha provato a fuggire è stato colpito». Confermano le altre testimonianze raccolte nel report di Amnesty International e una dichiarazione di Georgette Gagnon, assistente segretario generale, residente e coordinatrice umanitaria per la Libia della Nazioni Unite, secondo la quale nel raid «almeno una persona è stata uccisa, mentre altre 15 hanno riportato ferite causate da armi da fuoco».

Stando a quanto ha riferito il Ministro degli Interni Khaled Mazen, le motivazioni per cui sono stati compiuti i rastrellamenti sarebbero da rinvenire nel contrasto della criminalità organizzata ma rimane poco chiaro il perché tali operazioni hanno riguardato soprattutto rifugiati e richiedenti asilo.

Fatto sta che, in seguito agli eventi, in tante e tanti si sono recati alla sede dell’Unhcr per chiedere protezione. A loro si sono aggiunte nei giorni successivi altre persone, visto che rastrellamenti e arresti sono proseguiti in diverse zone della città mentre alcuni riuscivano a scappare del centro governativo di Al Mabani, aperto a gennaio scorso e in condizioni di pesante sovraffollamento (dalle iniziali 300 persone rinchiuse si è arrivati, secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, a 3440 unità).

Anche in questi casi, si scappa da abusi, torture e violenze: ad aprile, proprio ad Al Mabani, una persona è stata uccisa e due ragazzi di 17 e 18 anni feriti con colpi di arma da fuoco. Medici Senza Frontiere parla del centro come di un posto in cui «luce naturale e ventilazione sono minime, il cibo è insufficiente e c’è carenza di acqua potabile nonché di servizi igienici». Si tratta di strutture “approvate” e finanziate anche dall’Italia, grazie agli accordi di collaborazione che il nostro paese ha stretto con la Libia.

Chi si trova ora a protestare presso la sede dell’Unhcr a Tripoli chiede dunque di poter uscire da questo sistema infernale. Chiedono protezione e cure mediche, chiedono insomma un trattamento umano e dignitoso. Le autorità del paese hanno proposto di far rientro nei centri di detenzione, ma le persone si sono rifiutate. Uno dei manifestanti, Amer Abaker (25 anni, fuggito dal genocidio del Darfur), è stato picchiato e sparato da un gruppo di uomini mascherati proprio di fronte alla sede dove si sono raccolti i richiedenti asilo, che ieri sera sono stati invece minacciati da un gruppo di persone armate.

Hanno scritto una lettera a Papa Francesco, per chiedere aiuto e comprensione, in cui affermano: «Tutte le soluzioni che abbiamo provato per uscire da questa situazione disperata sono fallite: il mondo non vuole ascoltarci».

Parole che sembrano trovare conferma nella fredda risposta data dall’Unhcr alle richieste dei manifestanti: «Le regolari attività della nostra struttura continuano a essere sospese», scrive l’Alto commissariato delle Nazioni Unite nel suo comunicato di commento alle vicende. «L’Unhcr consiglia al momento di astenersi dall’avvicinarsi al centro e di evitare grandi assembramenti di folla. […] Tutti i voli umanitari in uscita dalla Libia sono al momento sospesi sulla base delle decisioni delle autorità libiche». Inoltre, stando a quanto riporta il profilo Twitter di Refugees in Lybia, il capo missione Jean Paul Cavalieri non ha «mostrato alcun segno di attenzione» nei confronti delle proteste che stanno avendo luogo di fronte agli uffici.

Intanto, però, crescono i primi segnali di solidarietà. L’organizzazione non governativa con sede negli Stati Uniti Tsilal Ade ha lanciato una raccolta fondi a sostegno di rifugiati e richiedenti asilo “asserragliati” a Tripoli, che ha ricevuto al momento donazioni per oltre 12mila dollari. La rete di gruppi e associazioni “Abolish Frontex” ha espresso la sua solidarietà, mentre venerdì a Brixton (Regno Unito) si è svolto un presidio di sostegno. Oggi è ufficialmente il diciannovesimo giorno di protesta.

Tutte le immagini dal profilo Twitter di Refugees in Lybia