EUROPA

“In her shoes”: le donne irlandesi verso il referendum sull’aborto

Il prossimo 25 maggio in Irlanda si svolgerà il referendum abrogativo dell’8° emendamento. La vittoria del Si aprirebbe la strada alla depenalizzazione dell’aborto in Irlanda. L’esito non è ancora scontato, il fronte del Si punta su una mobilitazione generale e in prima persona delle donne e della società civile con lo slogan #repealthe8th – abroghiamo l’8°

Il 25 maggio l’Irlanda torna al voto per l’abrogazione dell’8° emendamento della costituzione in cui si  riconosce l’identità giuridica del “non nato”, equiparando la vita della donna a quella del feto. L’emendamento, introdotto e ratificato con un altro referendum che nel 1983 vide la maggioranza del 67% a favore, è il fondamento di una delle leggi più restrittive al mondo in materia di interruzione di gravidanza.

L’aborto infatti è vietato in ogni caso, con la sola eccezione in cui la gravidanza determini un grave pericolo per la vita della donna. Questa modifica alla legge è stata introdotta solo nel 2012 quando l’opinione pubblica fu scossa dalla morte di Savita Halappanavar, riaprendo il dibattito sull’aborto. Entrata in ospedale per un aborto spontaneo in corso, Savita chiese inutilmente l’interruzione di gravidanza d’urgenza, ma gli fu risposto «questo è un paese cattolico» e i medici non intervennero provocandone la morte per setticemia.

Le pene detentive previste per i medici che praticano l’aborto restano un deterrente efficace per far sì che si continui a non intervenire anche nei casi in cui la vita della donna e a rischio. (Del resto anche in Italia, malgrado la legge lo consenta, l’aborto terapeutico è subordinato alla sopravvivenza del feto e incontra il continuo ostacolo degli obiettori di coscienza nei reparti di ostetricia e ginecologia, i quali rifiutano di praticarlo, anche in casi di massima emergenza, in presenza del battito cardiaco del feto. Il caso di Valentina Milluzzo ne è tragica testimonianza).  

In Irlanda, quindi, per abortire le donne sono costrette a “partire” – questo l’eufemismo che si usa negli ambulatori tra medici e pazienti alle prese con una gravidanza non desiderata o problematica – a raggiungere, cioè, le cliniche britanniche o, per chi non ne ha i mezzi, a ricorrere all’aborto “fai da te”.

 

«Ogni giorno 12 donne che vivono in Irlanda abortiscono. 9 partono per il Regno Unito per avere accesso a un aborto sicuro nelle strutture sanitarie. Le restanti 3 rischiano 14 anni di carcere per ricorrere ad un aborto sicuro ma illegale reperendo la pillola abortiva in rete. Queste sono alcune delle loro storie».

 

Questo è il messaggio che presenta la pagina facebook in her shoes – “nei suoi panni”, sottintesa la domanda, tu che faresti?

Aperta lo scorso gennaio, la pagina raccoglie le testimonianze di donne che hanno affrontato sulla loro pelle le conseguenze dell’8° emendamento. Queste testimonianza sono anonime ma si accompagnano alla foto delle scarpe di chi scrive: sono una sorta di firma, simile e differente da tutte le altre come lo sono le storie che raccontano.

La campagna recupera l’immaginario delle scarpe rosse contro i femminicidi ma ne rovescia il segno. Non celebra le vittime ma afferma una pratica di resistenza, rappresentando la pluralità di corpi diversi, vivi e in carne e ossa che affrontano un aborto e ne rivendicano la legittimità, rompendo lo stigma su cui si regge la marginalizzazione e la criminalizzazione per quanto riguarda la libertà di scelta delle donne in materia di salute sessuale e riproduttiva.

Rompere il silenzio e la vergogna serve anche a ricostituire legami di solidarietà e di riconoscimento in un paese in cui la minaccia della condanna morale e penale ricorre ossessivamente. In questo senso forti sono gli echi del #metoo ma anche degli altri movimenti per l’accesso all’aborto in atto, in particolare pensiamo alla Polonia e all’Argentina. La forza di una mobilitazione singolare e diretta è un filo conduttore delle lotte per l’autodeterminazione che attraversa i decenni e i continenti.

Al di là di ogni estremismo ideologico e religioso, infatti, sono le donne a pagare le conseguenze di una sessualità non libera, ad essere stigmatizzate qualunque sia la loro scelta.

L’esito del referendum non è scontato, è ancora larga la percentuale degli indecisi, seppure molto siano già cambiati gli equilibri nella società irlandese dal 1983 a oggi.

È sul piano culturale che si giocherà questa battaglia, e sulla capacità di una società intera di fare i conti con se stessa.